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    Una lettura «profonda» delle testimonianze /1. Un teologo



    Giorgio Gozzelino

    (NPG 1977-10-30)

    Osservazione preliminare

    La documentazione sulla quale sono stato pregato di riflettere e di reagire, non sembra offrire, da un punto di vista specificamente teologico, del materiale particolarmente stimolante o suggestivo. Le problematiche più significative infatti, paiono riguardare elementi di tipo piuttosto positivo, di indole psicologica o sociologica. Anche quando toccano aspetti propriamente teologici, lo fanno entro un quadro di riferimenti talmente legati a questi altri ambiti, da rendere molto difficile pronunciarsi sui primi senza sconfinare in qualche maniera nei secondi. Pur nella piena consapevolezza della distinzione delle competenze, quindi, le brevi osservazioni che seguono non potranno svincolarsi del tutto da una certa contaminazione con rilievi di natura psicologica o anche sociale. Il lettore le dovrà integrare – ed eventualmente correggere –mediante un lavoro personale di raffronto con quanto gli viene presentato dagli specialisti di quest'altra sponda.

    Teologia e cultura

    Non si può davvero pretendere da poche righe occasionali che propongano una visione dell'essere preti con i giovani di oggi che sia assieme organica, completa e rifinita. Non si può fare a meno di restare impressionati, però, dalla mancanza di sensibilità per l'essenzialità della teologia che pare emergere dalla quasi totalità delle risposte.
    I testi più forti provengono da AR, che scrive testualmente: «Mi pare di poter dire che i ragazzi, e non i libri di teologia, mi hanno insegnato a fare il prete»; e poi soggiunge: «cerco continuamente, nonostante la mia testardaggine, di lasciarmi educare dai raga'zi, di stare dalla loro parte a tutti i costi, perché penso siano loro i portatori della voce dello Spirito, del rinnovamento continuo, che è poi la legge della vita». PB, dopo di aver narrato come sia passato «dalla narrativa alla psicologia, alla filosofia, alla Bibbia, alla teologia, alla sociologia, cronologicamente», conclude drasticamente: «Ma questa è poesia. La realtà è un'altra». Un secondo PB, più giovane, s'associa alla linea di AR informandoci di essersi «trovato varie volte nella triste situazione di dover scegliere tra i giovani e la comunità»; e precisa: «ho generalmente scelto i giovani». Negli altri testi non si trovano riferimenti alla teologia.
    Naturalmente, queste affermazioni sono passibili di interpretazioni molto diverse, forse perfino opposte. Ci basta cogliere ciò che in esse pare più incontestabile, e cioè per l'appunto una certa disistima per la teologia, espressa nell'idea più o meno riflessa che essa non abbia alcuna incidenza sul vivo della esistenza concreta. Che cosa si trova alla radice di questa emarginazione? Ci sta forse una forma di disinteresse generalizzato per la cultura, in particolare per la dottrina o per qualsiasi tipo di interpretazione razionale del reale? Mi pare proprio di no. Il PB più anziano sottolinea nel prete, tra le altre cose, una funzione di ideologo, e dice: «di notte il prete legge libri e riviste per cogliere quali siano le piste vincenti nella steppa ecclesiale e nella giungla delle ideologie». L'altro PB osserva che «è importante possedere una ricchezza di progetto da vivere all'interno di una comunità giovanile». ER vede il prete come «la crisi del gruppo, che obbliga al confronto più radicale e che non perdona se non dopo che c'è stato il riconoscimento (e la scoperta) degli errori, e il proposito fermo di porci rimedio». AR, ancora una volta più esplicitamente degli altri, annota: «Il prete non è l'uomo straordinario che ha la soluzione pronta per ogni problema, non si sostituisce a nessuno. Però credo che debba essere un uomo di cultura, uno cioè che sta dentro la vita con acuta capacità di lettura e che diventa punto di sicurezza per la sua fedeltà alle scelte fatte e stimolo all'azione per la sua creatività». Da dove proviene allora una tale mancanza di sensibilità per il contributo della teologia? Non potendo disporre di indicazioni precise stabilite dai testi, sono costretto a ricorrere a delle congetture; che però non mi sembrano infondate:
    a) Forse una ragione primaria di questa insensibilità sta nella povertà di contenuti di quel certo tipo di teologia che è stata posta a fondamento della formazione di parecchi di questi sacerdoti. Se si trattasse di preti che hanno fatto i loro studi prima del concilio, il giudizio sarebbe del tutto pacifico: si prendano in mano i testi di dogmatica o morale che correvano tra le mani degli studenti negli anni cinquanta e durante il concilio, e si costaterà che non esisteva assolutamente niente che meritasse di essere chiamato, senza fare offesa alla verità, teologia del ministero ordinato.
