Pastorale Giovanile

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    (NPG 1977-10-12)

    PER COSTRUIRE LA CHIESA
    D.S.

    Mi ha lasciato un segno l'esperienza del '68 di Milano. Ero prete da due anni, frequentavo l'università statale; ho letto ciclostilata e affissa a mo' di tatze-bao nei corridoi della facoltà di fisica, la lettera a una professoressa della scuola dí Barbiana. Ho vissuto drammaticamente (uscivo fresco dal seminario) l'impatto con tutto quello che mi avevano insegnato a chiamare «rosso». Dall'altra parte del marciapiede in divisa e in assetto di scontro c'erano dei carabinieri di leva che poi al sabato incontravo in parrocchia per il gruppo del vangelo.
    La tensione al cambiamento radicale, la composizione di opposte esigenze, la voglia di rompere e di far nuovo, il non sentirmi mai da una parte soltanto mi ha spinto a scoprire la forza e la bellezza della mia missione in mezzo ai giovani. Essere educatore tra i giovani è una seria presenza politica, essere prete è darle completezza: tener deste tutte le domande fondamentali della vita. È per me mettermi all'interno di un cammino pienamente umano e lì abbozzare, delineare, far nascere una risposta che non è una ricetta, ma una persona sconvolgente: Gesù di Nazareth, il Cristo.
    Questo significa condividere, stare assieme, prendere coscienza dei fatti che capitano nella vita. Vedere assieme che studiare, fare la morosa o il moroso, andare a lavorare il lunedì mattino con gli occhi gonfi perché la sera prima hai sbaraccato nel paese vicino, incontrarti col dolore del padre ammalato o con la morte tragica dell'amico non è una accozzaglia di cose senza senso, ma un insieme dí fatti che ti pongono delle domande, meglio una domanda: che senso ha? Allora c'è qualcuno che ti crede il solito agente della CIA o del KGB e ti vede con sospetto, qualcun altro ti risponde girando i tacchi: fatti miei! non complichiamo la vita!, altri però assumono un po' alla volta un metodo di lettura della propria vita, si abituano a unire assieme un fatto dopo l'altro, a costruire il tessuto dell'esistenza, a cercare risposte più profonde. E la risposta più profonda sta lì a rischiare di essere troppo consueta per riuscire significativa o troppo difficile e lontana per entrare nella vita: Gesù Cristo.
    Da banale intercalare per il troppo uso fatto senza senso, diventa una persona che incuriosisce, uno che ha parlato «sano», un giusto insomma. Allora si incomincia a intravedere un cammino di approfondimento. Si passano tante ore a parlare, a discutere, a cercare assieme un senso ai fatti, a «restaurare» l'immagine di Cristo che già c'è.
    Un giovane che si mette a parlare con un prete si aspetta sempre un pugno nello stomaco o una delusione.
    L'incontro sacramentale arriva senza troppa fretta, a fatica, nella gioia tipica di una celebrazione eucaristica.
    E quando «celebri» non puoi sottintendere la realtà della Chiesa.
    Spesso è il primo discorso che balza all'evidenza e sempre è una accusa: luoghi comuni, cattive esperienze, frustrazioni, idealismo. Ai giovani piacciono le cose che quadrano per filo e per segno. E la Chiesa non quadra mai. Il mondo non va verso il regno di Dio senza la Chiesa e allora, se questa «baracca» è necessaria, perché non metterci una mano per farla diventare la casa in cui possono star bene anche i giovani.
    Quando qualcuno capisce e, a partire da una tensione per il regno di Dio vissuta sulla propria pelle nell'esperienza umana, decide di privilegiare i movimenti ecclesiali nel suo impegno, cogli concretamente che la tua missione non è stata un rincorrere la moda, essere popolare tra i giovani ad ogni costo, ma fare la «politica» del regno di Dio.
    Non ho bisogno di tanti bar, ma di tanti momenti umani sì; di tanta attesa, di tante proposte, di molto rispetto per il cammino di ciascuno.
    Qualche volta ti chiedi: ma quand'è che faccio il prete? non sono solo uno psicologo o un amico o un animatore? Non mi sono mai piaciuti troppo «gli specifici». Se punti all'incontro con Cristo nella Chiesa, sei sempre un prete, anche se riempi le lavagne di numeri, o prepari la caccia al tesoro o ascolti le confidenze dell'ultima delusione d'amore.

    QUEL «DON» È IN PIÙ?
    P.B.

    Non so esattamente che cosa voglia dire fare il prete con i giovani d'oggi, perché penso che, se da una parte è importante possedere una ricchezza di progetto da vivere all'interno di una comunità giovanile, dall'altra è decisamente importante avvicinare e lasciarsi avvicinare, ma «svuotati dal segno», dimostrando la maggior disponibilità possibile per un incontro che sia stimolante da entrambi le parti.
    Ma il tutto è difficile, perché il prete è tuttora uno che divide e uno che chiama a scegliere, indipendentemente da «chi è» e da cosa pensa, e pone automaticamente il dubbio se accettarlo o no, se parlargli o meno. Il prete – in quanto tale – crea tensione prima ancora che si pronunci, che lo si conosca, perché in sé richiama almeno due fattori: uno profondo (la realtà di Dio) e uno superficiale (la chiesa, le sue parole, la polemica anticlericale...). Avendo sperimentato questa situazione, credo che ogni incontro, personale o comunitario, debba essere un confronto.
    Io tento di pormi il più possibile in un'ottica di ricerca, anche con gli altri: forte di una fede ricevuta e accolta – Cristo Signore mi salva con la mia libertà – la proposta è di procedere insieme, fin dove è possibile, ricercando un senso alle scelte che volta per volta si presentassero come necessarie.
    Da qui deriva un duplice fatto: alcuni giovani sfuggono all'incontro, perché troppo responsabilizzante, mentre per altri il prete è la persona dell'adulto (con una più ampia esperienza di vita, con una cultura aggiornata); con cui verificare tutta la gamma dell'esistenza e delle sue scelte.
    Con quanti si stabilisce questo secondo tipo di rapporto, l'accettazione di un prete è generalmente normale (ma c'è anche chi mantiene un dialogo in cui mi lascia, anzi vuole che mi esprima come prete, senza però richiedermi il servizio dei gesti rituali sacramentali che mi qualificano).
    Con gli altri, invece, resta l'amicizia e qualcosa di più, quando sono io che prendo l'iniziativa dell'incontro... Ma questo mi costa, perché sono un timido e perché ho paura di manipolare le coscienze intervenendo nel settore del personale.
    Vorrei insistere su questa «paura». Riesco abbastanza facilmente a fare amicizia e a farmi accettare come persona, come Piero, ma come «don» Piero sono io ad avere delle difficoltà a farmi avanti: io stimolo, e poi do molta importanza all'attesa, alla maturazione degli eventi... io so aspettare (sovente ci soffro). Il prete è un individuo sempre più provvisorio, considerato in rapporto agli altri. Non mi riferisco tanto al gruppo o ai gruppi con cui c'è un'intesa costruita normalmente con solidità, ma con gli isolati, quelli che ti capitano all'improvviso, quelli che con te hanno un rapporto di amore-odio, per i quali, nonostante remore ideologiche o altro, rappresenti qualcosa, diventi e sei ancora la «persona» richiesta nei momenti-chiave.
    Altra questione. I giovani dal loro prete sono esigenti. Gli chiedono cioè di avere il coraggio di scelte vive, in campo ecclesiale, sociale, politico; di non rincantucciarsi nella posizione di complice o di teorico. Questo avviene normalmente (è intuibile) sul terreno del sociale. Ma di qui scattano le tensioni: il prete è preso tra due spire. Da una parte i giovani che per amicizia esigono una fedeltà e una coerenza; dall'altra la comunità ecclesiale che è perlopiù una forza che ti controlla e ti frena. In sette anni che sono prete, mi sono trovato varie volte nella triste situazione di dover scegliere tra i giovani e la comunità: ho generalmente scelto i giovani. Le conseguenze sono immaginabili e pesanti.

