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    Ulisse e Abramo

    Franco Riva


    Al mito di Ulisse che ritorna a Itaca vorremmo contrapporre la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora sconosciuta e che proibisce al suo servo di ricondurre persino suo figlio a quel punto di partenza.
    Emmanuel Lévinas, La traccia dell'altro

    Esodo

    Il viaggio incontra il destino dell'uomo. Per rendersene conto è sufficiente il richiamo a una duplice icona della cultura occidentale: Ùlisse e Abramo (cfr. Leed, 20072; Vernant, 2007).
    Oppure, basta porre mente alla fortunata immagine dell'Esodo, mai più lasciata dopo il suo ingresso nell'immaginario occidentale: a significare i cammini errabondi dell'esistenza, le rivoluzioni dell'ethos comune con un linguaggio trasversale che oltrepassa ideologie e appartenenze. E adesso perfino l'uscita dal mondo e dal corpo – uscita dal luogo – a cui sembra di essere chiamati dalle Sirene del virtuale. La forza dell'immaginario dell'Esodo è tale che rispunta perfino nelle recenti versioni liberal-democratiche (Walzer, 2004), in quelle miglioriste (Besussi, 1992, pp. 164 ss.), e nelle teorie del disincanto del mondo (Gauchet,1992). E quindi non più solo nella tradizione marxista (Bloch, 1972; Id., 1994, I, pp. 428-454; Fromm, 1970, pp. 61 ss.), nella teologia della liberazione, o nella loro attuale sintesi (Dussel, 1998).
    Che dire poi dell'icona fortunata dell'Homo Viator (Marcel, 1998), dell'esistenza intesa come un cammino intriso di speranza e di disperazione (Kierkegaard, 1993: gli stadi della vita; Buber, 1990, 2004: il cammino dell'uomo), che si radica negli Itinerari medievali, o nelle enciclopedie del sapere della stessa epoca che si dispongono secondo il ritmo responsoriale dell'uscita – l'exitus appunto – e del rientro – il redditus – a sovrascrivere, concettualmente, il cammino dell'esodo biblico verso la terra promessa e verso la nuova Gerusalemme? O ancora del modo con cui le religioni indicano se stesse in termini di «Via» (il Buddismo) o di «Strada»: la giusta strada nella vita si dice in ebraico «Halakah», la cui radice proviene da "camminare" (Fromm, 1970, cap. 6).
    Il pensiero stesso e i suoi conflitti si possono esprimere nei termini di un'interpretazione alternativa del viaggio. Anche Hegel, con un esempio che non è proprio secondario, sceglie le parole «via» e «strada» («Weg») per indicare il cammino del sapere, quello stesso che pone íl problema dell'«inizio» e che conduce ancora a parlare di un «uscire» e di un «rientrare» dello Spirito da se stesso (Hegel, 1971, p. 21). Come ci ricorda Deleuze, il «problema del cominciamento in filosofia» è sempre stato sentito e «a buon diritto come un problema particolarmente delicato» (Deleuze, 1997, p. 169), perché «ogni inizio», e soprattutto quello che ha a che fare con la «giustizia» e con l'«essere buoni», è veramente «difficile» (Rosenzweig, 2005, p. 453).
    Qualcuno ha detto che ciò «che ha creato l'umanità è la narrazione» (Janet, 1928). Questo porta il viaggio e il racconto ancora più vicini all'esistenza quotidiana, che in effetti vola sulle ali delle metafore dell'andare e del tornare, dell'uscire e del rientrare: metafore di pratiche giornaliere e di strade percorse, spazi di una città, con cui il linguaggio del viaggio fa, in bene o in male, corpo (Augé, 1993, 1999; De Certeau, 2001; Riva, Ricoeur, 2013: spazio e racconto).
    D'altronde, «cosa non è un viaggio? Per poco che si dia un'estensione figurata a questo termine – e non ci si è mai trattenuti dal farlo – il viaggio coincide con la vita, né più né meno: essa è forse altra cosa che un passaggio dalla nascita alla morte?» (Todorov, 1995, p. 101).

