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    La costituzione pastorale del Vaticano II. Novità non ancora accolte



    Vaticano II e i giovani

    Carlo Molari 

    (NPG 2013-04-62)


    La Gaudium et spes (GS) è stata la Costituzione che ha trovato le maggiori difficoltà nella ricezione, per cui la sua incidenza nella vita ecclesiale in questi anni non è stata molto rilevante. La riforma liturgica e le sue novità, lo sviluppo della ecclesiologia e le sue numerose ricadute pastorali, la estesa diffusione delle conoscenze bibliche con l’ampio uso della Scrittura nelle comunità ecclesiali, hanno consentito una evidente ricezione delle tre Costituzioni dogmatiche del Concilio Vaticano II. La Costituzione pastorale, invece, è rimasta ai margini dell’attenzione e delle scelte concrete delle comunità ecclesiali. Erick Borgman, un laico domenicano fiammingo, in Concilium ha parlato del «futuro mancato di un documento rivoluzionario».[1]
    Le ragioni di questo fatto sono varie. La principale risiede nelle profonde innovazioni di metodo e di dottrina che essa contiene. Per questo nel futuro la GSP sarà, presumibilmente, il documento conciliare dalle maggiori possibilità di applicazione per lo sviluppo di aspetti importanti della vita ecclesiale.
    D’altra parte la GS era stata anche la costituzione che aveva incontrato maggiori difficoltà nella redazione. Anche per questo è stato l’ultimo documento approvato e non pochi avevano proposto di darle una forma meno impegnativa, o, addirittura, di rinunciare alla sua pubblicazione.[2]
    La commissione mista, incaricata di elaborarlo ha invece insistito perché venisse discusso e approvato, pur riconoscendo la relatività di alcune affermazioni della seconda parte.
    Non intendo fare un’analisi delle ricezione che il documento ha avuto nella Chiesa universale o nelle comunità italiane. Vorrei solo indicare alcune piste di riflessione per evidenziare alcune urgenze disattese, con lo sguardo rivolto al futuro. Limito l’analisi al proemio (n. 1-3), alla esposizione introduttiva (n. 4-10) e alla prima parte della costituzione: La chiesa e la vocazione dell’uomo (n. 11-45), perché vi sono indicati alcuni principi di metodo e di dottrina profondamente innovatori, che ritengo non ancor completamente assunti.
    In particolare vorrei chiarire due aspetti: 1. l’importanza di alcuni cambiamenti culturali richiamati dalla Costituzione e le loro conseguenze per la evangelizzazione; 2. l’antropologia unitaria e dinamica proposta e gli sviluppi che essa dovrebbe avere.
    Analizzerò dunque ora i cambiamenti culturali e le loro conseguenze per la evangelizzazione
    Le affermazioni della GS relative ai cambiamenti culturali in corso sono fra le più rilevanti del Concilio dal punto di vista metodologico. Anche perché chiudono un lungo passato di opposizione e di rifiuto radicale della modernità, che ha contrassegnato la dottrina e la prassi ecclesiale.
    Dei molti aspetti che hanno incidenza nella pastorale e nella evangelizzazione ne richiamo due: il riferimento alle acquisizioni della scienza della natura e l’attenzione alla svolta linguistica della cultura.

