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    Educhiamo alla penitenza



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1968-03-04)

    La penitenza, oggi, è un po' più di moda.
    Meglio: è ad una svolta nella storia della spiritualità cristiana.
    È stato detto: «I santi di domani saranno più dei re della creazione che dei penitenti».
    Decisi a sostenere una posizione, è facile scoprirne le motivazioni: la nostra è la società dei conforts, della pubblicità che reclamizza, a piena voce, la fuga dal dolore. Il ritmo del tempo è assillante ed ogni suo battito è prezioso: ogni sofferenza che lo rallenti, che ci renda meno pronti e disponibili, è palla di ferro al piede, da cui dobbiamo liberarci, al più presto.
    I giovani soprattutto – che sono i veri figli del nostro tempo – respirano questo clima a pieni polmoni: lo assaporano e lo condividono in tutte le sue suggestioni. E noi educatori li troviamo difficili, ribelli, decisi a non scomodarsi.
    Anche perchè l'uomo è essenzialmente fatto per la gioia piena, per la felicità senza ombre, per il fascino della realtà, perchè è stato modellato per il giorno della Resurrezione.
    La sofferenza contraddice violentemente, in un primo momento, le aspirazioni della sua natura: è il peso di un castigo che incombe.
    Il Vangelo si pone come segno di contraddizione: la predicazione del regno di Dio, è legata alla predicazione della penitenza: «Fate penitenza, perché il regno di Dio è vicino!» (Mt., 3,2 e 4,17).
    Cui fa eco il Concilio:«Si ricordino tutti che con la penitenza e la spontanea accettazione delle fatiche e delle pene della vita, con cui si conformano a Cristo sofferente, essi possono raggiungere tutti gli uomini e contribuire alla salvezza di tutto il mondo» (Decreto sull'apostolato dei laici, n. 16).
    La sofferenza acquista un respiro di salvezza universale e un'apertura verso i confini del mondo.
    Il rifiuto della penitenza, ha le radici nella natura umana, ma nasce – forse – da una presentazione mancata del suo significato e dei valori di cui è portatrice.
    Ci hanno chiesto spesso di saperci mortificare. E il discorso è camminato troppo frequentemente lungo i binari di uno pseudoascetismo in cui la mortificazione diventava un valore assoluto, lontana da una motivazione che ci desse la gioia consapevole del nostro agire, la spinta ad andare anche controcorrente.
    Il tempo della quaresima ci invita alla riscoperta della sofferenza cristiana, accettata e ricercata.
    Anche per i nostri giovani.
    Ma essi – soprattutto – un invito alla penitenza non l'accettano, per l'autorità di colui che lo propone. Chiedono – e con diritto – delle motivazioni. Perché hanno fame e sete di valori: la rinuncia per la rinuncia fa dei falliti, nell'arco della vita. La scelta riempie il cuore e matura la personalità.
    Rileggiamo – assieme – la costituzione apostolica «Poenitemini», sottolineando alcune delle riflessioni addotte.
    1. Sofferenza nella necessità di operare delle scelte
    2. L'uomo è in marcia nel deserto
    3. Sofferenza per attuare il mistero pasquale
    4. Sofferenza per gli altri

    1. Tutto ciò che è umanamente valido, è cristiano. Il cristiano accetta – in blocco – la vita, la gioia, la bellezza, che pulsa attorno a sé.
    Il peccato, però, ha tragicamente incrinato l'ordine della creazione: la redenzione ha operato una riorganizzazione esistenziale, ma solo germinale, in tensione verso la fase finale, definitiva.
    Per ora, attorno all'uomo affamato di vita, giocano valori che non può rifiutare se vuole essere uomo-cristiano e valori che non può accettare, se vuole continuare ad essere uomo-cristiano.
    Ogni decisione è condizionata da una scelta.
    Il battesimo è stato la prima scelta esistenziale: ogni momento del tempo ne è l'attuazione.
    La scelta ci costa: perché ogni scelta comporta necessariamente un rifiuto: un bivio che non possiamo percorrere che decidendo una direzione. E in genere – per il diverso peso della realtà nel gioco dei nostri interessi – ciò che rifiutiamo per poter essere uomini-cristiani, è ciò che ci affascina di più, ciò che comprendiamo meglio, fino in fondo, ciò che è più congeniale al primo moto istintivo di tutto noi stessi.
    La necessità della scelta è la prima sofferenza congeniale alla nostra natura.
    Soprattutto le piccole povere scelte quotidiane, che non ci coronano con l'aureola della gloria, che solo noi conosciamo e che formano il ritmo della nostra vita.
    Soffriamo, per continuare ad essere uomini.