    Ulisse e Abramo

    Ulisse e Abramo sono gli antichi eroi del viaggio che continuano a essere riletti come figure emblematiche, come veri prototipi del viaggiare: così è, solo per fare qualche esempio, per Kierkegaard, per Joyce, per Horkheimer e Adorno, per Lévinas, per Derrida.
    Ulisse è il prototipo di un viaggio in qualche modo circolare che va da casa a casa, e che si distende in modo riconoscibile tra un'uscita e un rientro: campione dunque di un viaggio che sí ripiega, come le valve di una conchiglia dopo essersi aperte, su se stesso e che annulla in qualche modo il proprio movimento e il proprio tempo – viaggio che si ricollega a se stesso nell'identico punto da cui era scaturito disegnando un cerchio più o meno perfetto.
    Ulisse sogna di tornare a casa. Tutto il suo peregrinare, tutto il suo viaggiare è inscritto nella nostalgia per un verso – nostalgia di una casa e di una donna, di un regno e di un grembo – e nell'ostacolo per un altro verso: ogni traversia del viaggio, ogni suo ritardo si possono in fondo raccontare come la storia di ciò che impedisce un ritorno sempre desiderato e sempre differito.
    Ulisse parla le parole del passato. Abramo lascia invece tutto quello che ha per un viaggio senza ritorno. Nel suo viaggio vi è poco spazio per la nostalgia. L'immagine non sarà più quella della casa e della terra, bensì della tenda e del cammino, di una fecondità altra: icone di una provvisorietà strutturale, da cui non si torna indietro. Abramo rischia tutto per una parola destinata: una promessa fatta neppure solo a lui, ma a molti altri attraverso di lui che non conoscerà mai. E alle parole del passato subentrano adesso quelle del futuro. Sono immagini di terre non ancora viste, di abbondanze non ancora arrivate, di genti, soprattutto, non ancora incontrate, di un popolo non ancora nato. Immagini di una casa comune non ancora intravista.
    Con il suo movimento il viaggio esprime l'eccedenza dell'umano a se stesso. Adorno e Horkheimer parlano di Ulisse in riferimento alla divisione tra lavoro manuale e intellettuale (Horkheimer, Adorno 1966, pp. 39 ss.). Emmanuel Lévinas evoca invece le figure alternative di Ulisse e di Abramo per distinguere due tipi di viaggio. Il viaggio di Ulisse è il Medesimo che ritorna a sé. Quello di Abramo, all'opposto, è l'esodo dell'io verso l'altro, un «movimento dell'Identico che va verso l'Altro senza mai ritornare all'Identico» (Lévinas, 1964, pp. 125156; Id., 1998, p. 65): figura perciò della fiducia, della promessa, della risposta, della destinazione. Figura di un viaggio che non assomiglia più a una propria iniziativa, a una propria conquista. È un viaggio, piuttosto, a cui si è chiamati dall'altro.
    Il viaggio è l'icona dell'infinito: non di un infinito romantico, dove l'io rimane inchiodato a se stesso, nell'ansia struggente per ricongiungersi con il principio turbinoso e nebbioso della natura, ma l'infinito tra di noi, come la sporgenza dell'umano verso l'altro da sé. Infinito quindi dell'alterità, del volto d'altri.
    Nell'esodo dell'io verso l'altro l'infinito si annuncia due volte. Dapprima come l'abbandono delle definizioni, delle carceri mentali, delle sicurezze a tutti i costi, del proprio io. E quindi come attrazione gratuita verso l'altro, ben oltre e ben prima di ogni calcolo di reciprocità. L'infinito è l'uscita da sé, è cammino: è viaggio. L'infinito è il viaggio verso l'altro: eccedenza a me stesso risvegliata dall'eccedere dell'altro dinnanzi a me, dalla sua trascendenza – dalla trascendenza stessa.