    LA CULTURA SCIENTIFICA

    La GS ha riconosciuto che
    «il presente turbamento degli animi e la trasformazione delle condizioni di vita si collegano con una più radicale modificazione che sul piano della formazione intellettuale dà un crescente peso alle scienze matematiche, fisiche e umane, mentre sul piano dell’azione si affida alla tecnica, originata da quelle scienze» (GS 5 EV 1329).
    Questa affermazione non è una novità assoluta,[3] ma rappresenta una ammissione molto significativa per la comunità ecclesiale, in particolare in ordine alla sua testimonianza. Non è infatti possibile annunciare in modo efficace il Vangelo con formule e modelli culturali non sintonizzati con la visione del mondo attualmente diffusa. La GS ha rilevato, a questo proposito, che «per ragioni contingenti, l’accordo fra la cultura e la formazione cristiana non si realizza sempre senza difficoltà» (GS 62, EV 1 1526). Scendendo più nei particolari la Costituzione ha precisato che il cambiamento consiste, fondamentalmente, nel passaggio da una «concezione piuttosto statica dell’ordine ad una concezione più dinamica ed evolutiva» (GS 5, EV 1, 1329). Il Concilio ha sollecitato i credenti a tenere conto di questo cambiamento profondo, perché, a suo giudizio, ne sarebbe derivato «un formidabile complesso di problemi», che avrebbero richiesto «nuove analisi e nuove sintesi» (GS 5, EV 1, 1329).
    Come è noto tutte le riflessioni antiche sul cosmo e sul senso dell’esistenza umana si svolgevano in un quadro creduto fisso e immutabile. I processi della natura si pensava fossero retti da leggi deterministiche e venivano interpretati secondo paradigmi stabili. Il Qohelet traduce molto bene questa prospettiva culturale quando scrive:
    «Una generazione va e una generazione viene; ma la terra resta sempre la stessa. Il sole sorge, il sole tramonta e si affretta verso il luogo da dove risorgerà. Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; gita e rigira e sopra i suoi giri e sopra i suoi giri il vento ritorna. Tutti i fiumi vanno al mare, eppure il mare non è mai pieno; raggiunta la loro meta, i fiumi riprendono la loro marcia..... Ciò che è stato sarà, e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole» (Qo 1, 4-7. 9).

    Una prospettiva dinamica

    Nell’ambito scientifico il passaggio da una prospettiva statica ad una dinamica è avvenuto negli ultimi quattro secoli attraverso scoperte e acquisizioni progressive da parte della biologia fossile, della geologia, della paleoantropologia e della embriologia che hanno condotto alle teorie biologiche evoluzioniste. Sono poi seguite le acquisizioni della fisica, dell’astronomia e della cosmologia. La fisica nucleare ha chiarito le dinamiche delle componenti elementari della materia, la relatività e la meccanica quantistica hanno consentito il superamento della meccanica newtoniana e hanno offerto modelli completamente nuovi per interpretare il mondo, mentre l’astrofisica e la cosmologia hanno esteso l’applicazione di queste acquisizioni all’origine e allo sviluppo dell’universo nel suo complesso. La teoria standard considera il cosmo in divenire da quando circa 14 miliardi di anni or sono è iniziato il suo processo. Gli elementi primordiali molto semplici (quark, fotoni, elettroni) congiunti fra loro hanno costituito i primi mattoni della materia (protoni, neutroni). Essi a loro volta sono stati uniti dall’energia immensa presente nel centro delle grandi stelle e hanno originato tutti i complessi elementi che formano la materia.
    Tutta la realtà è considerata oggi come un grandioso processo di scambi energetici dalla particella più piccola, alla più immensa galassia in una profonda unità, secondo dinamiche soggette spesso alla casualità e all’indeterminatezza.
    «Il mondo della fisica classica, descritto da Newton e Maxwell, era chiaro e determinato, popolato da particelle di materia, che seguivano traiettorie definite e dall’onde nell’etere in stati definiti di oscillazione. Questo universo si evolveva nel tempo secondo rigide leggi. Nel nostro secolo questa immagine si è dissolta nel nebuloso mondo discontinuo della teoria quantistica.. Di solito, il risultato di un esperimento, non è completamente determinato, ma esiste una varietà di risultati possibili.
    È lecito assegnare un certo grado di probabilità a ognuno degli eventi possibili, ma non si può invece individuare alcuna causa per la sua reale occorrenza in una determinata occasione. Il familiare solido mondo di ogni giorno diventa oscuramente inaffidabile nelle sue radici subatomiche».[4]