    Per il postconcilio la situazione sembra più difficile a spiegarsi, dato il rilievo concesso dai testi del Vaticano II all'episcopato, al presbiterato ed al diaconato. Un conto però sono gli orientamenti del concilio: ben altro la loro attuazione. È possibile che in molti seminari i corsi teologici abbiano continuato ad essere ciò che erano prima, con qualche mutamento di terminologia inteso a spruzzarli di vernice conciliare, ma senza alcun cambiamento di rotta o vero arricchimento di contenuti: in tal caso quell'insensibilità non desterebbe più alcuna meraviglia.
    b) Ma forse una seconda ragione proviene da un fronte più largo, che coinvolge la comprensione della funzione medesima della teologia nella vita della Chiesa e del mondo. Si coglie in queste risposte un bisogno estremo, e molto costruttivo, di confronto, di verifica, di ricerca comune, di «essere con» sul piano delle interpretazioni e delle progettazioni. Il PB più giovane dichiara: «io tento di pormi il più possibile in un'ottica di ricerca anche con gli altri... la proposta è di procedere insieme fin dove è possibile». L'altro PB aggiunge: «prego, penso, tento come posso, con tre o quattro amici preti, di approfondire sempre di più il significato esistenziale della fede». GZ sviluppa la medesima idea da una angolatura diversa scrivendo: «Non so se sia scandaloso o disdicevole dire che per i miei ragazzi ero, prima e soprattutto, un amico. E per molti sono rimasto solo amico». AR definisce il prete come «colui che, pur sentendo il Signore e avendolo accettato matura-mente, rimette sempre in discussione il suo modo di credere, proprio per rifare con i giovani il cammino della fede, come fa ogni padre con i figli. Questo anche a rischio dell'ateismo». Perché un tale bisogno di camminare insieme a livello di idee non si traduce in un vigoroso impegno di studio personale della letteratura teologica contemporanea? Perché tende a corrompersi in forme di giovanilismo acritico che livellano la distinzione fondamentale tra «padri e figli», distruggendo l'essenza stessa del dialogo, che è pur sempre «discorso tra», che cioè esige il mantenimento rigoroso della specificità di ciascuno degli interlocutori? Penso di non sbagliare avanzando l'ipotesi che qui non si arriva a comprendere la teologia come strumento del superamento dell'individualismo; o, se si preferisce, come luogo privilegiato del confronto di idee perpetuamente in atto nella Chiesa. Credo cioè che qui si tenda a ripetere, con un semplice capovolgimento di segno, l'errore che veniva commesso quando si sopprimeva il particolare in favore dell'universale. In nome di una tacita ed acritica identificazione di astratto (e quindi di universale) con irreale, si fanno coincidere particolare e locale con concreto, e così si cade nell'errore opposto. Ciascuno si confronta con la propria piccola cerchia e solo con essa. Ma la Chiesa – ogni vera Chiesa, perciò anche la Chiesa locale o la parrocchia – non è tale se non è cattolica, ossia universale. Ed a livello di idee, e di giudizi su esperienze, uno degli strumenti più essenziali, immediati e decisivi della cattolicità è costituito appunto dalla teologia. A condusione di queste prime osservazioni, diremo dunque che l'essere preti per i giovani di oggi sembra richiedere una viva coscienza dell'importanza insostituibile della teologia per la progettazione efficace e la verifica permanente della autenticità del presbiterato. Sembra esigere cioè:
    – che il progetto prete si incarni, sì, il più profondamente possibile nella concretezza della comunità locale nella quale viene vissuto, ma non sia fatto nascere quasi ex nihilo da essa, perché tale comunità non può essere Chiesa senza essere al contempo apostolica, ossia senza radicarsi su di una esperienza che la precede in forma assoluta, che essa deve servire, ed alla quale deve rimanere integralmente fedele; tutte cose che non sono possibili senza la teologia;
    – che la teologia venga riconosciuta ed assunta come strumento privilegiato per il superamento del reduzionismo, del settarismo, della mentalità da piccolo ghetto miope ed adolescenziale; in favore di un allargamento continuo delle prospettive della comunità locale verso le dimensioni mondiali della Chiesa universale.
    Proponiamo quindi come elemento di un progetto realistico di prete per i giovani di oggi l'impegno efficace e perseverante per la creazione di una buona cultura teologica personale.