    Eroi sbiaditi

    Zygmunt Bauman (Bauman, 1996, pp. 244-249; Ritzer, 2000) scruta dentro il fenomeno contemporaneo del viaggio che si svilisce nella stagione del suo successo globale. Nel viaggio d'oggi trova dei nuovi e pallidi eroi, dopo la nobile stagione del viaggiatore romantico e intellettuale alla Goethe nel suo Viaggio in Italia, o del mercante illuminato alla Marco Polo. Ma è solo la punta dell'iceberg di un fatto incontestabile sulla scena del mondo globalizzato, dove il fenomeno del viaggio generalizzato è talmente eclatante da assumere infine il nome di un neonomadismo: di un ritorno, di una ricongiunzione, con le origini nomadi dell'umanità (cfr. Maffesoli, 2000; Spengler, 1957; Urbain, 1997).
    L'immagine del viaggiatore di Bauman è quella di un io che consuma viaggio, e che incontra l'altro come ripetizione e come soddisfazione fugace di sé in quanto soggetto di sensazioni e di appagamenti. L'immagine si condensa nella figura del turista sempre pronto a mettersi in cammino. Il turista è in qualche modo l'eroe non-eroe del viaggio globalizzato. Dietro alla sua rapidità e alla sua disponibilità si nasconde l'esatto contrario, e cioè l'immobilità e l'indisponibilità. L'immobilità perché íl turista rimane pur sempre inscritto nel circuito effimero del consumo che, ovunque vada, non lo sposta di un millimetro da se stesso. L'indisponibilità perché nel viaggio del turista non vi è l'eccedenza dell'altro che risveglia a se stessi e che chiama al viaggio.
    Sembra quasi che il turista contemporaneo colga il pericolo insito nelle definizioni troppo rigide dell'umano al contrario, e lo traduca appunto nella disponibilità a mettersi in cammino, a essere costantemente in movimento, in viaggio. Il cammino però non ha né una vera partenza né una vera meta perché il viaggio globale diventa la metafora di un esistere sempre presso di sé, di un vivere consumando. Tutto si riduce in un rifiuto di fermarsi, in un fugace episodio, in una liquidità generale.
    Il turista di oggi vive fuggendo, ma non è l'eccedenza dell'umano a se stesso: sfugge alla permanenza nei luoghi e nei tempi del viaggio, sfugge all'incontro. Il turista dribbla il rapporto, la sua libertà non si fa responsabilità. Tutto è ridotto all'attimo della presa, alla sensazione che genera il consumo. Il viaggio riparte sempre da capo senza partire mai, perché non ha un sé da cui uscire e un altro verso cui andare. Per questo lo spettro del turista è il vagabondo: gli ricorda tutto ciò che non vorrebbe essere, vale a dire spiazzato, non accettato, sporco. Il gioco del turista riesce, finché riesce, a patto di venire accolto nel circuito lindo del viaggio globalizzato e organizzato, di fronte a cui si staglia il rischio di ritrovarsi velocemente fuori circuito. Rischio sempre incombente perché stare nel circuito organizzato del viaggio globale ha il suo prezzo, che si innalza sempre dí più (anche quando sembra abbassarsi). I turisti e i vagabondi sono gli eroi e gli antieroi del viaggio contemporaneo.