    Incidenze teologiche

    Nella concezione statica tutto è fissato fin dall’inizio, anche il movimento è determinato e non ammette deviazioni. La creazione e la storia umana, in questa luce, sono pensate perfette e complete mentre il male e le imperfezioni sono ritenute conseguenze di eventi negativi posteriori (come il peccato dell’uomo) o interventi di agenti perversi (come un dio cattivo o il demonio). La perfezione dell’uomo sta all’inizio, nel paradiso terrestre. La redenzione non potrà essere altro che un ritorno alle origini, la restaurazione del passato! Ogni novità per questo desta sospetti.
    Secondo la visione dinamica invece la perfezione non sta all’inizio, bensì alla fine del processo evolutivo. Se nella prospettiva statica per conoscere la perfezione occorre volgere lo sguardo indietro, in quella dinamica occorre guardare avanti e protendersi verso il futuro. La creazione non è ancora finita e la forza creatrice non ha ancora espresso tutte le possibili perfezioni contenute nel «progetto uomo».
    Il tempo in questa visione acquista una valenza straordinaria. Il tempo non è il luogo dove le cose accadono, bensì la struttura intima delle creature: esse sono tempo. L’uomo ha bisogno di eventi e di esperienze per interiorizzare i doni divini: «inserito in un processo evolutivo globale, accoglie la vita solo a frammenti»,[5] portandosi dietro il passato, interiorizza i doni del presente, attendendo il futuro. Da questo fatto conseguono numerose caratteristiche tra cui, come vedremo, l’imperfezione e l’incompiutezza di tutte le creature e quindi la possibilità del male.
    Tutte le formule di fede che ci sono pervenute sono nate all’interno di un orizzonte culturale statico e rischiano di non essere più comprese all’interno del nuovo orizzonte. Di qui l’urgenza di una nuova evangelizzazione. Si ha l’impressione, tuttavia, che non si voglia dichiarare esplicitamente la necessità del cambiamento, per non squalificare l’insegnamento passato della chiesa. Si vuole dare l’impressione che si tratti di uno sviluppo omogeneo del pensiero e che vengano dimenticate le dottrine insegnate sullo stato primitivo dell’uomo, sulle sue strutture, sul suo divenire. Si pensa che passando le generazioni non si avvertirà più la differenza dell’insegnamento. È un’illusione molto pericolosa.
    Un esempio tipico, tornato recentemente ancora alla ribalta, è quello relativo all’evoluzionismo biologico: l’origine della vita e i suoi sviluppi dalle forme più semplici fino alla straordinaria complessità delle specie umana. Nella chiesa cattolica l’evoluzionismo è stato recepito molto lentamente.
    Pio XII, che valutava in modo positivo le teorie cosmologiche perché compatibili con la fede nel creatore, nell’enciclica Humani Generis (1950) presenta l’evoluzionismo biologico solo come «una ipotesi» che può essere presa in considerazione anche dai cattolici, ma con alcuni limiti. Giovanni Paolo II, invece, in un messaggio alla Pontificia Accademia delle Scienze (22 ottobre 1996) lo considera «una teoria» impostasi all’attenzione dei ricercatori «grazie alla convergenza di molti risultati indipendenti».[6]
    Oggi le discussioni sono riprese a proposito del finalismo dei processi biologici.[7]
    Questa discussione si inserisce nelle polemiche, a volte molto accese che negli Stati Uniti contrappongono evoluzionisti e creazionisti.[8]
    Credo resti ineccepibile la conclusione di Ludovico Galleni che ritenendo necessaria «l’accettazione ormai definitiva della prospettiva scientifica evolutiva» da parte dei teologi, scrive:
    «Un Dio che crea un mondo in evoluzione, che si caratterizza per l’emergenza di nuove proprietà, ben si accorda con la prospettiva storica della rivelazione biblica.. La prospettiva evolutiva ben si accorda anche con il concetto di alleanza: Dio vuole interagire con il mondo solo attraverso l’alleanza con la creatura libera, nella prospettiva di costruire una terra e una storia aperte al futuro. Il pensiero teologico è chiamato a confrontarsi con una conoscenza del piano di Dio sulla creazione che, secondo la lezione galileiana, deriva anche dallo studio scientifico del libro della natura».[9]