    Amicizia e rapporto con il Cristo e la comunità

    Un secondo centro di interessi emergente con forza dai testi che abbiamo sotto mano riguarda il rapporto del prete con il Cristo e con la comunità. Questo tema ci porta di colpo al cuore della identità del sacerdote, individuata dal Vaticano II nella duplice dipendenza che lo definisce rispetto al Signore risorto e rispetto alla Chiesa; anche se la relativa esiguità della base teologica soggiacente le loro affermazioni fa sì che in questi documenti la questione graviti ancora una volta in un'orbita prevalentemente psicologica.
    L'interesse per questi riferimenti infatti sembra fondarsi innanzitutto su di un gran bisogno di amicizia, che peraltro si allarga sovente alle dimensioni di un intenso desiderio di autenticità e di efficacia nel servizio.
    Il PB più giovane scrive: «riesco abbastanza facilmente a fare amicizia e a farmi accettare come persona, come Piero, ma come " don " Piero sono io ad avere difficoltà a farmi avanti». Quello più anziano confessa: «ci soffro da matti per la sclerosi dei rapporti in profondità; con poche persone sono veramente me stesso, autentico fino in fondo: mi trovo schiavo del mio ruolo». GZ precisa: «devo pure dire che non mi sono mai sentito sminuito nella mia dignità sacerdotale se ero trattato come uno di loro, senza rispetto. Quale rispetto più genuino che essere considerato e sentito veramente un amico? E se uno mi è amico, lo ascolto, lo stimo e apprezzo per quello che è. Ecco allora il prete che si sente dentro veramente tale, può parlare come prete anche se al di fuori di ogni discorso diretto di catechesi; ed essere ascoltato». Qui, come si vede, la connessione della amicizia con l'autenticità sacerdotale e con l'efficacia del servizio, è asserita in modo esplicito. GZ pur costatando che «in termini istituzionali-tradizionali non è stato fatto molto», spiega: «eppure sono convinto che la presenza sacerdotale sia stata importantissima. Ha favorito quell'incon-
    tro di cui ho parlato prima. Inoltre per molti ragazzi è stata l'occasione per accostare nella persona di noi 3-4 preti una Chiesa che forse non conoscevano o conoscevano malamente». AR tenta una lettura più direttamente teologica della correlazione amicizia e ministero scrivendo suggestivamente: «Un prete deve essere necessariamente casto per potersi innamorare di tutti senza trattenere nessuno per sé. È questo l'amore che genera la comunità, al di fuori della quale non ha senso essere prete. Quindi non si può fare il prete se non si è capaci di amare intensamente, in modo intensamente umano». Sono parole profonde, che vanno meditate con attenzione. Anche in esse tuttavia resta in ombra il significato specifico dell'amore di ogni vero cristiano, e perciò di ogni vero ministro, quello della comunicazione del Dio vivente che si dona in tutta verità nel Cristo; per cui il livello propriamente teologico della amicizia viene solamente sfiorato. È vero, poco più avanti si fa luce un cenno prezioso, là ove si legge: «non c'è differenza tra me e chi non è prete, tolta naturlamente la possibilità di fare i sacramenti e l'essere mandato»; si accenna cioè ad un essere mandato; ma si tratta appunto solo di un accenno.
    Sulla stessa linea, e con gli stessi limiti, RS apre la sua lettera dicendo: «per me fare il prete con i miei giovani... vuol dire innanzitutto stare con loro, averli scelti, o meglio, sentirmi scelto e mandato per loro». ER invece accentra finalmente l'attenzione sul rapporto con il Cristo scrivendo: «il prete permette al gruppo di condurre una vita realmente valida con il suo carisma di presiedere l'Eucaristia». Ma con ML il rimando si ridimensiona sulla base della costatazione, condivisa da tutti, che «man mano che si crea l'amicizia, il fatto di essere prete viene quasi dimenticato e divento un amico tra gli amici... Celebriamo spesso la messa ed io la presiedo; alcuni prendono la parola o sono comunque attivi. Quello che io dico è però importante in sé, non per il fatto che io sono prete». Si avverte dunque la presenza di un senso molto forte della amicizia e della essenzialità del servizio alla comunità: indubbiamente, questi sacerdoti sono tutti uomini molto generosi e disponibili; ma sembra mancare una sensibilità altrettanto forte per la dipendenza dal Cristo, interpretata sia in termini oggettivi che in termini soggettivi. Per i primi, a dire il vero, disponiamo di una allusione pronunciata tra il serio ed il faceto da RS quando scrive: «nel tipo di lavoro in cui sono impegnato, se si esclude quella che chiamano la consacrazione sacerdotale a livello ... ontologico, ho la netta sensazione di essere un prete a tempo»; si noti l'impersonale «chiamano», e i significativi puntini apposti prima di introdurre la famigerata parola «ontologico». Sui secondi abbiamo un ottimo testo del PB più anziano, che dice: «è una delle ancore della mia vita, questo sentirmi un po' come Cristo, punto di incontro per tutti e per nessuno... solidale con la Storia, e con la Storia della Salvezza, fratello universale e cosmico...». E che soggiunge: «Recepito o meno, penso che sia questo il servizio più bello che io sto offrendo ai miei ragazzi».
    Siccome la originalità del prete si fonda sulla sua particolare funzione di connessione dell'azione attuale del Cristo risorto con la risposta della comunità credente, la debolezza, la scarsità, la genericità dei rimandi al Cristo non aiutano certo una migliore comprensione della sua fisionomia. Un secondo suggerimento che pare imporsi da queste pagine consiste perciò nella raccomandazione che venga approfondita la dimensione cristologica del ministero ordinato. Con ciò ci ricolleghiamo alla nostra prima conclusione, in quanto è evidente che un tale approfondimento non è possibile senza un intenso studio della teologia del presbiterato. Si tenga presente però che una certa responsabilità della emarginazione di quella dimensione va imputata al discutibile vezzo di alcuni autori contemporanei di lasciarla costantemente in ombra per valutare altri aspetti del ministero: l'aggiornamento teologico cioè dovrà essere esso stesso molto critico, e largo di vedute.

