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    La fede in Cristo e la responsabilità morale



    Guido Gatti

    (NPG 1977-03-29)


    Che cosa immette di nuovo e di «diverso» il mio incontro con Cristo nella mia vita di tutti i giorni?
    È, tradotto in parole semplici, quello che i teologi chiamano il problema dello specifico cristiano in campo morale.
    Dire quotidiano è infatti lo stesso che dire impegno morale nella sua continuità e concretezza: la vita di tutti i giorni è il luogo dove si danno in concreto i valori e i disvalori morali.
    Il cristiano sa molto bene di non avere il monopolio di questi valori. Tutti gli uomini, credenti o meno, illuminati o meno dalla luce dell'annuncio esplicito di Cristo, vivono sotto il segno di un appello e di un imperativo morale. Le loro azioni si pongono all'interno di una polarità bene-male, coestesa a tutta l'esistenza, polarità a cui nulla sfugge e che tutto giudica in ultima istanza.
    Questo impegno ha un suo senso umano anche a prescindere da Cristo. La polarità bene-male morale si identifica infatti con l'alternativa reale (cioè esistente fatalmente nelle cose) costruttività-distruttività umana del nostro agire.
    Anche prescindendo da Cristo il bene mi realizza, il male mi distrugge, mi fa meno uomo, disperde nel nulla le mie possibilità di divenire veramente me stesso, inietta il vuoto di essere nella mia vita. È possibile anche in prospettiva di fede pensare a una bontà naturale autentica, e quindi veramente costruttiva dell'uomo, in persone che senza colpa ignorano Cristo o rifiutano, perché travisato da una testimonianza distorcente e non credibile, il discorso esplicito della fede.
    Anche in costoro opera lo Spirito di Cristo. Ora è logico che il credente si chieda che cosa di più, di ulteriore ci deve essere nella sua vita rispetto alla bontà morale puramente umana di chi non crede. Per che cosa, per quali comportamenti, per quali azioni, per quali virtù, la sua vita si deve differenziare da quella del non credente che sia (naturalmente per dono di Dio) umanamente retto.
    Non intendiamo dare qui una risposta esauriente a un problema che per tanti aspetti è ancora sub iudice: cercheremo solo di segnare alcuni punti fermi.
    E il primo è che la fede in Cristo deve effettivamente comportare una novità di vita: l'espressione è di S. Paolo (Rom 6,4), così come altre simili: novità dello spirito (Rom 7,6), del vostro modo di sentire (Rom 12,2), uomo nuovo (Ef 4,24; Col 3,10), fermento nuovo (1 Cor 5,7) e ci dice quanto fosse viva nel cristianesimo nascente il senso della propria novità.

    A LIVELLO DI SCELTE DI FONDO

    L'adesione a Cristo domanda una conversione, cioè un rovesciamento di tutto il proprio atteggiamento di fronte alla realtà, di tutto il propria progetto di vita; e ciò non può non avere anche dimensioni morali, non può cioè non incidere nel quotidiano, cambiare in modo visibile la vita. Novità fondamentale è la stessa fede.
    La fede è un modo diverso di vedere e di situarsi nei confronti della realtà; Cristo sovverte ogni sapere e ogni sistemazione intellettuale meramente umana con le prospettive di una sapienza «diversa» che è stoltezza per questo mondo (1 Cor 1,21-23).
    La fede è un modo diverso di sentire e di reagire: la decisione di essere di Cristo non si riduce a una scelta volontaristica o alla conclusione di un sillogismo; è una decisione piena di calore, una scelta appassionata che incide profondamente nel patrimonio emotivo della persona.
    La fede è un modo diverso di progettare la vita. Questo però non significa normalmente un cambiamento nelle sue strutture esteriori, nella professione, nello stato sociale, nell'appartenenza sociale.