    Viaggio. Rito. Passaggio

    Ulisse e Abramo. Il Turista. Esodi, partenze, ma anche racconti diversi. La somiglianza tra viaggio e racconto si affida a una struttura: termine tecnico, per il quale si rimane debitori alla stagione culturale dello strutturalismo linguistico (Barthes e dintorni), ma le cui valenze vanno ben al di là delle radiografie di scheletri letterari o di morfologie di racconti. In ogni caso, tanto nell'articolazione di ogni viaggio, quanto nella struttura canonica di ogni racconto, emerge il momento della crisi o della rottura, quale elemento narrativo discriminante e decisivo per l'esserci stesso del viaggio e del racconto.
    Perché vi sia viaggio e perché vi sia racconto deve imporsi il momento dello scarto, dell'uscita da una situazione solita e ripetitiva della vita – che la vita non è mai. Il viaggio e il racconto ci sono nell'apparire di un problema, nell'avanzare di una domanda che attende risposta. In un passaggio.
    Tutto il fascino del viaggio e tutto il fascino di un racconto stanno nella capacità di suscitare, come dicono con un'insistenza assonnata i bambini che si sentono raccontare una storia prima di addormentarsi, un «ancora». Risiedono cioè nell'abilità di far vivere il desiderio di vedere come andrà a finire, ma senza che il loro piacere si esaurisca in una conclusione che prima o poi, forse, arriva. Il piacere del viaggio e il piacere del racconto vivono invece nella sporgenza di quell'ancora, nell'intervallo dell'avventura non (ancora) conclusa. Piacere, in fondo, di stare nella sporgenza stessa.
    L'incontro del viaggio con il racconto non è dovuto soltanto al bisogno e al piacere di narrarsi ad altri. E neppure allo scambio di significati così evidente tra il viaggiare e il narrare che, come in una sequenza filmica, prendono appunto la stessa forma dello scorrimento a partire da un evento che sembra liberarlo. Nel viaggio e nel racconto combaciano il ritmo interno, la loro struttura, fino al punto che si è costretti a riconoscere una dimensione squisitamente linguistica del viaggio e, per converso, una dimensione essenzialmente itinerante della narrazione, perché «ogni racconto è un racconto di viaggio – un'esperienza dello spazio» (De Certeau, 2001, p. 174), di un passaggio.
    Il viaggio incontra dunque il racconto sul lato della partenza e della rottura, vale a dire sul lato dell'eccedenza che appare nella forma narrativa. La «fiaba», a differenza del «mito», inscena sempre il «coraggio» di una rottura (Bloch, 1972, pp. 72 ss.).
    Nel mettere in scena un passaggio il viaggio e il racconto riecheggiano al proprio interno una profonda e importante sintonia con il rito. Sia perché viaggio e racconto ripropongono nella loro scansione la successione tipica delle azioni rituali (Propp, 2001), sia perché il motivo centrale della rottura e della partenza, dello scardinamento, di essere di fronte all'altro, di un passaggio, caratterizza anche i riti con tutta la forza delle azioni eccezionali che marcano nella celebrazione le tappe di una vita e la ricreazione di un ordine, mandandolo tuttavia prima in frantumi. Il viaggio è il rito stesso della vita.
    I momenti decisivi della vita sono segnati da riti di passaggio che si ricreano sempre al di là del variare di epoche e culture, quali i riti della soglia, dell'ospitalità, della nascita e della morte, della pubertà e del matrimonio, dell'età giovane e adulta, della scuola e del lavoro (cfr. Van Gennep, 2006; Centlivres, Hainard, 1986; Riva, Sequeri, 2009, cap. 8; cfr. Bloch, 1986, I, pp. 412 ss., 430: «passaggio», «fiaba» e «viaggio»). Nei riti di passaggio succede qualcosa di molto simile alla crisi del viaggio e del racconto, vale a dire la distruzione e la ricreazione di un mondo sociale. Nell'azione rituale tutta la comunità si libera e si spoglia di se stessa per rigenerarsi sempre di nuovo (Turner, 2001).
    Il viaggio e il racconto sono dialettici come il rito: manifestano un pensiero del «gettare passerelle» verso un altrove, come dice Lévi Strauss circa i rituali a sigillo di Il pensiero selvaggio (Lévi-Strauss, 1965).

    Tornare?

    Il viaggio sottolinea la crisi: come il rito, come il racconto. Partire, l'esodo diventano la metafora di ogni scardinamento, di ogni allontanamento. Viene da qui il fascino incerto della conclusione, perché spesso per l'uomo «lo stare in cammino come la stessa fine non hanno ancora trovato una conclusione» (Bloch, 1972, p. 277).
    Ulisse torna infine alla propria patria. Abramo non tornerà più, attirato verso una patria promessa e futura, che resta sempre a venire. La conclusione di un viaggio ha un fascino incerto perché può esserci, ma può anche non esserci; può essere positiva o negativa. In ogni caso, quando il viaggio riesce niente e nessuno torna più a come era prima di mettersi in viaggio; mentre se non riesce, se si ritorna semplicemente a casa, non può trattenersi dal dire l'insoddisfazione e la delusione. La rottura del viaggio, il suo partire, annuncia perciò un non finito che trasuda perfino quando la conclusione di un racconto è il ritorno a casa propria. La conclusione di un viaggio spiazza sempre.
    In Abramo l'infinito si propone come attrazione in avanti verso una meta che non ci si è data da soli ma che tuttavia si sente talmente propria al punto che diventa impossibile non farsene carico – una volta che si sia udita la sua voce. Meta che, forse proprio per questo, difficilmente potrà avere le sembianze di un punto d'arrivo che ci si è prefissati. Un viaggio non può mai coincidere con la sua immagine o con la sua rappresentazione. Se questo succede, non c'è crisi, non rottura, non messa in discussione, non incontro con l'altro. Non viaggio.
    Per Abramo l'infinito è la chiamata in un avanti, più avanti di ogni avanti. Per Ulisse che sogna di tornare a casa è invece la situazione che non rimane mai identica, la partenza finale sempre latente e silenziosamente possibile, sempre differita e impedita. Perfino dopo l'avventuroso rientro alla propria isola nemmeno Ulisse sembra riuscire a rimanere per sempre a casa.

