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    Convincere di giustizia o convincere di peccato?



    Giacomo Grasso

    (NPG 1977-03-26)

    IL «GUAIO DI FONDO» DI CHARLIE BROWN

    Alcuni anni fa, un editore italiano ha presentato e tradotto Il vangelo secondo Charlie Brown (R.L. Il vangelo secondo Charlie Brown, Gribaudi, Torino 1968). Lo ha inserito in una collana dedicata a testi umoristici. Ma il libro in questione non è umoristico. È un saggio teologico. Meglio: è – a mio parere – uno dei migliori testi di catechesi per giovani e adulti che si trovino sul mercato. Certo: ha uno stampo un po' luterano. Insiste forse troppo sul dramma del «peccato» che travolge in maniera totale l'uomo. Non credo, però, che oggi sia molto pericoloso – pastoralmente parlando – insistere sul «peccato». Di fatto se ne parla fin troppo poco. Se qualcuno, in maniera assai acuta e attraverso il genere letterario usato dall'autore del «personaggio» Charlie Brown, riporta l'attenzione sul «peccato», e sugli «idoli», tutto questo mi sembra di rilevante interesse e in grado di superare i limiti di una teologia non «cattolica».
    Il vangelo secondo Charlie Brown evidenzia la condizione dell'uomo, un uomo che è chiamato a vivere una vita nuova ma che si trova in una condizione di vecchiume (il «peccato», appunto). Il grande vincitore del «peccato» però esiste. Ed è il Cristo. Un Cristo che, tra i personaggi di Charlie Brown, viene facilmente individuato in Snoopy che è poi, contemporaneamente, anche l'Uomo, l'uomo nuovo, quello di cui è alla ricerca Iddio che «cerca dei cani, che coi loro nasi si immergano a fondo nell'oggi e qui sentano il profumo dell'eternità» (citato da K. Barth in Epistola ai Romani). Un Uomo che conclude la sua specificità di credente «confessando il peccato».

    QUAL E LA SPECIFICITÀ DEL CREDENTE?

    Molti si chiedono oggi cosa contraddistingua il credente (il cristiano) da chi non crede. È una domanda legittima in un clima post-cristiano come il nostro. Una risposta possibile, e densissima, è: «Gesù Cristo», oppure: «l'evangelo». Proprio perché densissima questa risposta richiede a sua volta un'esplicitazione. Perché l'esplicitazione non divenga un «Credo», o una summa theologiae, o una raccolta organica dei contenuti della Tradizione, occorre una formulazione più ampia delle risposte di cui sopra, e nello stesso tempo sufficientemente sintetica.
    Ecco allora un mio tentativo di risposta.
    Il credente (il cristiano) è l'uomo che – per dono di Dio in Gesù Cristo – proclama che solo Dio è Dio. E questo contro ogni idolatria. L'Antico e il Nuovo Testamento (da Genesi all'Apocalisse), evidenziano il senso di questa proclamazione. Evidenziano pure la costante tentazione dell'uomo di costruirsi idoli (via via identificabili in elementi naturali, nel potere, nella forza, nella ricchezza, ma anche nelle ideologie e negli egoismi: in ultima analisi identificabili nell'uomo stesso che tende a collocarsi al posto di Dio). Realtà dí per sé buone, diventano motivo di prevaricazione perché collocate su un piedistallo che solo il vero Dio deve occupare. Il credente è chiamato, per la fede, a compiere quella continua «demolizione di Babele» che è, appunto, la «proclamazione» dell'unica sapienza e potenza di Dio.
    Il credente (il cristiano) è l'uomo che – per dono di Dio in Gesù Cristo – riconosce la presenza di Cristo nella storia e, particolarmente, negli altri uomini, sul volto dei quali scopre i lineamenti del volto di Gesù. Questo tipo di «riconoscimento» (possibile solo in chi crede) è di tipo sacramentale. Parte dal quotidiano dell'esistenza e arriva, come suo momento più intenso, all'eucaristia.
    Queste due caratteristiche (la proclamazione e il riconoscimento) si concludono in una terza: la «confessione del peccato». Il credente, infatti, nonostante il dono di Dio, può – poiché è misteriosamente libero – «non proclamare» e «non riconoscere». Nell'avvertire la non-proclamazione e il non-riconoscimento e (anche l'avvertire questa situazione di «peccato» è dono di Gesù Cristo), è messo in grado di «confessare il proprio peccato».

    UNA PARABOLA

    «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così fra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini... Il pubblicano, invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro» (dal Vangelo secondo Luca). L'insegnamento è chiaro: chi si confessa peccatore esce dal tempio salvato. Chi si confessa giusto, non ottiene salvezza. Nel Libro del profeta Isaia si legge che anche la più grande giustizia è fonte di ingiustizia di fronte al Signore. Il ritenersi, e l'essere, umanamente giusti non salva. Se la salvezza si identifica colla possibilità, ricevuta come dono, di vivere la stessa vita di Dio, essa trova le sue strade nella confessione del peccato e non nella manifestazione, piena di umane sicurezze, di giustizia. Una giustizia che può anche darsi quanto a rapporto di umanità, ma che non è sufficiente a realizzare «l'entrata in Dio».