    Fede come opzione fondamentale

    La vita è cambiata nelle sue strutture interiori a partire dal di dentro. È cambiata nelle sue motivazioni portanti, nelle sue scelte di fondo, in quello che nel linguaggio un po' tecnico dei teologi oggi si chiama l'opzione fondamentale. La psicologia contemporanea ha rimesso in luce il ruolo delle motivazioni nella formazione della fisionomia spirituale di una persona.
    Azioni uguali nella loro struttura materiale (in quello che la teologia tradizionale chiamava l'essenza dell'atto) possono avere un significato spirituale diversissimo a secondo delle motivazioni che le provocano e del progetto di vita in cui si inseriscono.
    Semplificando un po' potremmo dire che le azioni, i comportamenti, le scelte singolari e concrete che rivestono la superficie della persona e sono immediatamente percepibili fanno la persona nel suo valore morale solo nella misura in cui sono legate tra di loro da un progetto unico, sono sostenute da una ramificazione di motivazioni sempre meno immediate, meno percepibili ed effettivamente meno avvertite, ma non per questo meno vere o meno libere, che affondano sempre più nella profondità della persona, fino a quel nucleo centrale della libertà dove la persona si possiede e dispone di sé in modo estremamente impegnativo e difficilmente revocabile, nei confronti di un Bene percepito come incondizionatamente vincolante ed assoluto.
    È qui che si situa la fede come scelta di fondo che sostiene, spiega e unisce in un unico disegno tutte le altre scelte, come motivazione che giustifica tutte le altre motivazioni.
    A questo livello di profondità saltano naturalmente tutte le distinzioni tecniche, peraltro apprezzabili e necessarie ad altri livelli di discorso, tra fede in senso stretto, speranza e carità. La fede di cui si parla qui è la fede viva, cioè una fede che spera e che ama, una fede che non si limita a registrare dogmi ma che cambia la vita nella profondità stessa della sua origine. La «novità» della fede, la sua «diversità» è radicale perché cambia l'uomo nelle radici stesse del suo essere. Senza questa trasformazione profonda non si dà vita cristiana, a dispetto dell'anagrafe.

    A LIVELLO DI STILE DI VITA

    La fede non resta però confinata in queste regioni profonde della psiche; essa integra in sé tutto il modo di pensare, di sentire, di volere, tutti i livelli della personalità. Da questo piano profondo la novità del vangelo invade progressivamente tutta la vita. Questa progressiva invasione del nuovo nella vita del credente passa attraverso delle leggi nuove? Dei comportamenti settoriali diversi da quelli puramente umani? Il vangelo promulga dei comandamenti nuovi, non contenuti in nessun modo nelle esigenze di una morale solo umana?
    I teologi discutono; lasciamoli discutere. Importante è tenere presente che la novità della fede è soprattutto la novità di uno stile di vita, di una logica: lo stile delle beatitudini se si vuole, la logica della croce. Non si tratta però di vere norme. La legge della croce e lo stile delle beatitudini non sono leggi morali in senso proprio: la legge della croce è in realtà l'espressione della dimensione pasquale del vivere cristiano, così come lo è in modo diverso il discorso del monte. Essa non impone nessuna compiacenza morbosa per la sofferenza ma ci ricorda che per realizzarci dobbiamo perderci nel dono di noi stessi per amore.
    Il mistero pasquale di Cristo (che è morte ma anche risurrezione) è la garanzia che nel dono di sé non ci si perde ma ci si ritrova; è la prova del fatto che è meglio dare che ricevere, che è meglio difendere i diritti degli altri piuttosto che rivendicare i propri, è la conferma insomma di tutta la sostanza morale del vangelo. Perché la produttività della croce è vera solo in forza di Cristo; ha la sua garanzia nella risurrezione. Il Cristo risorto è la forza di un amore che vince la morte.
    In questo senso la vera legge morale del credente è Cristo stesso; la più concreta di tutte le leggi, una legge viva.
    Cristo ci ha dato la legge nuova più che sul monte delle beatitudini su quello del calvario, quando «tradidit spiritum», diede se stesso come legge viva.
    Lo stesso comandamento della carità, che è la pienezza delle esigenze morali del vangelo non è propriamente un comandamento: l'amore non si comanda; prima di comandarcelo Dio ce lo dona: amandoci per primo fino a darci il suo Figlio; infondendo in noi il suo amore attraverso il dono dello Spirito. È sull'onda di questo dono che noi lo riamiamo, non in forza di una legge. La legge resta il simbolo e l'incarnazione del vecchio, perché non cambia dentro; ma la fede è novità di vita perché per essa Dio, atea.-erso il dono dello Spirito ci cambia il cuore.