    SONO PRETE SE SO RIFARE CON I GIOVANI IL CAMMINO DELLA FEDE
    A.R.

    Rispondo per amicizia. Non mi va molto di mettere «nero su bianco» per le cosiddette esperienze, soprattutto quella di essere prete. Non mi pare che si possa trovare uno schema per fare il prete oggi coi giovani. Ognuno deve inventarsi il suo, sposando le persone con cui vive. Sposare significa condividere tutto. Allora provo a tradurre in parole quello che in parte cerco di vivere e in parte ha realmente vissuto. Mi pare di poter dire che i ragazzi, e non i libri di teologia, mi hanno insegnato a fare il prete; posto che in qualche modo io ne sia capace. Cerco continuamente, nonostante la mia testardaggine, di lasciarmi educare dai ragazzi, di stare dalla loro parte a tutti i costi, perché penso siano loro i portatori della voce dello Spirito, del rinnovamento continuo, che è poi la legge della vita. Per questo il prete deve essere un uomo estremamente libero. Libero dentro, di fronte alle persone, alle istituzioni, agli avvenimenti, a tutto, per poter volere la libertà degli altri: il prete è il padre di molte libertà. Questo comporta il rifare con ogni giovane la strada della sua libertà originale, aiutarlo a scoprire il suo vero posto nel mondo e dargli una mano perché sia lui a realizzarselo. Perciò un prete deve essere necessariamente casto per potersi innamorare di tutti senza trattenere nessuno per sé. .È questo l'amore che genera la comunità, al di fuori della quale non ha senso essere prete. Quindi non si può fare il prete se non si è capaci di amare intensamente, in modo intensamente umano. Dall'amore nasce il coraggio di lasciarsi vedere per quello che si è, compresi i propri limiti. Il prete non è l'uomo straordinario che ha la soluzione pronta per ogni problema, non si sostituisce a nessuno. Però credo che debba essere un uomo di cultura, uno cioè che sta dentro la vita con acuta capacità di lettura e che diventa punto di sicurezza per la sua fedeltà alle scelte fatte e stimolo all'azione per la sua creatività. Mentre lui stesso si lascia contestare dai giovani sia nelle idee che nelle prese di posizione, mi pare che debba essere la coscienza critica dell'autenticità delle scelte comunitarie. E questo in nome di una mentalità che gli nasce dal Vangelo, fonte di umanesimo e di fiducia nel Signore.
    Così il prete è colui che, pur sentendo il Signore e avendolo accettato matura-mente, rimette sempre in discussione il suo modo di credere, proprio per rifare con i giovani il cammino della fede, come fa ogni padre coi figli. Questo anche a rischio dell'ateismo.
    La sua presenza non è per convertire, ma per dire con la sua vita la validità delle scelte evangeliche. Non mi sembra giusto quindi chiedermi quali sono i momenti in cui sono più prete. Sono sempre prete. Non c'è differenza fra me e chi non è prete, tolto naturalmente la possibilità di fare i sacramenti e l'essere mandato. Ma la Messa la celebriamo insieme: non ha senso il mio dir messa se non c'è una comunità. Il perdono lo chiediamo assieme: io ne do la garanzia a nome del Signore. Più il mio essere prete mi distacca dal convivere e meno vivo da prete. La castità non è una dimensione negativa, di rinuncia, ma l'alimento di una sempre crescente capacità di amare.
    Questo «stare con» è per arrivare a costruire una comunità che trovi la sua libertà, un senso per il suo vivere e per il suo morire. E la comunità concreta diventa la parrocchia, intesa non in senso territoriale, ma come insieme di persone che condividono un certo tipo di vita.
    Per costruire una comunità così, bisogna portare i giovani a sposarsi in modo diverso. Mi spiego. Lo stare con i giovani passa necessariamente dai gruppi di impegno. Ma il gruppo è un mezzo che nasce per morire il giorno in cui ha aiutato i suoi componenti a scoprire la propria vocazione (= fare politica, cultura, sport, vita religiosa, libero professionismo, ecc.). Così ognuno si genera il suo gruppo nuovo, i suoi figli, coi quali rifà la strada della libertà, in un gioco di arricchimento vicendevole gruppo-comunità. Ci si sposa per voltarsi indietro verso i più piccoli e rifare in coppia la strada della vita.
    Questo voltarsi indietro non ha età se non quella dettata dalla morte. A questa mentalità si arriva solo attraverso la povertà e il servizio ai poveri: una educazione all'essenzialità, coerente in tutti i campi. In questo gioco il prete si deve rendere gradualmente inutile perché il suo compito diventi quello di garantire, a nome del Signore, la tranquillità e la pace per chi ha il coraggio di prendere queste decisioni. In questo cammino c'è posto per chi crede già e per chi ricerca il Signore. Il prete non ha il compito di etichettare come più o meno cristiana una persona o un'iniziativa, ma di allargare il suo cuore ai confini dell'umanità. Allora: il prete è l'uomo di tutti, perché tutti possano essere uomini di tutti e del Signore.

    VOGLIO ESSERE UN «CRISTIANO»
    M.L.