    Andar fuori, partire. La verità è nomade

    Tornare è meno importante che partire.
    Maurice Blanchot ha detto che se l'Ebraismo «deve avere per noi un senso» consisterà nel «mostrarci che, in qualsiasi momento, bisogna essere pronti a mettersi in cammino, perché uscire (andare fuori) è un'esigenza alla quale non ci si può sottrarre se non ci si vuole precludere ogni possibilità di un rapporto di giustizia. L'esigenza del distacco, l'affermazione della verità nomade, lo distingue dal paganesimo (da ogni forma di paganesimo): essere pagani vuol dire fissarsi, quasi infiggersi nella terra»; il nomadismo «è la risposta a un rapporto a cui il possesso non basta» (Blanchot, 1977, pp. 167-178).
    Andar fuori. Il viaggio inizia con l'uscita da sé. La propria identità viene trovata perché comincia finalmente a trascurare l'insistenza su di sé. Nel viaggio, di fronte all'altro, l'identità non sa più di se stessa se non al modo rovesciato dell'essere trovata più che cercata. La dif ferenza tra il voler trovare e l'essere invece trovati marca la diversità tra il restare tutto sommato immobili e l'essere invece in viaggio. La verità è nomade. Non si possiede, chiama a una responsabilità, a un'intelligenza più intelligente del pensare di possederla e dominarla.
    Soltanto con delle comprensibili resistenze il viaggio si lascia inscrivere nell'ottica di una ricerca, sia questa intesa come una ricerca di sé tramite l'esperienza dell'incontro e del viaggio o come una ricerca dell'umanità comune attraverso l'incontro delle differenti culture. Ridotto a ricerca, all'iniziativa dell'io, di un noi, il viaggio rimane prigioniero dello schema mentale ed egocentrico dell'apertura, che è profondamente ambiguo. L'apertura difatti, fosse anche nella bella forma della conoscenza degli altri, si tramuta velocemente in conquista, in occupazione. Se il viaggio è una ricerca non lo è grazie a un'iniziativa dell'io ma per una risposta a qualcosa che s'intuisce solo in modo vago ma certo, e che perciò s'impone come la propria segreta destinazione. Siamo tutti degli Orfeo in cerca di qualche Euridice.
    Difficile che questo avvenga quando il viaggio è un andare alla conferma accresciuta di sé attraverso gli altri, o alla conferma dell'umanità comune che però ciascuno ha già intravisto da solo con se stesso. Nell'ottica delle conferme il viaggio è fondamentalmente inutile o apparente, quando non è il pretesto o la copertura per interessi molto strumentali.
    Viaggiare per confermare se stessi rende il viaggio superfluo e minaccioso: basto io con me stesso per ottenere la conferma di me, o è sufficiente rivolgersi all'altro più vicino e magari anche più comodo e simpatico – più amico. I viaggi della conferma di sé sono l'equivalente della chiusura dell'umano in definizioni sorde, in gabbie mentali, oppure di qualche itinerario dialettico in cui l'io che viaggia divora con il suo passo razionale, spedito e inesorabile, tanto sé quanto l'altro verso un oltre che non c'è perché da se stessi non si è mai veramente partiti.