    L’ANTROPOLOGIA UNITARIA E DINAMICA

    La GS ha fatto una scelta antropologica di tipo dinamico e unitario: ha pensato cioè l’uomo in prospettiva del suo divenire attraverso i rapporti e l’unificazione di tutte le sue componenti. «L’uomo, infatti, per sua intima natura è un essere sociale, e senza i rapporti con gli altri non può vivere né esplicare le sue doti» (GS 4). In questa prospettiva può parlare di Cristo come uomo nuovo. «Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (Rom 5,14) e cioè di Cristo Signore» (GS 22 EV 1, 1385). Gesù rappresenta un momento imprescindibile dell’evoluzione della specie umana, l’inizio di una nuova fase della storia della salvezza. «In lui la natura umana è stata assunta… per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime» (GS 22, EV 1, 1386). Gesù risorto indica un traguardo cui pervenire e dona la forza necessaria per raggiungerlo. Egli ha realizzato, vivendola, una dimensione spirituale della persona mai ancora apparsa, in quella forma, nel processo della specie umana e ha così avviato una fase della storia salvifica straordinariamente ricca. La forza di amore espressa da Gesù sulla croce, ragione della sua risurrezione, e la energia comunicata ai discepoli con il dono dello Spirito, ragione della vitalità della chiesa, hanno rappresentato un salto qualitativo nella vita spirituale della specie umana e hanno avviato una tappa inedita della sua storia.

    La dimensione spirituale

    Nel processo di crescita personale e nello sviluppo della specie umana accanto alla dimensione fisica, biologica e psichica in virtù dell’azione creatrice divina a un certo momento comincia a fiorire una nuova dimensione che possiamo chiamare spirituale. È una vera mutazione, una novità radicale, che non fa parte delle componenti originarie della natura perché si realizza quando la persona compie un passo avanti nella consapevolezza e nel controllo delle proprie azioni o nella presa di possesso della propria realtà. È un passaggio notevole, avvenuto in un determinato momento della evoluzione e che nelle singole persone si attua come ultima tappa della maturità.
    L’uomo passa dalla dimensione psichica a quella spirituale, quando prende coscienza di non essere la sorgente, il centro di se stesso, ma di trovarsi inserito in un processo cosmico, attraversato da un’energia più profonda, e quando di conseguenza assume un atteggiamento di accoglienza.[10]
    L’uomo nasce materiale e diventa spirituale, nasce carne e diventa spirito, nasce natura e diventa persona. Tutto ciò vale anche per l’umanità nel suo complesso. L’umanità ha iniziato il suo cammino in una condizione di armonia perché emergeva da una situazione di animalità compiuta. Ma in ordine allo sviluppo successivo era ancora inadeguata e imperfetta.
    La specie umana è tuttora in processo culturale e spirituale, può accogliere in modo più ricco l’azione creatrice di Dio e giungere a perfezioni superiori alla attuale sua condizione. Non possiamo determinare quali caratteristiche l’umanità potrà avere in futuro e quali perfezioni potrà esprimere nella sua condizione finale.
    Se l’uomo è in divenire e se è «inserito in un processo evolutivo globale»,[11] non può restare come è, ma deve necessariamente far fiorire qualità nuove. I popoli e i gruppi sociali che vogliono restare come sono e difendere i loro privilegi bloccano la storia e frenano l’evoluzione.
    L’identità umana sia personale che specifica è in processo per il semplice motivo che riguarda una creatura inserita nel cosmo, incapace di accogliere in un solo istante la ricchezza offertale dall’atto creatore. Per questo la creatura è tempo e richiede una successione di eventi attraverso i quali il processo del suo divenire si compie. Ciò vale per la specie umana nel suo complesso e per ogni persona. Il credente pensa che la possibilità del futuro stia nella realtà di Dio già piena e realizzata e nella sua azione che offre continuamente la perfezione alle creature. Quando i cristiani parlano dell’onnipotenza di Dio si riferiscono a questa pienezza e totalità, non alle realizzazioni possibili nella creazione. Esse infatti sono sempre limitate dalle strutture create e condizionate dalle loro capacità di accoglienza. Dio nella creatura non è onnipotente, se non nel senso che può condurla a pienezza fino a poter essere, come si esprime S. Paolo «tutto in tutti» (1 Cor. 15,28). A livello umano tuttavia questa possibilità si esprime nella libertà suscitata e offerta. La persona singola e le diverse comunità sono quindi un ambito necessario per l’emergenza del futuro.
    L’identità non si acquisisce per una iniziativa personale e quindi nell’azione, né attraverso le realizzazioni esteriori. Tuttavia non si sviluppa indipendentemente dall’azione umana, perché essa è il luogo nel quale l’attività creatrice di Dio si esplica. L’agire divino non esiste fuori della creatura, bensì diventa la creatura. L’agire frenetico o meno non identifica una persona se non a livello di rappresentazione sociale, il gioco dei ruoli, tuttavia è l’ambito dove l’identificazione si realizza, quando si coglie il frammento di vita che la situazione contiene e che viene offerto. Anche per l’umanità questo avviene: quando sorse il linguaggio l’umanità acquisì un nuovo elemento di specificazione, ma in prospettiva teologica il linguaggio è l’ambito dove l’azione creatrice ha assunto nuova forma nell’umanità.
    La conseguenza di queste dinamiche è che i «migliori» tendono ad opporsi ad ogni rinnovamento, mentre i peccatori, gli ultimi, gli emarginati della società sono più disponibili alla novità, dato che non perdono nulla cambiando. Per questo nella chiesa i profeti hanno avuto sempre vita difficile: alcuni sono stati uccisi, altri emarginati. Appare sempre più vero che «i pubblicani e le prostitute ci precedono nel regno» (cf Mt 21,31).
    Qualche anno fa un antropologo notava:
    «La ricezione e l’evoluzione delle invenzioni variano moltissimo da una società all’altra all’interno dello stesso continente, e variano anche nel tempo all’interno di una stessa società. Al giorno d’oggi le nazioni islamiche del Vicino Oriente sono abbastanza conservatrici e non certo in prima linea nel campo dell’innovazione tecnologica. Ma nel Medioevo le società di quelle zone erano l’esatto contrario: avevano tassi di alfabetizzazione assai più alti di quelli europei, ed erano il tramite tra la civiltà greca e la nostra… Anche in Cina si registrarono oscillazioni simili… In ogni parte del mondo, in ogni epoca, si possono avere società aperte o chiuse al nuovo, e anche all’interno delle singole civiltà la situazione può mutare nel corso del tempo».[12]

