Educare a partire dagli ultimi
Mariella Mentasti
(NPG 2012-5-73)
Abbiamo parole per vendere
parole per comprare
parole per fare parole
ma ci servono parole per pensare.
Abbiamo parole per uccidere
parole per dormire
parole per fare solletico
ma ci servono parole per amare.
(Gianni Rodari)
Emily e Daniel giunsero dal Ghana nel ’97 con un bagaglio di povertà e di speranze. Vita dura, rifiuti, qualche lavoretto. Nel 2000 nacque Betty, nel 2004 arrivò Eric. Ma durante il parto qualcosa non funzionò, i dottori li chiamarono: Emily e Daniel non capirono tutto ma «grave handicap» sì. Era chiaro, Eric non sarebbe mai stato normale. Sarebbe cresciuto nero, senza diritti, disabile. Per Daniel questo pensiero era un macigno e ne rimase schiacciato. Scelse di fuggire da un futuro che gli toglieva il respiro e gli rodeva l’anima.
Daniel se ne andò nel 2005 per non tornare più.
Emily si svegliò sola. Pianse, urlò, pregò. E poi ancora pianse, urlò, pregò.
Poi s’inginocchiò e pronunciò il suo «sì»: «Sì, Signore, fa’ di me ciò che tu vuoi, sia fatto il tuo volere, perché la tua volontà è il bene e in esso mi condurrai per mano»
I suoi bambini si strinsero a lei; lei si legò indissolubilmente a loro.
Come una cosa sola avrebbero affrontato insieme la vita.
La conosciamo così: alloggio provvisorio, senza soldi, senza lavoro.
Conosciamo il suo sorriso, la speranza stampata nello sguardo, gli occhi fissi sui suoi bambini.
Emily ha bisogno assolutamente di un lavoro prima che il legame con i suoi figli, quel filo che è senso, ragione di vita, fede nel futuro, venga istituzionalmente reciso.
Mesi e mesi di porte bussate, di colloqui, di falsi interessamenti, di rifiuti e di inganni.
Emily è stanca di parole: parole taglienti come lame, che penetrano nella vita fino a sviscerarla, parole violente, che giudicano, che ammiccano, che non chiedono il permesso. Oppure promesse non mantenute, frasi generiche, luoghi comuni: «Vedrà, faremo il possibile, stia tranquilla, ci vuole pazienza, capita a tanti, si guardi indietro, la chiamerò appena so qualcosa...». E poi... niente.
Emily ci disse una volta:
«Io non parlo bene la vostra lingua, ma conosco il significato delle parole: le posso tradurre, pensarle nella mia lingua ma poi mi accorgo che, in realtà, il significato non è lo stesso. Nella mia terra le parole dette impegnano, non ti lasciano in pace e ti tengono la mente e il cuore fissi su ciò che hai comunicato; dalle parole, nella mia lingua, non si può scappare, sono come un contratto. Non abbiamo bisogno di andare dal notaio, basta la nostra parola e una stretta di mano, con tutte e due le mani perché è come se dovessero annodarsi su quella sentenza per sempre. Le nostre parole non tradiscono: anche se devono dire qualcosa di spiacevole, lo dicono con l’amore della verità. Le parole sono gli occhi del pensiero: non servono per guardare fuori ma per aprire il mondo interiore. Solo allora le parole sono carne».
Questo ci disse Emily e nel dirlo stringeva a sé la Bibbia, il libro della Parola.
E il lavoro – se così si può chiamare – finalmente arrivò: preso al volo quando ormai si disperava, quando il legame con Eric e Betty era ormai un tiro alla fune con i servizi sociali. Solo per lo stupore e l’incanto davanti allo smisurato amore di Emily le pratiche furono provvidenzialmente rallentate, come frenate dalla potente tenerezza della mano divina.
Emily ora ha un lavoro precario, part-time e sotto-pagato in una lavanderia industriale: in un angolo, sola e in silenzio, smista la biancheria. Il suo pensiero corre a Eric, ora a scuola con l’insegnante di sostegno e a Betty, che sta costruendo i suoi sogni nonostante il colore, la povertà, il dolore dell’abbandono paterno. Emily non si può concedere sogni suoi: il quotidiano li divora sul nascere, ma si concede di entrare in silenzio in quelli di Betty e di guardarli a distanza, dimorando nella speranza.