    Penso molto spesso al significato dell'essere prete nel mondo giovanile, d'altra parte il mio essere prete si pone come problema a molti giovani.
    Ormai mi pare scontato che a livello di status sociale, il prete nel mondo giovanile non ha significativa rilevanza e perciò non ci sono fette di potere da gestire. Sono animatore di gruppi giovanili. Inizialmente entro come prete e l'accoglianza che mi fanno è quella riservata ad una persona appartenente a quella data istituzione. Ma mano che si crea l'amicizia, il fatto di essere prete viene quasi dimenticato e divento un amico tra gli amici. Anche il ruolo di animatore appare sfumato. Se sono io che animo un'iniziativa, lo faccio nel modo col quale lo farebbero gli altri.
    Celebriamo spesso la messa, ed io la presiedo; alcuni prendono la parola o sono comunque attivi. Quello che io dico è però importante in sé, non per il fatto che io sono prete.
    Sembra che ciò che è più importante sia il fatto che io sono un cristiano. Ancora è importante per il mio essere prete, che io investo il mio tempo per i giovani. Però i giovani operai ritengono che il tempo che passo con loro, sia il mio tempo libero. Non entrano nell'idea di una professionalità dell'animazione di gruppo.
    Il mio fare il prete significa sempre di più fare il cristiano. Parlo sempre in quanto cristiano. Eppure c'è qualcosa di diverso, perché la grande maggioranza dei cristiani non fa come me. Allora il fatto di essere prete mi ha fatto più cristiano, mi ha portato ad essere molto disponibile ai giovani, a stare con loro, ad annunciare il vangelo in mezzo a loro.
    Ancora, riguardo la celebrazione della messa. Ci sono momenti in cui mi sembra di sentire che l'accordo tra fede e vita si estende anche all'esperienza liturgica. Però sento il bisogno di studiare di più le condizioni culturali necessarie ad una esperienza liturgica. Dedico parecchio tempo a questo studio. Credo di sentirmi prete soprattutto quando mi riesce di far fare ai giovani esperienze di amicizia, di solidarietà, di comunità di vita, di chiesa, di ascolto della parola di Dio...

    SONO UN EDUCATORE: UN PRETE «A TEMPO»?
    R.S.

    Per me «fare il prete» con i miei giovani, giovani apprendisti che attraverso una sistematica formazione professionale nei corsi si preparano ad entrare nel mondo del lavoro, vuol dire innanzitutto stare con loro, averli scelti, o, meglio, sentirmi scelto e mandato per loro.
    Con questi giovani non è poi che io faccia il «prete», forse, come si deve, in quanto con loro faccio di più il salesiano-educatore. Ordinariamente loro vedono in me il responsabile del coordinamento, della disciplina, della loro formazione globale, e, quelli che mi hanno come tale, l'insegnante, magari molto alla mano e pronto ad ascoltarli e a rispondere alle loro domande e ai loro problemi.
    Il servizio sacerdotale, inteso come animazione religiosa, presidenza della preghiera, della Parola, e della Eucaristia, capita solo poche volte. Comunque i giovani sanno che io sono anche un prete, anche perché in alcune circostanze «forti» hanno la possibilità di rilevarlo.
    I ritiri di inizio d'anno, le messe per i loro defunti, la messa della Immacolata, la liturgia penitenziale di Natale, la festa di Don Bosco, i giorni di preparazione alla Pasqua, la festa di fine anno e, quando capita, la preparazione alla Cresima e alla Prima (!) Comunione, sono tutte circostanze che mettono in evidenza il mio ruolo di prete e che fanno sentire anche me così.
    A dire il vero, nel tipo di lavoro in cui sono impegnato, se si esclude quella che chiamano la consacrazione sacerdotale a livello... ontologico, ho la netta sensazione di essere un prete «a tempo». Il che non mi dispiace, forse perché il prete salesiano io lo vedo così: lo vedo innanzitutto confratello, religioso mandato per i giovani, educatore, amico, con la possibilità di un servizio in più: quello sacerdotale per le volte in cui la comunità, la Chiesa, i giovani glielo chiedono. Non penso di essere meno sacerdote per il fatto che non confesso molto, non faccio molte omelie (anche se mi tocca parlare moltissimo), presiedo poche eucaristie con i mei giovani: mi basta che le volte in cui le cose sono mature ed è opportuno, io possa fare ai miei giovani il servizio sacerdotale così come loro lo richiedono, o fino a quando e a quanto loro lo richiedono.
    Mi trovo in una situazione di netta evangelizzazione e una tale pastorale caratterizza la mia azione con i giovani operai, i quali non gradirebbero molto un intervento di tipo kerigmatico e sacramentale o catechistico, che dia per scontate tante, troppe cose.
    In questo stile trovo i giovani molto disposti e sereni, perché si sentono rispettati e non hanno l'impressione di aver sullo stomaco, oltre a certi adulti, anche i preti.
    Penso in questo modo di non aver perduto per niente la mia identità. Anzi, mi sento un prete contento.

    SONO UN PRETE PERCHÉ ANIMO IL QUOTIDIANO CON L'EUCARISTIA
    E.R.

    Cosa significa fare il prete con i miei giovani?
    Innanzi tutto i miei sono ragazzi e questa è già una pregiudiziale notevole. Comunque conoscendo, grazie a Dio, qualche giovane da vicino direi questo:
    – Occupare un ruolo ben determinato, direi unico nel gruppo, di coscienza pubblica, di Parola di Dio vivente. Il gruppo si organizza e fa quello che vuole, ma inciampa sempre in questo tipo che non permette illusioni. Il prete è la crisi del gruppo che obbliga al confronto più radicale e che non perdona se non dopo che c'è stato il riconoscimento (e la scoperta) degli errori e il proposito fermo di porci rimedio.
    – Di contro il prete permette al gruppo di condurre una vita realmente valida con il suo carisma di presiedere l'Eucaristia. Da questo modello di realizzazione e motore per la realizzazione si riconoscono poi tutti gli altri carismi che permettono in pratica l'edificazione della Chiesa e della società.
    In quali tempi mi sento maggiormente prete?
    Fondamentalmente nel momento della Parola di Dio e dell'Eucaristia. In tutti gli altri momenti in quanto alla mia coscienza è chiaro il rapporto con i momenti sopra indicati. Mi spiego meglio. Tanto più ho presente (consciamente, inconsciamente...) il rapporto tra quello che sto facendo in quel momento e i punti fondamentali (Parola di Dio e Eucaristia), più mi sento prete. Più il rapporto è stretto e più mi sento realizzato in quel momento. Non importa se sto spolverando i banchi della chiesa o se sto chiacchierando con un autostoppista; è la coscienza (o l'incoscienza) di realizzare la Chiesa sulla base degli elementi sopra indicati che mi fa sentire prete.
    Come c'entra il ruolo professionale?
    Il rapporto con i ragazzi a cui faccio scuola è fondamentalmente diverso da quello con gli amici. E la differenza è nel rapporto tra apparenza e sostanza. Faccio scuola di lettere: italiano, storia e geografia. La libertà dei programmi mi permette l'analisi delle realtà fondamentali dell'uomo. La mia è una scuola fondamentalmente antropologica, dove l'uomo perfetto è quello che, mosso dallo Spirito, diviene Cristo per andare al Padre. Il tutto mescolato alla revisione sulla Parola di Dio e all'Eucaristia. Ma quando fai la prova del nove e guardi le manifestazioni tipiche fondamentali della Chiesa (l'unità, il servizio e la missione) scopri che il rapporto che dicevo all'inizio (tra attività immediata e la Parola di Dio e l'Eucaristia), era solo nella tua mente. Di fatto i ragazzi (15-16 anni) vivono un rapporto fede-vita ben diverso: fino al voto sul registro interessa; oltre non più.
    La scuola mi fa insomma l'impressione di un motore a vapore: va avanti, ma con uno spreco irrazionale di energia. Oggi si conoscono altri motori. Con questo non voglio giudicare tutta la scuola: forse altri, in altre situazioni e ben più capaci di me riescono a fare molto meglio.
    Nei rapporti con i giovani «amici» c'è molto meno apparenza, ma ben più sostanza.

