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    L’apprendimento esperienziale come risultato e come processo



    Apprendere dall'esperienza /2

    Michele Pellerey

    (NPG 2010-02-47)


    Uno dei principali studiosi dell’apprendimento adulto, David Kolb, ha approfondito il concetto di «apprendimento esperienziale».

    Questa espressione ha assunto nel tempo due significati diversi, diversi ma non contrastanti, e per molti aspetti complementari.
    Il primo riguarda la constatazione che, come risultato delle esperienze di vita e di lavoro, si ha lo sviluppo di conoscenze, competenze, atteggiamenti che derivano non da studi sistematici o formali, ma da quel tipo di apprendimento che viene oggi definito informale, cioè legato a situazioni non precedentemente organizzate, né chiaramente intenzionalmente finalizzate. È questo il risultato di un apprendimento basato sull’esperienza, sulla partecipazione a un ambiente di vita o di lavoro. Persino a livello di studi superiori e universitari è ormai riconosciuto il diritto ad avere forme di certificazione delle competenze acquisite in questo modo o, come si suol dire, sul campo.
    Il secondo significato è stato valorizzato in particolare da John Dewey, ed è rivolto soprattutto al futuro, alla possibilità di andare oltre quanto acquisito, di trascendere in qualche modo la condizione esistente.
    Nel mondo giovanile oggi si sottolineano i cosiddetti «non luoghi» dell’apprendimento, ovvero i contesti di apprendimento non tradizionali (rispetto a quelli tradizionali come la famiglia, la scuola, la parrocchia), quelli della vita quotidiana e degli scambi informali. Tra questi: la piazza, il cosiddetto «muretto», lo stadio, internet, gli sms, i grandi raduni, i viaggi, ecc.
    Cosa rimane dalla partecipazione a queste esperienze? Più profondamente, che cosa viene a poco a poco coltivato nella mente e nel cuore dalla sistematica partecipazione a tali esperienze? In altre parole le conversazioni che si sviluppano nel tempo con le persone, le cose, gli ambienti, i libri, i giornali, il web, in maniera progressiva e talora inconsapevole formano il modo di vedere e di valutare eventi e situazioni, prospettive di vita e pericoli, persino se stessi e il proprio futuro. Ogni apprendimento futuro deve tener conto di quanto ormai già sviluppato non solo in termini di conoscenze e competenze, ma anche di atteggiamenti e di valori interiorizzati dalla partecipazione a eventi, ambienti, dialoghi, incontri o scontri.

    L’apprendimento esperienziale come risultato

    Negli studi sull’apprendimento è sempre stata presente una questione fondamentale: quale ruolo ha l’apprendimento passato su quello futuro? David Paul Ausubel (Educazione e processi cognitivi, Milano, F. Angeli, 1978, 198-199), trattando di un apprendimento non meccanico e ripetitivo, bensì ricco di significato, ha messo in luce come:

    «l’esperienza passata influenzi, o abbia effetti positivi o negativi, sul nuovo apprendimento significativo e sulla sua ritenzione, in virtù del suo impatto sulle proprietà rilevanti della struttura cognitiva. Se ciò è vero, ogni apprendimento significativo comporta necessariamente un trasferimento, perché non si può concepire nessun caso in cui tale apprendimento non sia influenzato in qualche modo dalla struttura cognitiva esistente; e questa esperienza di apprendimento, a sua volta, dà luogo a un nuovo trasferimento, modificando la struttura cognitiva».