    La ripresa

    Il viaggio mette in forma –forma stessa di una vita – l'eccepire a se stessi che è l'umano. La sporgenza del viaggio ha il nome dell'infinito, nome dell'altro. L'infinito penetra nel viaggio e nel racconto in modo iperbolico perché da un lato il viaggio si lascia raccontare (e il racconto viaggiare), ma da un altro lato il viaggio non è, nella sua intima sporgenza, nel suo andare continuo oltre se stesso, mai dicibile fino in fondo. L'indicibile governa il viaggio come il racconto. Il viaggio che indica un movimento verso qualcosa non si lascia neppure comprendere come un'intenzione del soggetto che viaggia. Il racconto che, per quanto riuscito, non esaurisce mai quello che cerca di dire del viaggio.
    Tanto il viaggio quanto il racconto incontrano una doppia impossibilità che nasconde il loro ultimo paradosso: impossibilità di non dire, impossibilità di dire fino in fondo l'infinito in noi e negli altri.
    L'impossibilità di non dire l'infinito deriva dal dovere e dal piacere di comunicarlo una volta che sia stato percepito (come avviene al rientro da un bel viaggio). Mentre l'impossibilità di dirlo rimanda a un tradimento sempre in agguato: ciò che eccede, infatti, ha bisogno di essere detto sfuggendo però sempre in qualche modo alla cattura, a essere detto una volta per tutte o tutto in una volta – e proprio perché eccedente.
    In riferimento alla scelta Kierkegaard, il filosofo del cammino della vita, dice che è necessario riprenderla continuamente. Vale lo stesso per il paradosso del viaggio e del racconto. Ogni racconto di viaggio è in qualche modo un tradimento di ciò che non si può adeguare per davvero. Tuttavia, proprio in questo tradimento, anche la narrazione del viaggio diventa irripetibile perché si avvicina all'unicità. Ciò che tradisce l'eccedenza del viaggio diventa a sua volta infinito. Il tradimento è tradito da ciò che tradisce, e diventa anch'esso unico e irripetibile.
    Vi è dunque un infinito nel viaggio, e un infinito nel racconto: non tanto perché il viaggio è sempre riprendibile dalla narrazione, che può essere rinarrata a sua volta all'infinito, ma soprattutto perché c'è, sia nel viaggio sia nel racconto che lo riguarda, un non-finito che non va confuso con ciò che è incompleto. Il non-finito è l'essere stesso del viaggio e del racconto, il positivo e non il negativo: non incompletezza, perciò, ma infinità, sporgenza a se stessi, sussulto dell'esistenza. Abbiamo bisogno perciò di ben altri discorsi (di un'altra visione dell'essere, di un'altra ontologia) rispetto a quelli che languiscono piagnucolanti e ossessionati come sono dalla sclerosi della perfezione che purtroppo ci manca, dall'incapacità o dalla pigrizia di accettare il viaggio della vita, dalla volontà di dominio che ha orrore dell'infinito. L'infinito non è un piagnisteo, non è una perfezione, un cerchio chiuso, il nulla mancante, una somma totale e quant'altro del genere. Ma è in compenso molto, molto più esigente. Perché non è finito.

    Incompiuto, non imperfetto

    L'incompiuto è un modo dell'infinito, non dell'imperfetto. Nel viaggio e nel racconto l'infinito si annuncia già a livello di struttura, perché contengono entrambi voci, nomi, che non hanno fine e che sfondano continuamente i limiti del viaggio e del racconto. Voci degli incontri, che impongono di iniziare viaggi e racconti diversi rispetto a quelli già iniziati e già raccontati. Voci della denuncia, del dissenso, che avvisano del tradimento sempre possibile e sempre incombente. Nel viaggio e nel racconto vive una pluralità irriducibile – pluralità stessa dell'umano – che lascia il viaggio e il racconto nel loro incompiuto senza che, di nuovo, questo diventi subito una lamentela metafisica sulla nostra finitudine, una retorica pseudo-esistenzialistica sull'umana imperfezione o il compiacimento postmoderno per la fine delle certezze. Funerali metafisici, day hospital dell'esistenza ammalata, allegri luna park postmoderni sono molto píù simili di quanto non vogliano dare a intendere di solito.
    Non si capisce nulla del viaggio e del racconto se ci si colloca troppo frettolosamente nell'ottica mentale dell'improrogabile necessità di qualche assoluto totalizzante. Finisce da un lato in un senso d'insofferenza per l'indugiare ancora un poco nella compagnia dell'umano e agita, dall'altro lato, lo spettro di un racconto e di un viaggio identitari, unici ma nel senso monetario dell'unità numerica.
    Il non-finito rifiuta le forme fagocitanti del racconto monocorde e del racconto globale. Del racconto monocorde perché ha la pretesa di ridurre la narrazione a una sola voce, a una prima persona – a una voce, cioè, dominante, a un racconto monosignificante: a un parlarsi da soli. Del racconto globale perché, anche se riconosce la pluralità delle voci (Bachtin, 1988, pp. 191 ss.; cfr. Morin, 1989 e 1988), le riporta velocemente a una sorta di supervoce, a una terza persona, che dovrebbe valere per tutti e per ciascuno – persona dell'impersonale, del «Si»; voce ricomprensiva. L'esito è esattamente lo stesso. Nel racconto monocorde come nel racconto globale si insiste sulla prima persona, sulla caduta della conversazione, solo che nel primo questo avviene in modo diretto ed esplicito, mentre nel secondo la prima persona si maschera dietro la terza, dove l'io accredita se stesso cori la neutralità presunta di ciò che vale in generale e per tutti.
    Ma più che sul lato del racconto, è su quello del viaggio che il cortocircuito diventa eclatante. Nella stagione del viaggio globale l'eccedenza del viaggio a se stesso, la presenza dell'altro, la destinazione della libertà alla responsabilità per altri sembrano infatti esaltate e svuotate.