    PRIMA DI TUTTO UN AMICO
    L.Z.

    Riflettendo sulla mia esperienza sacerdotale di questi ultimi anni, resto sbalordito dall'enorme cambiamento avvenuto nei rapporti, stile, impostazione, problematiche, sensibilità, tutto quel contesto insomma in cui ho vissuto i miei primi anni di sacerdozio (15-20 anni fa). Sembra addirittura un altro mondo...
    La mia situazione attuale.
    Dal 1969 ad oggi ho lavorato in un centro di volontariato, dove si preparano giovani che poi si impegnano per un lavoro di servizio civile o di laicato missionario nei paesi del Terzo Mondo. Questa almeno l'attività principale.
    Vi approdano giovani dai più svariati ambienti e dalle più svariate esperienze e motivazioni. Vi sono giovani cattolici (di uno scialbo cattolicesimo consuetudinario o fortemente impegnati) – giovani che hanno fatto cattive esperienze in ambienti cattolici retrivi o contro-testimonianti – giovani «in crisi» religiosa – giovani non credenti – giovani alla ricerca – giovani ostili a una «certa Chiesa», a una «certa religione». Nella quasi totalità, di idee, per intenderci, «di sinistra». In termini umani potrei dire che sono contentissimo di questa esperienza. In termini di fede, che ne ringrazio la Provvidenza.
    Abbiamo visto, toccato con mano come era utile, arricchente, fruttuoso (nonostante le innegabili difficoltà, specialmente iniziali) l'incontro in un ambiente aperto, dialogante, pluralistico, di giovani «credenti» e «non credenti» (anche se questa distinzione è molto equivoca e quindi da noi mai adottata: abbiamo costatato che ci sono degli «atei» molto più cristiani dei cristiani «praticanti» e penso sia una costatazione non soltanto nostra...).
    Il «non credente» poteva accostare giovani, impegnati come lui, con i suoi stessi ideali, le sue stesse ansie di giustizia, di rinnovamento, che erano spinti da motivazioni di fede che lo facevano riflettere, gli proponevano o riproponevano il problema religioso. Il «credente» era costretto dal confronto con altre ideologie, dalle contestazioni dei «non credenti», a riflettere sul suo cristianesimo, a rimetterlo salutarmente e positivamente in crisi, approfondirlo, riesaminare la sua coerenza.
    Onestamente però devo dire che non sempre questo è avvenuto. Ci sono stati dei «vuoti d'aria» sul piano religioso.
    Soprattutto in questi momenti, quando cioè il lavoro e l'impegno erano tali che qualsiasi laico» avrebbe potuto svolgerli, mi sono chiesto che significato poteva avere qui la presenza e l'azione di un prete.
    In termini istituzionali-tradizionali non è stato fatto molto. Non ho quasi mai confessato. Alla Messa alla sera a volte non veniva nessuno. Probabilmente non abbiamo operato nessuna «conversione».
    Eppure sono convinto che la «presenza sacerdotale» è stata importantissima. Ha favorito quell'incontro di cui ho parlato prima. Inoltre per molti ragazzi è stata l'occasione per accostare, nella persona di noi 3-4 preti, una Chiesa che forse non conoscevano o conoscevano malamente.
    In termini più allargati penso che con tantissimi giovani d'oggi, che non sentono affatto il problema religioso, l'unico punto di aggancio sia proprio il ritrovarsi ad avere questi stessi ideali, queste stesse ansie sociali, che mettono in sintonia. Se c'è questa sintonia, tutto è possibile. Ma se questa manca, che effetto hanno le nostre parole? Peggio ancora, a chi le diciamo se non vogliono neppure venire a contatto con noi?
    E qui si introduce l'altro elemento per ottenere la sintonia: il clima di amicizia. Qui siamo riusciti veramente a crearlo.
    Non so se sia scandaloso o disdicevole dire che per i miei ragazzi ero prima e sopratutto un amico. E per molti sono rimasto solo amico.
    Devo pure dire che non mi sono mai sentito sminuito nella mia «dignità sacerdotale» se ero trattato come uno di loro, «senza rispetto». Quale rispetto più genuino che essere considerato e sentito veramente un amico? E se uno mi è amico, lo ascolto, lo stimo e apprezzo per quello che è. Ecco allora che il prete, se si sente dentro veramente tale, può parlare come prete, anche se al di fuori di ogni discorso diretto di catechesi; ed essere ascoltato.
    Difficoltà? Molte, soprattutto la tremenda allergia di questi giovani per tutta ciò che è struttura, istituzione, e quindi per la Chiesa gerarchica; allergia aggravata dalla convinzione che la Chiesa «ufficiale» è ricca, connivente coi potenti, non impegnata sul serio per la liberazione dei poveri, nonostante i bei documenti.
    Per cui fanno distinzione tra «i preti come te» e la Chiesa.
    Brutto e pericoloso.
    Ad ogni modo sono convinto che, nonostante le difficoltà e i pericoli sottesi, coi giovani d'oggi, o almeno con la gran parte, e in modo particolare con i «lontani», quella debba essere l'impostazione pastorale: sintonia con i loro, interessi (non solo condividere le idee, ma lavorarci insieme) e amicizia.
    Niente di nuovo, vero? Infatti.

    CONFLITTI CHE TI FANNO SOFFRIRE
    P.B.