    In altre parole, i risultati dell’apprendimento precedente, sul piano dell’insieme delle conoscenze acquisite e organizzate e dello sviluppo dei processi cognitivi, costituiscono la base di appoggio per ogni nuova conquista. Nel bene come nel male. Infatti, a partire dagli anni settanta è stato progressivamente sempre più messo in risalto il fatto che in molti casi per conseguire una nuova conoscenza, per costruire un nuovo quadro interpretativo, per andare oltre quanto si sa o si sa fare, occorre non solo andare oltre quanto si era raggiunto nel passato, ma spesso andare contro di esso. Nel senso che occorre decostruire concetti, teorie, interpretazioni, convinzioni, per coglierne l’insufficienza o l’erroneità e così poter costruire nuovi elementi conoscitivi, nuove competenze in forme più corrette e adeguate. Qualcosa di analogo, anche se in una prospettiva assai più ampia e profonda, è stato detto da San Paolo: «Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino, ma da quando sono diventato uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato» (1 Cor 13,11).
    Oggi si rileva che l’influenza dell’apprendimento precedente sul nuovo apprendimento, deriva anche dalle componenti di natura affettiva e motivazionale presenti e attive. Un atteggiamento negativo verso un ambito di apprendimento, cresciuto normalmente a causa delle esperienze poco felici del passato, dà ragione di molte difficoltà, resistenze e spesso di infelici esperienze di apprendimento del presente. Ci si ricollega qui in maniera precisa al concetto di esperienza presentato nell’articolo precedente: perché un evento venga considerato un’esperienza, occorre che si possa riscontrare la presenza di almeno due elementi: uno affettivo, l’altro cognitivo. L’elemento affettivo è dato dalla reazione emozionale che si prova. Quello cognitivo consiste nel cercare di capire il perché, il senso di tale emozione, la sua radice profonda. Una esperienza di apprendimento unisce a questi due elementi il raggiungimento di una nuova situazione personale o sul piano del sapere, o del saper fare, o del saper essere, o del saper stare con gli altri, per riprendere le espressioni del rapporto Delors.

    L’identità narrativa

    Ripercorrere l’insieme delle esperienze accumulate nel tempo e la loro sedimentazione interiore ha portato Paul Ricoeur a introdurre il concetto di identità narrativa. Egli distingue nel concetto di identità due diverse accezioni, complementari tra loro, che rispondono a due diverse domande: «che cosa sono io» e «chi sono io». La prima, relativa al­l’identità espressa dal termine idem, può essere messa in crisi dal­la dispersione e frammentarietà del­l’esperienza, sviluppando una dissociazione interiore, che invoca però una risposta al­la seconda, relativa quest’ultima al­l’identità espressa dal termine ipse. L’identità narrativa si viene a costituire nel­l’interazione tra le due identità, quel­la del­la sedimentazione anteriore, del­la constatazione del­la dispersione, e quel­la prospettica, del­la promessa e del­l’impegno rivolto al fu­turo che aspira al­la coesione. «La persona si designa essa stessa nel tempo come unità narrativa di una vita che riflette la dialettica del­la coesione e del­la dispersione, che l’intreccio media» (P. Ricoeur, Persona, comunità e istituzioni, Firenze, Edizioni Cultura della Pace, 1994, 78).
    Al fine di mantenere l’impegno prospettico di una identità profonda del sé occorre: un’adeguata stima di sé, come fiducia nel­la capacità di mantenere la propria parola; la cura o sol­lecitudine per l’altro, recettore del­la nostra parola; l’aspirazione a vivere in istituzioni giuste. Le ultime due esigenze derivano dal fatto che:

    «ciascuna storia di vita, lungi dal chiudersi in se stessa, si trova intrecciata con tutte le storie di vita con le quali ciascuno è mescolato. In un certo senso, la storia del­la mia vita è un segmento del­la storia di altre vite umane, a cominciare da quel­la dei miei genitori, continuando per quel­la dei miei amici e – perché no – dei miei avversari».

    Questa prospettiva porta immediatamente a considerare l’apprendimento esperienziale come processo.