    Responsabilità. Giustizia

    Sulla scena del viaggio globale la responsabilità avanza con una rilevanza prima insospettata. Sembra che nel viaggio tutto scorra verso l'oceano della responsabilità. I Codici etici, i Codici di comportamento, i richiami diffusi, la letteratura sul viaggio, le sue stesse denominazioni corrono verso la responsabilità: la responsabilità aggettiva infatti gli articoli dei codici internazionali del viaggio, motiva i comportamenti educati quando si viaggia, qualifica il turismo stesso che si fa più o meno responsabile, più o meno irresponsabile.
    Gli appelli alla responsabilità nel quadro del viaggio globalizzato possono apparire tardivi e forse ipocriti: tardivi, perché intervengono quando il viaggio è già diventato quello che è, moltiplicazione del consumo, altra massificazione, proiezione di un io sulla scena disponibile del mondo; ipocriti perché la responsabilità sopraggiunge a catastrofe avvenuta, come una sorta di corsa al riparo dopo la cementificazione delle coste, delle montagne, della luna e di Marte, l'occupazione quasi militare delle isole esotiche, le cloache e le pattumiere globali che fanno del mondo al tempo stesso un emporio sottocasa e un cassonetto dei rifiuti. La scena mondiale della responsabilità si recita sullo stesso palco dove va in scena come prima attrice l'irresponsabilità generalizzata, dopo però che questa è stata istituita e legittimata in tutti i modi possibili.
    A proposito del viaggio si produce così uno scarto evidente tra i richiami alla responsabilità, l'attenzione ai luoghi e alle persone, ai compagni di viaggio, e una civiltà narcisistica del Sé che continua a interpretare il viaggio come il movimento dell'io: movimento, in definitiva, coloniale. Il viaggio dell'Io toglie nello stesso istante ciò che annuncia: là dove predomina l'erotismo del viaggiare, il puro movimento, la «movida» notturna – ad esempio il giro perpetuo tra i locali per i turisti nei luoghi dell'ultimo maremoto dell'Estremo Oriente, o quello tra i luoghi di un sabato sera, all'insegna del proverbio postmoderno e indiscutibilmente giovane per cui la «vita comincia a notte» –, la responsabilità è destinata a diventare una maschera di se stessa. Per un semplice motivo, che riporta di nuovo il pensiero a ciò cui l'umano è chiamato: la responsabilità non si trova come seconda battuta, come conseguenza di una libertà fin troppo autocertificata.
    La responsabilità non sopravviene al viaggio. Non si lascia ridurre a un'accortezza, a un galateo, a un'astuzia, o a una spolverata di morale che fa contenti tutti e lascia le cose come stanno. In modo forse paradossale la responsabilità compete a ciascuno prima ancora di viaggiare, prima ancora di incontrare. Ma è un altro modo per dire che la vera destinazione del viaggio è l'umanità dell'umano.
    Perché l'«esistenza degli altri intorno a noi non è un puro accidente», dal momento che l' «io non esiste senza un tu». Per questo il viaggio porta con sé, se non è di conquista e se non è di evasione, il bisogno di «un po' più di giustizia» (Todorov, 1995, p. 109).

    (Per la bibliografia, vedere alla fine di: "Otto regole per viaggiare")

    (FONTE: Filosofia del viaggio, Castelvecchi 2015, pp. 109-121)


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