    L'epicentro di quello che sto vivendo è tutto semplicissimamente qui: man mano vado avanti in età man mano diventa sempre più struggente dentro di me l'esigenza spasmodica di autenticità interiore evangelica, personale soprattutto e solo secondariamente comunitaria: un «radicarsi dentro» della sete di personalità unificata secondo le «nervature», secondo le linee di forza dell'identità cristiana, all'interno della triplice dimensione: contemplazione, lotta, comunione.
    Ma avverto tuttavia come proprio nell'esperienza di preghiera in senso stretto io abbia l'esigenza di trovare il paradigma esperienziale, l'archetipo mobilitante di tutto il mio essere uomo progetto.
    Fino al mio trentacinquesimo anno di vita ho avuto l'impressione di un progressivo allargarsi di orizzonti nella mia vita, da ragazzo fino ad oggi, allargarsi dí interessi, anche «culturali»: dalla narrativa, alla psicologia, alla filosofia, alla bibbia, alla teologia, alla sociologia, cronologicamente.
    Passato invece «il mezzo del cammin di nostra vita» non tanto nuovi orizzonti ma è come se sentissi aprirsi invece una voragine dentro di me, e dal fondo ne zampilla una «fonte d'acqua viva»...
    Ma questa è poesia.
    La realtà è un'altra. É la contraddizione strutturale istituzionalizzata. É il paradosso. Ma penso che non sia solo il mio caso (poverino lui!) ma sia un po' la situazione di tanti preti nelle comunità giovanili.
    E penso che queste battute di «umorismo nero» che seguiranno potranno servire a ridare coraggio ad altri ex giovani viceparroci.
    Dunque questo è il mio panorama interiore (che bella parola!).
    Di fatto mi trovo ad essere responsabile, tra piccoli e grandi, di alcune centinaia di tesserati di Azione Cattolica in una parrocchia di questo mondo (talvolta ho l'impressione di essere all'altro mondo, ma non precisamente in paradiso, anzi...!), dove di fatto il biglietto d'ingresso, un po' come in tante parrocchie dell'orbe terracqueo, consiste nella professione pratica di ateismo attuata mediante un lento inesorabile procedimento di narcosi paraV7zante.
    Il tutto ovviamente in perfetta buona fede di tutti, che magari sono anche eroi e martiri secondo il dettame di loro coscienza...
    Da 10 anni esiste la comunità in parrocchia, ma solo da due anni abbiamo ottenuto il permesso di poter pregare in cappella. In 10 anni si è riunito una sola volta il Consiglio pastorale: di fatto si è riunito per decidere di non riunirsi più. Il sacerdote della comunità, che poi sarei io, non può mai celebrare l'Eucaristia con i giovani alla domenica. La maggior parte dei giovani non mi ha mai visto celebrare l'Eucaristia, se non qualche rarissima volta durante le visite che facevo ai campeggi. Attualmente poi da due anni non posso neppure più partecipare ai campeggi, essendomi affidata la cura delle mura parrocchiali.
    La Parrocchia è immobilizzata dall'ansia di reperire oltre un milione al mese da versare alla banca per i debiti da diversi anni contratti per la costruzione della nuova chiesa: necessario quindi il «consenso contributivo e l'allineamento operativo corrispondente alle esigenze dei contribuenti» in vista della pace sociale tra tutti.
    Se la pace si chiama deserto allora tutto poi è risolto.
    I giovani si prestano in un sacco e mezzo di modi, come sono capaci, dalla liturgia alle frittelle della festa patronale. Per loro ovviamente in dieci anni non è mai stata stanziata una lira ma ogni volta che la comunità di Azione Cattolica usa il cinema parrocchiale deve pagare l'affitto per la serata.
    Ma tutto questo è assai secondario rispetto al fatto che in parrocchia è di fatto proibito pregare evangelicamente: riti tanti, ma Vangelo no.
    Ma tutto questo è estremamente producente, per un verso, e tombale per l'altro. Per un verso, la comunità giovanile stessa è cresciuta atea nel suo cuore più profondo: la partecipazione ai riti liturgici come prezzo da pagare per restare in parrocchia e soprattutto per poter usufruire della presenza del cosiddetto prete, mentre la vita comunitaria scorreva su canali lontani dall'esperienza di fede anche se dentro «l'ideologia cristiana».
    D'altro, alcuni dei più sensibili tra i giovani che ho cercato di far sopravvivere come credenti tramite «boccate d'aria» all'esterno tipo Bose, Taizé, S. Egidio, Cuneo, Centro Salesiano Pastorale Giovanile, riviste cattoliche «furbe» ecc. ha accumulato in sé un'esigenza spasmodica di esperienza di fede.
    Ecco allora che anche all'interno della comunità giovanile riesco a permettere, anzi ad incrementare un'esperienza isolata di fede, mentre purtroppo diversi tra i dirigenti stessi che occupano i quadri in maniera ormai definitiva si sono adeguati alle esigenze o meglio alle non esigenze di fede sullo standard dell'ateismo magico parrocchiale: e così la comunità stessa si trova ora prigioniera di situazioni esperienziali che la paralizzano, come comunità di fede, dall'interno e non solo più dall'esterno.
    Ed il cosiddetto prete allora che cosa ci sta a fare?
    Un sacco di cose.
    Intanto diventa il «manager» dell'azienda dal punto di vista della pianificazione a lungo termine: i singoli piani annuali, operativi e formativi, sono ormai nelle mani dei giovani più adulti, degli sposati.
    Poi ideologo: di notte il prete legge libri e riviste per cogliere quali siano le piste vincenti nella steppa ecclesiale e nella giungla delle ideologie.
    Ma fortunatamente anche sul piano ideologico i giovani si stanno rendendo indipendenti: mia preoccupazione fu ed è fondamentalmente di raccordarli con alcune «centrali produttrici di pensiero» e con alcune «oasi esperienza di fede» e per cui possano andare avanti (ma avanti dove a sto punto?) anche senza di me, quando dopo il processo canonico e le diverse monizioni canoniche seguenti, verrò «promosso» parroco di qualche delizioso paesello in alta montagna...
    Poi cosa faccio? ah, ecco, sto con i piccoli, con i meridionali, con quelli che non hanno ancora gruppo... perché poi appena i giovani entrano in uno dei gruppi comunitari, è abbastanza automatico che, siccome come prete non esisto e come animatore, per fortuna ci sono altri, allora io scompaio alla loro vista. Poi cosa faccio? Faccio molta guardia alle mura parrocchiali, celebro alla domenica in qualche cappella rurale seminascosta per i miei affezionatissimi quattro vecchietti...
    Poi giro di notte tra i gruppi più vivi della mia città, a dire e a dare quello che non posso dare ai miei giovani ma più ancora per tessere quella rete sotterranea d'acqua viva che scorrerà poi tra le varie comunità cittadine e quindi spero, nonostante tutti gli sbarramenti strutturali, anche nella «mia» comunità!
    Poi cosa faccio?
    Prego, penso, tento come posso con tre o quattro amici preti di approfondire sempre di più il significato esistenziale della fede, oggi a confronto con i fenomeni più tipici della «civiltà» cosiddetta contemporanea, mi regalo dei tratti di deserto, testimoniando sempre di più ai ragazzi che mi conobbero per le prime volte sulle «barricate» del '68, che la salvezza definitiva passa per il di dentro del cuore di ogni uomo!
    Ma allora ci sto bene o ci sto male in questa famiglia che mi son visto crescere attorno? Ci sto male perché è così, ci sto bene perché è la mia famiglia! Soprattutto ci soffro da matti per la sclerosi dei rapporti in profondità: con poche persone sono veramente me stesso, autentico fino in fondo: mi trovo schiavo del mio ruolo!
    Tento di dare ai ragazzi la testimonianza del mio celibato per il Regno che vivo in piena gioia ed in indiscussa sicurezza: è una delle àncore della mia vita, questo sentirmi un po' come Cristo punto d'incontro per tutti e per nessuno, sentirmi ponte su cui tutti passano e mai casa in cui fermarsi, questa apertura al sentirmi cittadino del mondo o meglio ancora dello spazio e anche del tempo, solidale con la Storia, e con la Storia della Salvezza, fratello universale e cosmico...! Recepito o meno penso che sia questo il servizio più bello che io sto offrendo ai miei ragazzi!
    Presenza sempre più profetica ma sempre più silenziosa, immobile.
    Ma, vi domando: è bene che dopo 10 anni io lasci il mio posto di combattimento, abbandonando magari anche la diocesi, ritirandomi a vivere nella definitività della mia vocazione l'esperienza contemplativa, permettendo così a tutte le contraddizioni insite nella comunità che attualmente sto forse io stesso paralizzando, di esplodere in maniera finalmente definitivamente creativa?