    Chiamati all’identità di figli

    Secondo la terminologia cristiana il passaggio dalla dimensione psichica a quella spirituale viene descritta come acquisizione dell’identità filiale. L’uomo «è chiamato a comunicare con Dio stesso in qualità di figlio e a partecipare alla sua stessa felicità» (GS 21 EV 1, 1380). La Costituzione pastorale presenta la condizione filiale come una «chiamata» o «altissima vocazione» a cui rispondere. Gesù infatti «svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (GS 22 EV 1, 1385). Il problema teologico che si pone a questo riguardo è stabilire quale rapporto esista tra l’energia creatrice e la forza dello Spirito dono del risorto, e quindi tra l’azione santificatrice di Cristo e la condizione primitiva dell’umanità.
    Nella prospettiva dinamica ed evolutiva la risposta è chiara: Gesù ha portato a compimento una tappa della storia salvifica e ha dato inizio ad una nuova. La sua avventura cioè rappresenta una irruzione dello Spirito nella storia umana, qualitativamente più ricca di quella iniziale, e che può essere definita condizione filiale nuova rispetto alla condizione della creatura originale.
    L’insegnamento di Gesù è chiaro e insistente. Egli, secondo la tradizione ebraica, ha insegnato a invocare Dio come Padre. La filiazione di cui Egli parla non è costituita semplicemente dall’essere creati a «immagine e somiglianza sua» (Gen. 1, 26s.), anche se questo dato è il terreno su cui il nuovo germe dello Spirito viene seminato. Quella di cui parla Gesù, infatti, è una figliolanza che si realizza nel tempo ed è condizionata da atteggiamenti specifici quali l’amore per i nemici e la misericordia per i fratelli.
    «Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla,… e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,35 s.); «pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del vostro Padre celeste… Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5, 44. 45.48).
    Il cammino per diventare figli e quindi un processo che tende a un compimento, per cui non sappiamo che cosa saremo: «non è stato ancora rivelato» (cf 1Gv. 2,3) se non nell’anticipazione di Cristo risorto. Sappiamo però che quelli «degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti…, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio» (Lc 20, 36) e che saranno «simili a Lui» (cf 1Gv 3,2).