    Realismo cristiano, fedeltà, e gioia

    Un'altra risultante interessante che emerge dalla documentazione sulla quale stiamo riflettendo è la sostanziale soddisfazione con cui ciascuno degli interessati guarda al proprio lavoro. Questi sacerdoti sono tutt'altro che degli illusi o dei novellini sprovveduti; le dure esperienze attraverso le quali sono passati e le difficoltà nelle quali vivono tuttora li hanno temprati, maturati, disincantati in senso positivo, da molti punti di vista. È del tutto evidente che abbiamo di fronte della gente che sa il fatto suo. GZ prende atto della rivoluzione più che copernicana in atto nella Chiesa e nel mondo di oggi scrivendo: «riflettendo sulla mia esperienza sacerdotale di questi ultimi anni, resto sbalordito dall'enorme cambiamento avvenuto nei rapporti, stile, impostazione, problematiche, sensibilità, tutto quel contesto insomma in cui ho vissuto i miei primi anni di sacerdozio (15-20 anni fa). Sembra addirittura un altro mondo». Il PB giovane annota realisticamente: «il prete è un individuo sempre più provvisorio, considerato in rapporto agli altri». L'altro PB avverte a tal punto le contraddizioni del suo ambiente di azione pastorale da chiedersi, pur se sotto la spinta di una particolare tendenza alla vita contemplativa: «è bene che dopo 10 anni io lasci il mio posto di combattimento, abbandonando magari anche la diocesi, ritirandomi a vivere nella definitività della mia vocazione l'esperienza contemplativa, permettendo così a tutte le contraddizioni insite nella comunità che attualmente sto forse io stesso paralizzando, di esplodere in maniera finalmente definitivamente creativa?». Ma poco prima aveva detto: «tento di dare ai miei ragazzi la testimonianza del mio celibato per il Regno, che vivo in piena gioia ed in indiscussa sicurezza». RS dichiara senza mezzi termini: «Mi sento un prete contento». ER e ML parlano del loro «sentirsi preti» con una evidente serenità che vale più di molte parole.
    La difficoltà di questi sacerdoti ad esplicitare il loro ruolo specifico di ministri non li priva di una gioia arcana consistente in un senso di realizzazione di sé che coinvolge anche aspetti solitamente contestati come il celibato. A che cosa debbono la loro pace segreta? I testi non danno una risposta diretta, ma forse la soluzione è proposta per tutti dal passo già citato di PB nel quale si dichiara la soddisfazione profonda di sentirsi «un po' come Cristo»; forse cioè la soluzione sta in quel riferimento cristologico che pure risulta parecchio sottaciuto.
    L'esistenza ministeriale, come ogni vera forma di esistenza cristiana, si verifica sull'esperienza, certo; ma, propriamente parlando, non già sulla propria ma su quella del Cristo: o, se si vuole, sulla propria in quanto prolunga quella del Cristo. Per questo l'essere cristiani viene descritto dai vangeli come un essere animati dallo Spirito Santo quale potenza che ricorda ai credenti tutto ciò che Cristo ha detto (Gv 14,16). La garanzia dell'avvenire, il criterio di rettificazione della autenticità della vita, il canone indiscusso per un giudizio di valore sull'essere e sull'agire stanno tutti, per un cristiano, nella vicenda storica di