    2. Per il cristiano il traguardo è solo il Paradiso: è un arrivato, uno che può riposare, sprofondato in poltrona, solo quando ha varcato la soglia della casa del Padre. È un po' come gli Ebrei in marcia nel deserto, verso la terra promessa.
    Tutta la sua vita va illuminata da questa tensione escatologica. I piccoli traguardi di ogni giorno sono realizzazioni parziali dell'ultimo arrivo.
    La sofferenza accompagna necessariamente questo cammino faticoso: quando stiamo troppo bene e non sentiamo il pungolo del dolore, siamo afferrati dalla tentazione del termine della corsa: l'amarezza ci ricorda che il panorama dell'oggi è solo passeggero, per non desiderare un accampamento definitivo, nell'oasi, rinunciando alla terra promessa.
    Il cristiano che vive di fede, non solo accetta l'inevitabile dolore di tutti i giorni, ma sa ricercarlo, per svegliare la sua coscienza di pellegrino in marcia verso la terra promessa. Non rifiuta a priori le comodità che la vita moderna gli offre perché le sa un riflesso di Paradiso e una realizzazione parziale del giorno della Resurrezione: ma sa controllarle, sa decidere, talvolta, di farne a meno, per prendere nuovamente coscienza della sua tensione esistenziale, per non credersi già arrivato, per non dimenticare che «non abbiamo qui stabile dimora, ma aspettiamo quella futura».

    3. «Se il grano di frumento non muore, non potrà sbocciare la spiga».
    La resurrezione e la glorificazione finale nascono dalla sofferenza e dalla morte. Come per Cristo, così per noi. Il dolore, il problema del male trovano la spiegazione ultima, radicale, nel mistero pasquale.
    Ogni discorso di motivazione, se nasce dalla fede, necessariamente sfocia qui, o è destinato a brancicare nel buio, quello di tanti fratelli del nostro tempo.
    La mia sofferenza – accettata e ricercata – è il contributo personale all'opera della mia salvezza e – allineata alla sofferenza di Cristo – a quella di tutti i miei fratelli.

    4. Il respiro si apre a prospettive universali.
    Ogni uomo porta sulle sue spalle il peso di tutti i fratelli. Non possiamo scaricarcelo di dosso, se non vogliamo rinunciare alla nostra dignità.
    La sofferenza è un modo, fra i tanti (forse quello più efficace, perché più personale, più «tutto mio») per assolvere questo impegno: come sofferenza che diventa tramite di salvezza, perché affiancata alla sofferenza di Cristo;
    E come rinuncia a qualche comodità, per donare qualcosa agli altri: qualcosa che è mio, perché me ne sono privato per decisione personale (non è il soprappiù: quello è già di chi ha bisogno).
    Pensiamo, per esempio, alle motivazioni teologiche della campagna contro la fame nel mondo che spesso – giustamente – trova la sua punta, nel tempo della quaresima.

    Sono suggestioni – parziali e superficiali – che possono guidare la nostra preoccupazione di educatori (di noi stessi e degli altri) alla penitenza; per essere, noi e i giovani a noi affidati, veri figli della Chiesa che «santa insieme e sempre bisognosa di purificarsi, mai tralascia la penitenza e il suo rinnovamento» (Lumen Gentium, n. 8).

    PREGHIERA DI R. FOLLEREAU

    Signore, insegnaci a non amare noi stessi, a non amare soltanto i nostri, a non amare soltanto quelli che amiamo.
    Insegnaci a pensare agli altri, ad amare in primo luogo quelli che nessuno ama.
    Signore, facci soffrire della sofferenza altrui.
    Facci la grazia di capire che ad ogni istante, mentre noi viviamo una vita troppo felice, protetta da te, ci sono milioni di esseri umani che sono pure tuoi figli e nostri fratelli, che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame, che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo.
    Signore, abbi pietà di tutti i poveri del mondo.
    E non permettere più, o Signore, che noi viviamo felici da soli. Facci sentire l'angoscia della miseria universale e liberaci da noi stessi.
    Amen.

     


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