    Un inedito nella persona

    La figliolanza divina, quindi, come è intesa nel Nuovo Testamento, non è ricondotta alla semplice creazione, ma ad una qualità o perfezione ulteriore che fiorisce quando la ricchezza del rapporto vissuto con Dio, raggiunge un livello superiore, dato che Egli è fonte della vita e che «tutti vivono per Lui» (Lc. 20,38). Quando la complessità delle strutture personali consente l’immissione di una qualità nuova di vita da parte dello Spirito, fiorisce una dimensione inedita della persona. Per questo motivo nel passato, quando era diffusa una prospettiva statica della natura, la nuova perfezione veniva qualificata come soprannaturale, termine divenuto insignificante o ambiguo e quindi da evitare in prospettiva dinamica. Suggerisce infatti l’idea di una qualità aggiunta in modo accidentale alla struttura della persona, quando invece essa è costitutiva della sua perfezione integrale. La dimensione spirituale è essenziale alla maturazione completa della persona, anche se questa nella sua condizione iniziale non è in grado di farla fiorire senza l’apporto necessario delle offerte gratuite di vita che nella tradizione biblica sono chiamate grazia. Solo un ambiente comunitario (o in genere un gruppo di elevata vita spirituale) con la propria testimonianza di fede può costituire quel clima vitale che consente all’azione creatrice di esprimere la sua potenza e realizza un inserimento effettivo in una tradizione simbolica, rituale e dottrinale.
    L’identità dei figli si sviluppa con la consapevolezza della presenza. Le situazioni vengono vissute alla presenza di Dio: c’è in gioco una realtà più grande. Un Bene più ampio si esprime nell’amore degli uomini, una Verità più profonda riluce nel pensiero, un Giustizia più rigorosa prende corpo nei progetti umani, una Vita immensa alimenta l’esistenza fino ad assumere un nome eterno «scritto nei cieli» (cf Lc 10,20). Il riconoscimento e il rispetto di questa presenza conduce a vivere positivamente tutte le situazioni, anche quelle che si riconoscono ingiuste e negative (come fu la croce per Gesù).