    C'ENTRA ANCHE LA POLITICA ...
    H.S.

    Per me fare il prete con i giovani significa vivere la mia vocazione ministeriale al loro servizio, nella direzione della mia presenza nella storia e nella Chiesa. Ho scelto di essere prete in una Congregazione totalmente dedicata alla gioventù. Per questo, fare il prete con i giovani mi dà un senso di paternità educativa. Ci sono momenti belli: quando ti accorgi di aver fatto qualcosa per alcuni giovani e loro hai fatto scoprire qualcosa della loro vita. Un aspetto importante di questa presenza è l'impegno promozionale. Non si può essere preti senza dare ai giovani una capacità evangelica di giudicare la storia. Questo criterio porta in sé una sensibilità sociale per la giustizia, una scelta per i più poveri: per la costruzione del Regno dei cieli come regno di giustizia, di verità, di pace e di amore.
    Il vangelo è portatore di criteri di giudizio, di valore, sulla realtà personale e sociale. E questo serve molto al prete che cerca di vivere con i giovani una esperienza politica, una prospettiva di educazione politica, per capire la portata di un vero impegno che non concluda il processo di liberazione solo nel presente. L'educazione politica richiede una larga capacità culturale, riflessione e coscienza critica: un vero «senso dell'uomo». Per questo il prete ha qualcosa da dire.

    ESSERE PRETE: TUTTO DA INVENTARE, CON LA COMUNITÀ
    C.B.