Gesù di Nazareth. Per lui ha valore ciò che ha avuto valore nell'itinerario terreno di Gesù. Altrettanto per il ministro: il quale infatti non è che un cristiano investito di una particolare missione di servizio alla comunità. Ma nella esperienza di Gesù fanno spicco due dati prevalenti: il realismo e la fedeltà. Il Signore non si è mai fatto illusioni: egli sapeva quello che c'era nel cuore dell'uomo (Gv 2,25). Il suo unico e vero cibo è stato il fare costantemente la volontà del Padre (Gv 4,34), il che vuol dire, appunto, l'essere fedele fino alla morte.
    Sul suo stampo ed in forza della garanzia dell'esito di un simile stile di vita, cioè della risurrezione, il sacerdote è contento anche quando vive un periodo di infecondità apostolica: perché sa che, almeno per quanto riguarda la propria maturazione cristiana, tale infecondità è soltanto apparente; e poi perché ha appreso che in forza della fedeltà al Dio della vita partoriscono anche le sterili, e là ove regna il deserto scorreranno fiumi di acqua viva.
    L'assunzione della esperienza di Cristo – e dunque la lettura assidua delle Scritture che la mediano nel tempo – quale principio supremo di interpretazione del proprio vivere quotidiano, è uno dei dati più distintivi della originalità cristiana: essendo tale, deve trovare un proprio spazio, preciso ed efficace, nella prassi di ogni prete.

    Comunità presbiterale

    Concludiamo con un rilievo dedicato alla comunione dei preti tra di loro.
    Discretamente accennata da qualcuno, apparentemente assente in altri, la preoccupazione per l'unità sacerdotale si rivela nella inclinazione di buona parte dei testi considerati a qualificare i propri asserti come rappresentativi della situazione degli altri preti. Lo si coglie bene in un passo di uno dei due PB che scrive: «penso che non sia solo il mio caso... ma sia un po' la situazione di tanti preti nelle comunità giovanili».
    La ricchezza di impulsi carismatici che si nasconde nel cuore di molti sacerdoti è già più che evidente nelle poche righe che abbiamo preso in esame. Questi impulsi sono un autentico capitale «spirituale», che deve essere immesso nella libera circolazione dell'interscambio reciproco, per l'arricchimento di tutti. Credo che i preti di oggi abbiano bisogno di imparare dai giovani la disponibilità a questo libero scambio di idee, esperienze, convinzioni, conquiste, problemi, ecc.: non limitandolo però al rapporto sacerdote e comunità, ma estendendolo appunto – in consonanza ad una esigenza insita nella loro appartenenza costitutiva ad un presbyterium collegiale – ad un contatto costante e profondo tra di essi.
    In altri termini, se il sacerdote deve essere l'uomo di tutti, pare giusto che sia anche e magari soprattutto l'uomo degli altri sacerdoti.
    L'autore ha già pubblicato sulla rivista un lungo e importante articolo sull'identità del sacerdote, tenendo conto delle dimensioni positive della secolarizzazione e degli aspetti specifici e perenni del sacerdozio. Consigliamo la lettura di quel testo: GOZZELINO G., Pastorale giovanile aperta all'animazione vocazionale: quale prete?,
    1974/12, 2-33.


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