    Tre diversi modelli per la figliolanza

    Quando si tratta di determinare quale sia la ragione della novità di vita per cui nello sviluppo la persona giunge alla identità filiale, i modelli utilizzati sono diversi.
    Paolo parla di adozione; Giovanni, Pietro e Giacomo preferiscono il termine di generazione, la seconda lettera di Pietro parla di «partecipazione alla natura divina» (cfr. 2Pt 1,4). La diversità dei modelli si spiega per il fatto che la realtà è più complessa delle nostre idee e che quindi è necessario ricorrere a metafore e ad espressioni simboliche, che vengono scelte secondo la sensibilità e la cultura degli ambienti o delle persone.
    Il modello dell’adozione è molto chiaro e facilmente comprensibile. Paolo lo utilizza con frequenza. Gesù è venuto «perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,5). La ragione di questa filiazione non è la condizione creata bensì la fede e la grazia dello Spirito. I discepoli di Gesù diventano figli per la fede in Cristo (Gal 3,26) e per la forza dello Spirito che egli comunica: «e che voi siate figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio» (Gal 4,6-7). Anche gli Israeliti avevano ricevuto «l’adozione a figli» (Rom 9,4), non però «per il fatto di essere discendenza di Abramo… cioè non sono considerati figli di Dio i figli della carne, ma come discendenza sono considerati solo i figli della promessa» (Rom 9,7.8) e la promessa si accoglie nella fede.
    Ai cristiani di Roma Paolo ricorda con enfasi:
    «Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: ‘Abba Padre’. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio» (Rom 8, 14-16).
    Ne derivano conseguenze operative: «siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere» (Fil 2,15); «imitatori di Dio quali figli carissimi» (Ef 1,5).
    Il modello della generazione, preferito da altri, è più forte e incisivo. Secondo la tradizione giovannea noi siamo veri figli di Dio («lo siamo realmente» 1Gv 2,1). perché generati da Lui in una nuova nascita, che avviene «dall’alto» (Gv 3,5). «Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio» (1 Gv 4,7).
    La generazione si era già realizzata prima della venuta di Gesù Cristo, là dove il Verbo eterno di Dio era stata accolto: «A quanti però l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome: i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono generati.» (Gv 1,12-13). Dopo la «venuta nella carne» e «l’effusione dello Spirito» la generazione dei figli si è estesa sempre più e ha creato il popolo nuovo dell’alleanza.
    L’azione divina comunica una qualità nuova, offre una identità, suscita una dimensione spirituale che si prolunga oltre la morte e per questo è chiamata anche «vita eterna» (Gv 6, 40.47.54). Ad essa corrisponde un particolare tipo di amore, che i primi cristiani hanno chiamato con il termine greco «agàpe», già utilizzato dai traduttori in greco della bibbia ebraica per esprimere l’amore di Dio. Questo tipo di amore è accompagnato da una particolare conoscenza di Dio («conosce Dio» 1Gv 4, 7) per cui il discepolo non ha bisogno di essere ammaestrato sulle cose divine (1Gv 2, 20.27). Dio stesso attraverso il suo Spirito conduce i figli alla vita e alla conoscenza. La condizione fondamentale per essere generati da Dio è la fede: l’accoglienza della sua Parola.
    Anche la lettera di Giacomo utilizza la stessa metafora quando afferma che «di sua volontà egli [il Padre della luce] ci ha generati con una parola di verità, perché noi fossimo come una primizia delle sue creature» (Gc 1, 18). Pietro a sua volta afferma che siamo «stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna» (1Pt 1,23).
    La seconda lettera di Pietro, il documento più tardivo, precisa ulteriormente la condizione filiale dei discepoli quando afferma che in virtù dei doni «grandissimi e preziosi che erano stati promessi», diventiamo «partecipi della natura divina, essendo sfuggiti alla corruzione che è nel mondo a causa della concupiscenza» (2Pt 1,4). Sviluppando questa terminologia i Padri orientali, già da Atanasio, hanno parlato di divinizzazione (theopòiesis) dell’uomo affermando che «Dio si è fatto uomo perché l’uomo potesse diventare Dio».
    Forse fra le tre metafore utilizzate (adozione, generazione, divinizzazione) quella oggi più fruibile è la generazione da parte di Dio e la corrispondente nuova nascita. Essa, infatti, evita l’insufficiente carattere giuridico della adozione e la possibile ambiguità della divinizzazione.
    Edoardo Boncinelli, come biologo e genetista, parla di tre storie di ogni persona, quella del suo genoma, che fissa le strutture di base, quella del corpo che registra le esperienze compiute, e infine quella culturale che inserisce l’individuo in una struttura linguistico/culturale di una comunità. Data l’importanza della terza storia, non solo più individuale ma sociale, egli parla di una seconda nascita della persona: «dopo quella biologica occorre aggiungere la nascita culturale».[13]
    In prospettiva più ampia, oltre a queste due potremmo quindi parlare di una terza nascita, quella spirituale e della corrispondente storia dei figli di Dio, che assumono «il nome scritto nei cieli» (cf Lc. 10,20). Anch’essa come quella culturale ha origine in un ambiente comunitario, che testimonia la fede e trasmette la forza divinizzatrice della grazia divina.

    Conclusione

    Da queste riflessioni veloci sulla Costituzione pastorale del Concilio si possono trarre diversi insegnamenti.
    Ne traggo due: l’urgenza di iniziative ecclesiali per rispondere al bisogno messo in luce dal Concilio di una epistemologia teologica per una nuova evangelizzazione, che non ha avuto ancora forme adeguate.
    In secondo luogo la riforma delle strutture ecclesiali per consentire un ascolto dei bisogni dei credenti e delle sofferenze del mondo più attento e profondo.
    Quando una riforma urgente è riconosciuta ma non attuata, gravi responsabilità si accumulano e diventano macini pesanti sul cammino della chiesa.
    I cambiamenti richiedono la pazienza del tempo, ma i tempi non possono essere eccessivamente dilatati perché giungere troppo tardi provoca rotture traumatiche spesso insanabili.
    Per la chiesa cattolica è urgente prenderne atto.