    A LIVELLO DI CONTENUTI NORMATIVI

    Ma c'è nel vangelo anche qualcosa di nuovo a livello di norme contenutistiche? di esigenze precise promulgate in forma di legge?
    Certo ci sono nella parola di Dio delle norme morali (il decalogo, il discorso del monte, molti «loghia» evangelici, l'insegnamento morale degli apostoli) che naturalmente vincolano il credente. Così ci sono norme morali nell'insegnamento della chiesa. Ma le scelte concrete del credente non possono essere interamente dedotte da queste norme, che sono spesso condizionate dalla cultura contingente del loro tempo in modo proporzionale alla loro determinatezza e quindi alla loro apparente immediata applicabilità: tanto più precise (e quindi apparentemente vicine all'azione) esse suonano, tanto più hanno bisogno di essere decantate dal loro condizionamento storico, devono essere rilette e reinterpretate alla luce del presente, tanto meno risultano immediatamente applicabili alla situazione concreta così come suonano.
    Infatti il credente deve normalmente affrontare nel quotidiano l'inedito e l'indeducibile.

    A LIVELLO DEL DINAMISMO DELLA COSCIENZA

    Per questo non è tanto importante segregare dal «corpus» delle norme morali della vita cristiana un certo numero di esse che siano specificamente cristiane, per trovarci dentro il segreto della novità cristiana, quanto piuttosto scoprire come la coscienza cristiana giunga a tradurre nel concreto dei comportamenti settoriali (in economia, in politica, nella vita di famiglia, ecc.) le sue scelte di fondo e la novità radicale del suo progetto di vita. È l'intimo dinamismo della coscienza morale cristiana che ci può svelare meglio il segreto della novità morale cristiana. Se nella situazione concreta c'è sempre qualcosa di unico e di non esaurientemente deducibile dalla norma astratta, di non totalmente riducibile al caso particolare di una legge generale, allora a guidare il credente nella decisione, oltre all'aiuto delle norme scritte nella bibbia e nel catechismo, sarà soprattutto l'istinto vivo dello Spirito.
    Esso è la capacità di cogliere con facilità e spontaneità l'intima coerenza tra la propria scelta di fondo di fede-carità e le indeducibili scelte concrete del quotidiano, tra il progetto di vita e i mattoni con cui decido in concreto di realizzarlo nel quotidiano.
    Questa coerenza può essere colta tanto meglio quanto più autentica è la docilità alla guida dello Spirito Santo, la sincerità nell'amore della verità morale e del bene, la disponibilità a lasciarsi scomodare dall'appello di Dio che risuona sempre nuovo ed originale nel concreto dell'esistenza: ai puri di cuori è promessa la visione di Dio. Naturalmente la prudenza dello Spirito non è qualcosa di innato o di esclusivamente intimistico, non è un ripiegamento immediato in Dio, chiuso alla realtà del mondo; ha bisogno di una lettura lucida, realistica, assolutamente leale del concreto nella sua incessante novità.
    Le decisioni categoriali (economiche, politiche, culturali, familiari) hanno una precisa componente tecnica che esige di essere decifrata con serietà e competenza; anche se la decisione non sarà mai puramente tecnica ma avrà sempre una decisiva rilevanza morale.
    Così in una difficile e fallibile dialettica tra spirito e lettera, tra situazione concreta e norma generale, tra coscienza soggettiva fondamentalmente orientata a Cristo nella fede e valori oggettivi dotati di consistenza assiologica già a livello umano, si viene costruendo nel quotidiano la novità cristiana del singolo come dell'umanità, in una storia incamminata verso la piena rivelazione del Regno, quando in cieli nuovi e terra nuova, preparate dall'impegno quotidiano del presente, ci sarà data l'ineffabile e inesauribile novità del riposo del Signore.


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