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    Dal diluvio all’arcobaleno


    Pg e Arte / Storia “artistica” della salvezza

    Maria Rattà

    Il tema del diluvio universale consente agli artisti di sfoggiare una varietà di registri profondamente diversi, che si sposano con le differenti epoche e con le molteplici sensibilità dei grandi maestri. Il mondo dei codici medievali presenta spesso una visione dell’evento in toni favolistici e suggestivi, dall’ambientazione fino alle tonalità cromatiche. L’arca appare di volta in volta nelle fogge più strane, come vera e propria casa (tale, ad esempio, l’immagine che ne dà il Bedford Hours del XV sec.), ora come oggetto tondeggiante. Ma accanto a queste raffigurazioni un po’ strane, che si affiancano a quelle più antiche in cui l’arca è una vera e propria cassa chiusa, non mancano neppure le sue rappresentazioni in forma di barca o nave. Così, per esempio, la si vede nel Manoscritto di Caedmon del X sec., in cui addirittura essa assume le fattezze di un’imbarcazione vichinga con la prua a forma di drago, o nella Bible historial del 1320-1340 c., e, ancora in una Bibbia tedesca del 1570. Interessante è anche la trasposizione artistica dell’arca nel mondo orientale. La si ritrova nelle miniature ottomane, che nel trattare l’episodio presentano all’osservatore uno stile lontano da quello occidentale, ma non per questo meno affascinante, nell’illustrare la storia del profeta Noè, personaggio non solo biblico, ma anche coranico. Abbandonando l’universo dei codici miniati e riapprodando in Occidente, la cattedrale di Modena offre, nella visione di Wiligelmo, un’ulteriore idea dell’arca. L’artista, nel XII sec., la rappresenta nella foggia di una basilica romanica, con quattro arcate sia nella parte inferiore che in quella superiore. Qui, al pari che nelle miniature, compaiono i volti di alcuni dei personaggi, in questo caso Noè e sua moglie, affacciati attraverso le arcate.
    Impetuose come le acque che travolgono il mondo durante il diluvio sono invece le immagini pittoriche. Le tele ora si popolano personaggi – in un moto frenetico in cui gesti concitati e/o il dirompente effetto delle forze della natura esprimono la tragicità del momento–, ora si concentrano solo su alcune scene ben precise, inquadrando l’angoscia e il terrore di chi sta cercando di salvarsi o di essere salvato. In entrambi i casi, i quadri sembrano essere animati da voci e rumori, come se si potessero udire le urla umane, il boato del vento, il fragore del mare. I corpi diventano a volte vere e proprie catene, come ne Il Diluvio di Gustave Doré del 1866, o ancor più nella scena ritratta da Francis Danby, nello stesso secolo. Qui, in un intreccio di rami ed esseri umani, quasi immersi nelle acque, la composizione sale verso l’alto, dove è uno sperone roccioso su cui alcuni stanno cercando di salire per mettersi in salvo. Curiosa è la presenza di un angelo (nella sezione destra della tela) afflitto dal dolore dinanzi a un corpo morto, deposto su una zattera di fortuna, quasi segno della compassione divina per l’uomo che, con i suoi peccati, ha meritato il castigo.
    Luci e ombre giocano un ruolo fondamentale nelle opere pittoriche del diluvio. Amplificano la drammaticità del momento, lavorando a mo’ di fari teatrali che catalizzano lo sguardo dello spettatore, come nella tela di Ivan Aivazosvky del 1864, in cui il bagliore che proviene dall’angolo sinistro del cielo spinge a osservare subito lo sperone roccioso su cui vari personaggi hanno trovato rifugio o stanno faticosamente arrampicandosi. Quest’angolo illuminato entra in netto contrasto con il cielo e il mare, drammaticamente scuri, come inchiostro che inghiotte la vita, sbiancato solo da una debolmente illuminata linea d’orizzonte. Il segno della furia che ha travolto ogni cosa si fa presente anche nelle immagini che riportano al dopo-diluvio. Così, nella miniatura della Compilation des Cronicques et ystores des Bretons, del XV-XVI sec., la colomba che ritorna da Noè recando nel becco il ramoscello d’olivo, segno della che le acque si sono ritirate dal suolo e che la vita sta rinascendo, è accompagnata dalla presenza del corvo, che si ferma sul cadavere di un uomo. James Tissot dipinge una scena ancor più realistica, con l’arca incagliata a riva, fra rocce su cui si sono riversati tronchi d’albero divelti. Filippo Palizzi, nel XIX secolo, rappresenta il momento dell’uscita dall’arca: gli animali che sembrano impazienti di riappropriarsi del loro habitat (come il cinghiale e il leone, colti nella foga della libertà riconquistata) si ritrovano immersi in un paesaggio desolato, a cui fanno da sfondo un edificio diroccato e un cielo a tratti ancora plumbeo, a tratti già schiarito, segno di un mondo che si riprende oltre la morte. Anche William Turner, nel 1843 c., decide di optare per una visione che si carica di positività. La sua è una tela quasi astratta, colma di simbolismi. Tondeggiante, caotica, come in una sorta di nuova creazione, in essa compare un serpente, rimando chiaro all’Antico e al Nuovo Testamento, al serpente innalzato da Mosè e Cristo, innalzato sulla croce, salvezza definitiva per l’uomo. L’insieme delle cose, e il gioco di luci diventano così espressione del nuovo patto di alleanza sancito tra Dio e l’umanità, con la fine del diluvio. Joseph Anton Koch, nel suo Paesaggio con il sacrificio di Noè del 1803, fonde poi la scena sacrificale con la comparsa dell’arcobaleno che Dio manda nel cielo come segno di alleanza ristabilita. In tal modo, tanto la fedeltà all’alleanza dell’uomo quanto quella di Dio sono espresse contemporaneamente. L’idillio del momento si spezza però quando Noé, ubriaco, si denuda, e Cam, uno dei suoi figli, va a raccontarlo agli altri che, con grande delicatezza, portano l’anziano genitore in spalle e lo coprono, camminando all’indietro per non vederlo e così mancargli di rispetto. James Tissot descrive la scena con dovizia di particolari, attento a dettagli come il lembo della stoffa che va perfettamente a coprire le parti intime del vecchio Noé, impedendo così anche all’osservatore di macchiarsi della stessa indelicatezza di Cam. Squisito e carico di pathos è il bassorilievo di Baccio Bandinelli, Ebrezza di Noé del 1530 c. Il vegliardo viene rappresentato accanto alla botte del vino, mentre suo figlio Cam, seduto difronte a lui, lo osserva, con atteggiamento indolenza e insolenza. Gli altri due figli afferrano con prontezza alcuni drappi, che fanno anche (assieme al ramo d’albero in alto) da “cornice” alla scena. Nel volto di uno dei due, rivolto verso lo spettatore, si legge tutto il disgusto per quanto fatto da Cam. È lo stesso disappunto che esprimerà, Noé, tornato sobrio, nelle pagine bibliche. Viene infatti minata la relazione padre-figlio, proprio come nei primi capitoli della Genesi il peccato aveva incrinato il rapporto uomo-donna e quello uomo-Dio.


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