    NOTE

    [1] Borgman E., Gaudium et spes: Il futuro mancato di un documento «rivoluzionario», in Concilium 41 (2005) n. 4 pp. 64-75 [554-565] «Nell’assimilazione del concilio Vaticano II, la rivoluzione teologica significata da Gaudium et spes sembra aver avuto ben di rado un’effettiva rilevanza» p. 69.
    [2] Cenni sulle difficoltà e le diverse proposte in Mc Grath Mark M., Note storiche sulla Costituzione, in AA. VV., (Baraúna G. a cura), La chiesa nel mondo di oggi, Vallecchi, Firenze 1966 pp. 141- 156.
    [3] Oggi tutti sono d’accordo nell’affermare che la cultura è segnata dalla mentalità scientifica, che ha rinnovato in modo profondo la visione del mondo. «Le scienze formano e determinano, i rapporti interumani, ma determinano così radicalmente anche la vita del singolo che, a ragione, si può definire la nostra epoca come una epoca scientificizzata» Schultz W., Le nuove vie della filosofia contemporanea, 1: Scientificità, Marietti, Casale Monferrato 1986 p. 127. «Il mondo della vita è oggi radicalmente scientificizzato… è diventato dialettico, cioè polivalente, e proprio in base alla scientificizzazione» ib. p. 204.
    [4] Polkinghorne J., Scienza e fede, Mondatori, Milano 1987 p. 68.
    [5] CEI, La verità vi farà liberi, Città del Vaticano n. 273.
    [6] Giovanni Paolo II, Messaggio alla Pontificio Accademia delle scienze, EV 15, pp. 1346-1354.
    [7] Cf Arnould J., La teologia dopo Darwin. Elementi per una teologia della creazione in una prospettiva evoluzionistica, (GdT 270) Queriniana, Brescia 2000, pp. 84 ss. Il ritorno della finalità in biologia.
    [8] Ancora negli anni ‘80 i creazionisti, di tendenza fondamentalista si battevano nei tribunali per eliminare dall’insegnamento la teoria evoluzionista o almeno presentarla come una ipotesi tra le altre. A questo proposito il premio Nobel della fisica St. Weinberg scrive «La demistificazione della vita ha avuto sulla sensibilità religiosa un effetto superiore a quello di qualsiasi scoperta fisica, e non sorprende che il riduzionismo biologico e la teoria dell’evoluzione continuino, al contrario delle scoperte della fisica e dell’astronomia, a suscitare l’opposizione più intransigente» Il sogno dell’unità dell’universo, Mondadori, Milano 1993 p. 254. Cfr. I nuovi nemici di Darwin, Le scienze n. 446, ottobre 2005 Intelligent Design: il creazionismo evoluto pp. 36-43.
    [9] Galleni L., Evoluzione, in Dizionario interdisciplinare di scienza e fede, Urbaniana University Press-Città nuova, Roma 2002 p. 590.
    [10] Questa terminologia (psichico/spirituale) è usata da Paolo che parla dell’uomo psichico e dell’uomo spirituale (1Co 2,14; cfr anche 15, 44-48). Egli usa anche altri modelli quando contrappone l’uomo nuovo all’uomo vecchio (Ef 2,15; Col 3,10) e l’uomo interiore all’uomo esteriore (2 Cor 4,16 cfr. Rom. 7,22).
    [11] CEI, La Verità vi farà liberi, Catechismo degli adulti, Vaticano, 1995 n. 372.
    [12] Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia degli ultimi 13 mila anni, Einaudi, Torino 1998 pp. 199-200.
    [13] Boncinelli E. Necessità e contingenza della natura umana, in MicroMega. Almanacco di filosofia 4/2005 pp. 7-27 qui p. 26


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