    Alcuni anni or sono uscì un libro edito da Mondadori nella collana «I Documenti Nuovi», che destò un certo scalpore.
    Il titolo era: C'è un domani per il prete?
    Lo acquistai anch'io un po' per curiosità e un po' per dovere professionale, ma non riuscii a leggerlo tutto perché un sacco di gente (per lo più giovani in mezzo ai quali lavoravo) vedendolo sulla mia scrivania se lo prendevano e se lo portavano a casa, finché un bel giorno m'accorsi di non averlo più.
    Ho fatto questa premessa per sottolineare due cose: la prima (la più importante) è l'interesse che la problematica sul prete, sul suo significato e sul suo ruolo, suscitava alcuni anni fa e forse suscita tutt'ora.
    La seconda, la meno importante, è che il libro in questione aveva un sottotitolo che non ricordo più con precisione a motivo delle peripezie a cui il suddetto libro andò incontro.
    Mi sembra comunque che sostanzialmente il contenuto del sottotitolo fosse questo: Dio ha creato il sacerdote, il diavolo ha creato la casta sacerdotale.
    Vorrei appunto partire da questo slogan che, al di là del tono provocatorio comune del resto a tutti gli slogans, mi trova abbastanza consenziente.
    In altre parole si può dire che altro è il sacerdozio istituito da Cristo, altre le forme di cui, via via lungo il corso dei secoli, detto sacerdozio di Cristo si è necessariamente rivestito.
    Sarebbe interessante leggere alcuni appunti del prof. Mario Perotti docente di Storia della Chiesa presso la facoltà teologica del Seminario di Novara. Se ne vedrebbero delle belle, se valutate con la mentalità odierna, soprattutto da Costantino in poi, cioè da 1600 anni a questa parte.
    Se fino allora il prete era un uomo come gli altri che lavorava per mantenersi, in seguito poté vivere grazie alle rendite concessegli e che oggi si chiamano «congrua» «incerti» «tariffe» «beneficio parrocchiale», e via discorrendo. Se sino allora vestiva normalmente come tutti gli altri in nulla distinguendosi se non per una vita evangelicamente più forte, in seguito vestirà l'abito talare. Se sino allora il prete era il primo tra i cristiani a contestare le cose storte dell'impero romano, successivamente ne divenne più difensore e alleato che pungolo critico. E via di seguito. In una parola il prete divenne lentamente un ente a sé, distaccato dalla vita degli uomini e non più uno di loro.
    Ci fu chi salutò con entusiasmo questo modo di porsi del prete perché pensava che così facendo avrebbe potuto meglio essere segno di quel Dio che è «totalmente altro» dagli uomini.
    Oggi noi pensiamo che forse il nostro Dio, più che «totalmente altro» da noi è «Dio-con noi», e che perciò il ruolo del prete debba essere ripensato.
    Inutile dire che i giovani con cui lavoravo quotidianamentee la pensavano in questo modo e mi hanno aiutato poco a poco a svestirmi della prima concezione.
    «Dobbiamo forse scandalizzarci di questo» – dicevo ai genitori dei ragazzi che rimanevano perplessi udendo i propri figli darmi del tu, e ancor più perplessi vedendomi andare in giro per le strade senza nessun segno di riconoscimento, ecc.?
    Rispondevo e risponderei tuttora di no, perché la Chiesa è fatta di uomini e a l'uomo non potrà mai comprendere completamente il mistero di Dio che è infinito e perciò inesauribile.
    Proprio questo «scontro di mentalità» tra i ragazzi e gli adulti della comunità, mi obbligò ad approfondire una serie di domande.
    Chi è oggi il prete? Quale la sua funzione oggi? Quale stile di vita deve assumere? L'accento era posto sull'«oggi», non perché non fossi convinto che il sacerdozio viene da molto lontano, cioè da Cristo, ma perché a che serve sapere che Cristo ha creato il sacerdozio come ponte tra Dio e gli uomini, se poi non sappiamo che cosa significhi oggi tutto questo?
    Incominciai a guardarmi attorno e notai come lo stesso Vaticano II aveva posto le premesse per un dibattito e un approfondimento e forse diede il via ad alcune sperimentazioni che in alcuni hanno fatto gridare allo scandalo, in altri hanno suscitato interesse sia pure con qualche perplessità.
    E così mi imbattei nei fratelli Berrigan, in carcere negli USA per le loro azioni contro la guerra del Vietnam, in Don Gerardo Lutte che lasciò l'insegnamento universitario per andare a vivere con i baraccati di Roma, e ancora in Don Sandro Vesce che divenne prete operaio.
    Ma soprattutto mi colpì la figura di Mons. Fragoso, Vescovo del Brasile, che intervenendo a difesa del prete italiano Giuseppe. Pedandola espulso dalle autorità civili perché troppo premuroso nella difesa dei poveri, scriveva: «La nostra messa potrebbe diventare una predica di ateismo se restassimo indifferenti alla giustizia sociale. Coloro che ci vedono riuniti nella casa comune che è la chiesa davanti alla messa, ci vedono pure riuniti nella lotta per la giustizia affinché tutti i nostri fratelli siano liberati»?
    Mi accorsi anche che tutte queste esperienze sono solamente la punta di un iceberg che nasconde una situazione ben più grande anche se meno eclatante. Da più parti nei piccoli paesi come nelle grandi città, molti sacerdoti con le rispettive comunità cristiane stanno ricercando un modo diverso di essere prete, con fatica e umiltà.
    Da più parti ci si va chiedendo perché mai il prete non potrebbe andare a lavorare come tutti gli altri, non per fini di apostolato, ma semplicemente per mantenersi col proprio lavoro. L'esempio di Paolo è sintomatico. E io credo che il prete ín questo caso sarebbe molto più segno di quel Dio incarnato di cui è ministro.
    Certo se la comunità cristiana sentirà l'esigenza di avere il proprio prete a tempo pieno sarà essa stessa a permettergli di, vivere onestamente, per esempio, con l'autotassazione.
    Nell'un caso e nell'altro verrebbe meno l'abitudine di pagare al prete le singole prestazioni, soprattutto perché le singole prestazioni si chiamano «Messe, funerali, matrimoni, battesimi».
    Il nostro Dio infatti, che è il Dio-gratuito per eccellenza, arriccerebbe il naso se si accorgesse che per incontrarsi con Lui bisogna pagare come quando si va in bottega.
    Inoltre si va facendo strada l'idea della vita comune tra í sacerdoti e questo non solo per un sostegno umano reciproco che consente di vivere a fondo il dono del celibrato come testimonianza del Regno dei cieli futuro, ma anche per scardinare la vecchia distinzione tra parroco e coadiutore a favore di un effettivo lavoro in équipe, premessa indispensabile, secondo me, perché tutta la comunità dei credenti passi da esecutrice a protagonista insieme ai suoi preti.
    Infine mi sembra ormai assodato che il prete non può rimanere neutrale quando è in gioco la libertà e la giustizia per tutti gli uomini, quando si tratta di difendere i diritti fondamentali delle persone, specie di quelle indifese.
    Non si deve aver paura di scontrarsi con i potenti, forti dell'esempio dei primi cristiani che nell'antica Roma finivano in pasto alle belve perché si opponevano allo strapotere dell'imperatore rivendicando una dignità umana per tutti, perché tutti siamo figli dello stesso Dio.
    Mi sono così convinto poco a poco che se si vuole che il prete oggi assuma un ruolo fedele a Cristo e consono all'ora, è necessario che cambi lo stile personale del prete, come siamo venuti dicendo nelle righe precedenti. Ma anche viceversa: se si vuole che il prete cambi modo di vivere deve inventare insieme alla sua comunità il suo nuovo ruolo.
    Lo si vuole non autoritario, ma capace di discernere i doni del Signore, pronto a dare spazio a tutti coloro che siano sinceramente innamorati della verità e della giustizia, che sono poi attributi di Dio.
    Lo si vuole uomo di Dio (non uomo del sacro) nel senso che non è suo compito essere un grande organizzatore o un efficiente affarista, ma uomo che sa scendere nelle profondità della vita in fondo alla quale si trova Qualcuno che ci supera: Dio appunto.
    E lo si vuole anche uomo tra gli uomini, onestamente e lealmente, partecipe del grande sforzo di liberazione comune a tanti uomini di buona volontà, convinti che Dio non sta solamente nelle Chiese, meno che meno nelle sacrestie, ma in ogni sforzo sinceramente umano per la vita.
    Vorrei concludere con due sottolineature.
    Queste mie riflessioni sono iniziate dentro di me secondo una dimensione che si potrebbe definire teorica. I giovani studenti con cui vivevo mi ponevano il problema da questo punto di vista.
    Ma queste stesse riflessioni sono diventate mio pane quotidiano ancor più adesso che lavoro in un sobborgo popolare di Novara dove, mi sembra, non è possibile nessun tipo di proposta o di annuncio evangelico, finché non venga ricostruita un'identità culturale e non si argini la disaggregazione.
    La seconda sottolineatura è questa.
    Mi rendo conto di non aver ben chiaro il mio ruolo di prete. Dieci anni fa credevo di averlo. Ora non più. Ho abbandonato la «via vecchia», ma non ho trovato ancora quella «nuova».
    Insieme alla mia nuova comunità sto tentando di «inventare» il mio futuro. E se per ora, mi sembra di procedere a tastoni nel buio, quasi di essere un «servo inutile» tuttavia non mi lamento, perché credo e spero nella presenza del Signore risorto che ha detto «Ecco io faccio nuove tutte le cose» e ancora, per mezzo di S. Paolo, «quando sono più debole è allora che sono più forte perché in me abita la potenza del Signore».


    SONO PRETE QUANDO SO «PERDERMI»
    G.V.