    L’apprendimento esperienziale come processo

    Il secondo significato di un apprendimento esperienziale considera questo come un processo. Questa prospettiva è stata approfondita negli ultimi decenni soprattutto nel contesto della formazione di soggetti adulti, evidenziando il fatto che tali modalità di apprendimento sono prevalenti in età abbastanza matura, ma occorre riconoscere che esse sono presenti fin dall’infanzia nella vita di ciascuno. Ciò è particolarmente vero se si prende in considerazione il concetto di esperienza elaborato a suo tempo da John Dewey. Esso, infatti, non è associato direttamente alla conoscenza, bensì alla vita concreta degli esseri umani. Questa è una continua interazione tra ciascuno e il proprio ambiente, fisico e sociale. Si tratta di una transazione continua che include emozioni, sollecitazioni estetiche ed etiche, oltre che conoscenza; che è insieme processo esperienziale e suo risultato in una dinamica di natura circolare; un agire e interagire che può portare a conoscere se stessi e il mondo di cui si è parte, ma il cui risultato di gioie e dolori spesso rimane a livello non consapevole. Spesso ciò provoca uno stato di disagio interiore, di cui non si riesce a cogliere la ragione, ma a partire dal quale può aver inizio una riflessione critica che da una parte cerca di cogliere il senso, il perché del disagio, e dall’altra cerca di superarlo anticipando possibili nuovi scenari.
    Valorizzando questa impostazione è possibile impostare processi educativi e pastorali che si basano soprattutto su metodologie ispirate alla prospettiva dell’apprendimento esperienziale. Alla base di tali metodi sta la predisposizione di attività di tipo educativo e pastorale, ricche in sé di valori e significati, da proporre ai giovani (e ai meno giovani) accompagnando la loro partecipazione in maniera attenta perché ne traggano non solo reazioni emozionali positive, ma anche ne percepiscano il senso più profondo per la loro prospettiva esistenziale. L’esempio classico che può essere qui evocato è quello di iniziative che si svolgono in contesti o in forme non famigliari e segnate dalla ripetitività quotidiana e che possono aprire la mente e il cuore a nuove istanze sia sul piano conoscitivo, sia su quello relazionale e sociale, sia su quello comportamentale. È facile riconoscere in ciò il ruolo dei cosiddetti «eventi» giovanili, come raduni nazionali e internazionali (ad esempio le Giornate Mondiali della Gioventù), concerti musicali di grande richiamo e coinvolgimento (storico il Festival di Woodstock dell’agosto del 1969), grandi pellegrinaggi (ad esempio in Terra Santa) o marce (ad esempio la marcia per la Pace Perugia-Assisi), partecipazione alla vita di comunità particolarmente significative (a esempio la Comunità di Taizé). La suggestione di tali esperienze segna molti dei partecipanti, tuttavia un buon accompagnamento prima, durante e dopo l’evento dovrebbe aiutare a fare tesoro personale di tali esperienze, favorendo la comprensione del loro significato e valore nell’apprendere a vivere e a convivere in maniera più piena e completa.
    In particolare emerge la fondamentale importanza della preparazione dei partecipanti all’evento preso in considerazione, soprattutto se questo non è modificabile da chi lo ha proposto. Occorre offrire un quadro di riferimento che metta in luce i significati collettivi che generalmente sono a esso attribuiti e i possibili significati personali propri di ciascuno. Segnalare particolari momenti, persone, luoghi a cui prestare specifica attenzione; evidenziare eventuali elementi dissonanti e possibili fraintendimenti; fornire le informazioni essenziali che aiutino a leggere e interpretare quanto sperimentato.
    Comunque si deve rimanere a cogliere gli elementi di novità e di sollecitazione dell’attenzione e della riflessione personale, che possono derivare da esperienze inaspettate positive e negative. Io ricordo con particolare emozione la partecipazione nel giorno di Pentecoste del 2009 alla celebrazione eucaristica svoltasi nella Basilica di San Pio X a Lourdes. Migliaia e migliaia i partecipanti, malati e sani, di lingue e nazionalità assai differenti. Una celebrazione segnata da una cura particolare nei canti, nei movimenti, nei simboli, nella proiezione dei testi fondamentali tradotti nelle varie lingue, nel favorire il coinvolgimento della massa, nell’essenzialità dei testi proclamati, evitando una omelia inevitabilmente in una lingua particolare, ma favorendo che tutta la celebrazione fornisse una lettura interpretativa della solennità, con evidenti sollecitazioni ad aprirsi attivamente e responsabilmente al dono dello Spirito Santo. La cosa è stata tanto più sollecitante in quanto per nulla attesa.