Qualche volta, mentre lavora, le capita di trovare della moneta nelle tasche di giacche e cappotti; una volta, da una tasca interna, sfilò come per magia una fiammante banconota da 50 euro. Ma Emily dice che, se cedesse alla tentazione di appropriarsene, non riuscirebbe più a parlare con Dio né a guardare negli occhi i suoi bambini. «Ho bisogno della Sua Parola e di quegli sguardi più che di quei soldi, dice, e, con passo deciso, li consegna in direzione».
Grazie, o Padre, perché hai nascosto
I tuoi segreti a questi sapienti.
Creda il fedele che Dio è con l’umile,
che i grandi e stolti non hanno futuro:
protagonista di storia divina
è solo il povero e chi non ha nome!
(David Maria Turoldo)
Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse
A chi lo chiama Maestro Buono, Gesù non risponde immediatamente: la Sua parola è preceduta da due azioni: fissò lo sguardo, occhi negli occhi, fino a guardare dentro, fino a leggere l’animo; lo amò, perché lo sguardo della cura non può prescindere dalla relazione, e il dialogo non è uno scambio di parole/merci ma di parole di senso che toccano il cuore e chiedono una conversione totale. Solo dopo aver guardato con attenzione l’animo del giovane e averlo accolto incondizionatamente, senza preclusioni e pregiudizi, Gesù disse; per questo le sue parole non possono che essere ricche di senso, di passione, di impegno: Gesù può chiedere gesti di supremo amore perché lui per primo ha amato fino alla fine.
La parola come «casa dell’essere»
Nel nostro parlare, spesso non diciamo perché la parola ha perso quell’interrogativo sul senso che fa del linguaggio, secondo Heidegger, la «casa dell’essere». Se non riusciamo ad abitare la parola e ospitare in essa il volto dell’Altro che ci interroga, se la nostra parola non è respons-abile, cioè capace di risposta, allora il nostro parlare è vuoto e, come dice Emily, è fuga, non avvicinamento, è tradimento, non alleanza.
Il nostro linguaggio non ha bisogno di parole nuove ma di riportarle al loro significato originario, alla loro valenza relazionale e dialogica. Ha bisogno di impegno e fedeltà alla parola, di parole d’onore.
Le «parole della cura», quelle che sono in grado di custodire il valore della fratellanza, quelle che Emily riesce a tradurre nella lingua del suo villaggio, si riconoscono per alcune caratteristiche:
– Sono parole generatrici: colgono la parola non come qualcosa che svela o controlla la realtà, ma come un seme gettato nella realtà per vedere che cosa nasce. Cosa sta nascendo, cosa può nascere. Danno vita all’incontro di esistenze, al desiderio di comprendere la realtà e di non accontentarsi del «già detto» o del «così si dice», non cercano di dare risposte immediate ma di generare domande nel profondo di se stessi.
– Sono parole porose: la parola deve lasciare riserve d’aria, quelle che custodiscono l’inedito. [...] La parola porosa è quella che lascia il pensiero sospeso, in attesa d’altro. [...] La verità spesso viene come di sorpresa. La parola porosa è quella che non teme il silenzio, anzi, da esso si genera: le parole respirano in ampi spazi di silenzio; [...] la parola è la parte udibile del silenzio. Come quella di Emily, che dal silenzio recuperava parole incarnate, parole sapienziali nonostante il giudizio degli uomini l’avesse gettata all’angolo del mondo sociale.
– Sono parole che odorano di esperienza, [...] sono il luogo in cui le cose divengono, [...] in cui il significato riesce ad abitare comodamente perché sanno conservare la realtà di un’esperienza. Un’esperienza che segna, trasforma, cambia, converte, fortifica.
– Sono parole sesamo, capaci di aprire il cuore, [...] sono campi di coscienza, in grado di ricucire, di ridare senso al tempo e alle esperienze vissute, di affidarsi con fiducia, di suscitare aperture inaspettate, spiragli di speranza.
– Sono parole ornate e oneste: sono le parole della poesia e dell’impegno, della scelta di campo, dell’opzione etica. Una lingua d’amore che Emily ha tradotto in azione coraggiosa.
– Sono parole parabole: parole che narrano la verità ma non la impongono, che raccontano la vita buona, che indicano la via del senso, il luogo dell’incontro con l’ultimo, il reietto, dove ogni parola diventa dialogo, relazione, cura, dono.