    Che significa per me «fare il prete» con i giovani?
    Significa essere il leader dell'Eucaristia, dell'amore di Dio. Perciò significa impostare la mia presenza in modo da comunicare l'atteggiamento eucaristico, in modo cioè da far scoprire o intuire la presenza di Dio-salvatore in tutto.
    È evidente che questo obiettivo si realizza nella misura in cui sono «uomo» che fa sentire la gratuità del mio amore e nella misura in cui i giovani possono vedere che io vivo sostenuto ad una promessa di salvezza, ad una fede (povera, non pretenziosa... una fede, insomma).
    E questo significa che il problema non è tanto sull'essere prete ( = funzione evangelizzatrice, testimoniale: non funzione ma vita).
    Questo, per me, è il punto.
    Quali sono i tempi-momenti in cui mi sento maggiormente prete?
    Il momento in cui avvicino ed amo con affetto aperto i ragazzi cui faccio scuola, ín un modo che permetta loro dí sentirsi profondamente liberi, che faciliti il nascere in loro di un affetto aperto, riconoscente. Come in ogni situazione sociale, questo è vero soprattutto quando tutto ciò avviene nei confronti con «gli ultimi», quelli che non si sentono abbastanza amati da nessuno, personalmente mai considerati da nessuno.
    Questo raggiunge il suo culmine nei momenti di liturgia viva, espressa con le categorie e con la manifestazione dei sentimenti che quei ragazzi hanno imparato ad esprimere in forma socialmente serena, libera, perché socialmente accettata grazie appunto alla precedente cura del gruppo.
    Quando avverto tempestivamente che c'è un bisogno a cui io solo posso rispondere e, cambiando tempestivamente progetti personali, mi sacrifico, facendo ciò che risponda all'esigenza percepita.
    Quando qualcuno dei giovani percepisce questo mio modo di agire e ne nasce riconoscenza, ammirazione, imitazione.
    Quando questa scoperta diviene occasione di preghiera.
    Quando libero da intrallazzi (più o meno puliti), disposto tuttavia a sopportare il dubbio degli altri a mio riguardo senza scompormi, presento il mio parere. Quando mi presento disposto ad affrontare anche qualche grosso rischio per essere insieme a chi viene oppresso più di quanto un democratico gioco di forze e di discussione consenta; quando appaio testimone (un poco utopista) di valori pieni (senza compromessi) e comprensivo senza connivenze: la santità, la perfezione, la purezza evangelica... hanno nomi nuovi in questo contesto.

    BISOGNA INVENTARE IL PROPRIO RUOLO... A 40 ANNI?
    W.C.

    Io opero in una grande scuola media superiore (più di 600 allievi) inserita in un complesso scolastico di 900 allievi compresa la scuola media. È una scuola mista da 5 anni. Vi lavoro da 6 anni e in questo periodo il complesso scolastico si è numericamente quasi raddoppiato.
    Ho svolto e continuo a svolgere la funzione di insegnante e di vicepreside con responsabilità specifica del triennio dei tre indirizzi. In questi anni è avvenuta una trasformazione lenta ma inesorabile di mentalità, di stile, di modo di porsi davanti alle varie problematiche giovanili e scolastiche.
    Tu mi domandi cosa significhi per me fare il prete oggi. Cosa risponderti? Forse... dare totalmente il proprio tempo, la propria vita 24 ore su 24 per loro. Forse... Non lo so!
    Mi ritrovo a 42 anni, con 20 anni di esperienza scolastica o di educatore, a rivivere giorno per giorno realtà nuove, modalità diverse. Non esistono strutture, schemi prestabiliti che vadano per tutti, bisogna inventare, provare, fare marcia indietro, tacere, gridare a seconda delle circostanze ma sempre bisognerebbe che mi sentissero amico, leale con loro, comprensivo dei loro problemi e anche delle loro debolezze.
    Tu capisci che nella mia posizione devo essere un organizzatore, un animatore di iniziative, un controllore discreto, un amico comprensivo. Non mi è facile! La mia vita è mangiata dal mattino alla sera; inizio l'anno scolastico, le mie giornate e mi ritrovo alla fine non sempre potendo riflettere criticamente su quello che faccio. Per fortuna che posso usufruire dell'aiuto e del consiglio di altri sacerdoti, insegnanti, dei giovani più impegnati e intelligenti.
    Quali tempi-momenti in cui mi sento maggiormente prete? Cosa significa essere prete? Quali i parametri su cui confrontarsi? Che senso può avere la scuola «cattolica» e il prete nella scuola?
    È difficile orientarsi. Tuttavia non essendo un «teorico» cerco di verificare che la mia vita abbia senso per me e per gli altri e mi domando quando possa averlo. Penso, quando traduco momento per momento la presenza amorevole di Cristo che sta in mezzo ai giovani, li ascolta, fa delle domande, si interessa dei loro problemi, suscita degli interrogativi.
    Il mio apostolato (posso chiamarlo così!?) opera sul piano culturale, cioè sulla mediazione critica tra la prassi, il reale che è attorno a noi e la riflessione su questa realtà, usando gli strumenti propri di ogni scienza e dando una risposta che deve, a mio parere, essere aperta al trascendente, suscitare ulteriori domande, motivate perché intuizioni dell'oltre, del meglio, del diverso che supera i dati elaborati anche rigorosamente. In questo senso le ore di lezione possono essere occasioni meravigliose. Personalmente credo alla validità della scuola cattolica anche sotto il profilo pastorale purché non si attenda da essa come risultato primario la pratica sacramentale. Non la escludo, ma non mi pare sia funzione specifica della scuola.
    Quali momenti facilitano o ostacolano la mia presenza?
    Il fatto di operare in una scuola mi facilita perché i giovani sono lì, basta prenderli, invitarli; mi ostacola perché arrischi di apparire solo come il professore, colui che promuove o boccia. Non è facile creare un rapporto sincero e sereno. Un ostacolo penso provenga anche dal carattere che uno ha, dal compito che gli è affidato, ma soprattutto dalla difficoltà di stare in mezzo ai giovani d'oggi, difficoltà, penso, legata fortemente a una visione sociale, culturale, pastorale eccessivamente giuridica, schematica, «clericale», in una parola non aggiornata seriamente.
    La vita è continua crescita, movimento, novità e creatività e noi preti (almeno alcuni) vorremmo gli schemi prefabbricati, le soluzioni sicure, le verità che non si discutono.
    L'età, la cultura, la formazione non si modificano facilmente. D'altro canto vorrei vedere soluzioni nuove calate nella realtà e portate avanti da giovani preti così pronti nel vedere i limiti nell'agire degli altri. Sarebbe tempo di uscire dagli slogans infantili per confrontarci con la realtà.
    Ma qui forse sono un po' polemico e fuori tema.


    T e r z a
    p a g i n A


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