    L’apprendimento trasformativo

    Jack Mezirow, uno degli studiosi più interessanti dei processi di formazione degli adulti, ha introdotto in maniera sistematica il concetto di «apprendimento trasformativo».
    Egli parte da una concezione dell’apprendimento considerato come il processo connesso con «l’utilizzo di un’interpretazione preesistente per costruire un’interpretazione nuova o aggiornata del significato della propria esperienza, che guiderà l’azione futura» (J. Mezirow, Apprendimento e trasformazione, Milano, Cortina, 2003, 19). Per «prospettiva di significato» egli intende ciò che dà forma e delimita selettivamente percezione, cognizione, sentimenti e disposizioni predisponendo le nostre intenzioni, attese e propositi. Essa fornisce il contesto per costruire significati entro i quali noi scegliamo che cosa e come l’esperienza sensoriale deve essere costruita e/o fatta propria. In una prospettiva di significato vengono, cioè, coinvolte la dimensione cognitiva, quella affettiva e quella conativa (o volitiva).
    L’apprendimento è così visto come un processo interpretativo dialettico mediante il quale interagiamo con oggetti ed eventi, guidati da un insieme d’attese già presente. In altre parole, noi usiamo le attese già stabilite per spiegare e costruire ciò che percepiamo essere la natura di un aspetto dell’esperienza che fino ad ora manca di chiarezza o è stata mal interpretata. Tuttavia, in un apprendimento trasformativo reinterpretiamo una vecchia (passata) esperienza (o una nuova) da un nuovo insieme d’attese, dandole così un nuovo significato e una nuova prospettiva.
    Mezirow precisa quattro forme di apprendimento adulto nelle quali gioca un ruolo più o meno profondo la prospettiva di significato adottata.
    * La prima forma concerne l’apprendere attraverso gli schemi interpretativi già posseduti, che possono essere ulteriormente differenziati ed elaborati per adattarsi alla nuova esperienza, oppure possono essere utilizzati immediatamente senza bisogno di alcun adattamento. In quest’ultimo caso, ciò che cambia rispetto al passato è solo la risposta specifica.
    * La seconda forma d’apprendimento riguarda la formazione di un nuovo schema interpretativo, cioè la creazione di nuovi significati, che siano sufficientemente consistenti e compatibili con le prospettive di senso già esistenti, per integrarle e in questo modo estenderne gli scopi.
    * La terza forma d’apprendimento avviene attraverso la trasformazione di schemi di significato, o schemi interpretativi. Questo tipo d’apprendimento implica una riflessione attenta circa la qualità delle assunzioni, o presupposizioni, sulle quali essi si basano. In tale contesto, nostri specifici punti di vista e particolari convinzioni si manifestano poco funzionali o del tutto inadeguati di fronte a una nuova situazione o esperienza e sperimentiamo, di conseguenza, un crescente senso d’inadeguatezza delle nostre vecchie maniere di vedere e di comprendere.
    * La quarta forma si ha quando la trasformazione riguarda più in profondità la prospettiva stessa di significato, cioè si diventa consapevoli, attraverso la riflessione e la critica, della natura erronea dei presupposti sui quali si basa una distorta o incompleta prospettiva di significato e, a partire da questa consapevolezza, ci si impegna nel trasformare tale prospettiva attraverso una riorganizzazione dei significati.
    Quanti si sono appoggiati sulle idee di Mezirow hanno anche evidenziato l’importanza che un apprendimento trasformativo si possa sviluppare mediante un incontro tra livello individuale e dimensione collettiva dell’apprendimento.
    In questo incontro deve emergere la consapevolezza della propria dipendenza dal contesto sociale e culturale nel quale si è inseriti, soprattutto in termini di creazione di significati. Inoltre la riflessione critica che ne è alla base deve esser aperta alla capacità di rendersi conto delle proprie debolezze e dell’assumersi il rischio di cambiare, alla collaborazione e al dialogo con gli altri e in particolare con i formatori, alla necessità di prendere tempo e di sostare. I cambiamenti, d’altra parte, potranno anche essere graduali, comportare molte false partenze, ma è il processo stesso che deve essere così vitale da favorire la trasformazione.


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