    UNA PREOCCUPAZIONE

    Ho talora l'impressione, e non credo si tratti solo di un'impressione, che la teologia morale in molti casi abbia cercato, e cerchi ancora, di aiutare il credente a convincersi di giustizia. I vecchi trattati di morale raggiungevano lo scopo con una casistica minuziosa. E questa casistica riguardava sia gli argomenti più gravi che quelli più banali. Esemplifico su quelli più banali (che sanno terribilmente di farisaico, almeno nell'accezione che si dà a questo aggettivo sulla base di certi passi dell'evangelo). Alcuni moralisti insegnavano che l'astinenza dalle carni, nei venerdì e in quaresima, non era oltraggiata se si mangiavano le folaghe (anatre) perché le folaghe che vivono per lo più in acqua, «sono come pesce»... A Genova, nei ricevimenti eleganti, in quaresima, si offrivano agli ospiti i «quaresimali», dolci squisiti e costosi, preparati «senza uova e latticini» (proibiti appunto in quaresima...). Erano misure inventate dai moralisti per tranquillizzare le ricche penitenti. Per convincerle di giustizia, insomma, ed evitare di sentirsi peccatori...
    A parte la buona volontà (che vale comunque anche per i vecchi moralisti), non mi sembra che la teologia morale oggi si comporti molto diversamente. Se è giusto aiutare i confessori per evitare che si favoriscano i sensi di colpa – che ben poco hanno a vedere col senso del peccato e con la conseguente «confessione di peccato» – non mi sembra un vero cambiamento operato sull'atteggiamento «vecchio», quello di ricorrere alle scienze umane per «convincere di giustizia». Potrei citare esempi di saggi di teologia morale recentissimi. Si parte con una solida prospettiva: quella di riflettere e far riflettere sulla vita in Cristo, per poi arrivare ad una nuova casistica, assai raffinata e interdisciplinare. Anch'essa, ancora una volta cerca di «convincere di giustizia» più che «di peccato».
    Nel dire questo mi guardo bene dal criticare la ricerca dell'interdisciplinarietà. Mi guardo bene dallo sconfessare le scienze umane. Noto solo un'utilizzazione vecchia e, soprattutto, non cristiana.
    Il credente, perché non si trovi nella condizione del fariseo di cui si è letto nella parabola di Luca, deve essere aiutato a confessare non la sua giustizia ma la sua condizione di peccatore. Non si tratta, allora, di «convincere di giustizia» (come se l'uomo psichico, cioè l'uomo che si muove solo a livello della sua umanità, non sia già fortemente tentato di ritenersi giusto). Si tratta, secondo lo stile della correzione fraterna, di aiutarci reciprocamente a riconoscerci peccatori. Si tratta di «convincere di peccato». Parlo, evidentemente, a livello di riflessione di fede e non a livello di psicologia...

    CONFESSARE IL PECCATO

    Ho già detto che lo «specifico» del cristiano consiste nella proclamazione che solo Dio è Dio, nel riconoscimento di Cristo nella storia e nella confessione di peccato che nasce, anch'essa per dono di Dio, quando si avverte che non si è proclamato e non si è compiuto il riconoscimento.
    In cosa consiste questa confessione di peccato? Che senso ha per la nostra vita di fede? Come introdurla nella riflessione del credente e, in specie, nella riflessione del giovane credente?

    Quel che non è la confessione di peccato

    La fede in Gesù Cristo è una conseguenza dell'annuncio dell'evangelo, cui è seguita la conversione, l'accoglimento dell'annuncio ricevuto. Tutto questo si è compiuto evangelicamente e cioè non attraverso lo sforzo dell'uomo ma per il dono di Dio. «Tu mi hai sedotto, Signore»: ecco l'intervento di Dio. «Io mi sono lasciato sedurre»: sì, c'è anche la risposta dell'uomo, tutta libera e tutta dovuta essa stessa al dono. L'evangelo è una buona notizia. Uno degli effetti è il seguente: la fede che ne nasce non è fatta di tristezze. La confessione di peccato, allora, non può essere la lugubre e desolata espressione di un uomo che constata il proprio fallimento. La confessione di peccato non è un modo pessimistico di vedere la propria vita e il proprio rapporto con Colui che salva.

    Cosa è la confessione di peccato

    Essa è anzitutto lode resa a Dio nel Cristo. Perché il credente confessa il proprio peccato, la propria condizione di peccatore, nella convinzione, piena di fede, speranza e amore, che il peccato è stato vinto, in Gesù Cristo, nella sua morte e risurrezione. Come è stata vinta la morte e la Legge. Confessando il peccato, il credente si inserisce nella liturgia cristica. E la lode si eleva per mezzo di Cristo al Padre, e avvolge tutta la realtà. Quella del credente, quella di tutta la Chiesa, quella di tutto il Creato.
    In questa luce la confessione di peccato diventa un ristabilire la proclamazione e il riconoscimento. La proclamazione, perché una delle dimensioni di fondo del peccato, anzi la matrice di ogni peccato, è l'idolatria. Confessando il peccato si abbattono gli idoli dai loro troni fasulli e riappare l'unico trono: quello di Dio e dell'Agnello. Il riconoscimento, perché la mancanza di esso impediva di inserirsi in quella strada vivente che è Cristo. Confessando il peccato si riafferma la vittoria di Cristo e si coglie con pienezza la sua presenza vittoriosa in tutta la storia, in ogni avvenimento, in ogni realtà e nell'uomo.

    Che senso ha per la nostra vita di fede la confessione di peccato?

    Ha soprattutto il senso di una totale riaffermazione dell'evangelo. La buona notizia, provvisoriamente interrotta dalle ultime conseguenze di cui l'uomo nuovo ancora risente per la paternità del vecchio Adamo, viene nuovamente udita. L'ideologia della «torre di Babele», quella secondo la quale gli uomini possono diventare un unico popolo e costruirsi una torre la cui sommità entrerà nei cieli, viene ancora una volta scalzata dalla realtà misteriosa della Pentecoste. L'ideologia delle «sapienze e delle potenze del mondo», viene ancora una volta superata dalla Croce che, per chi crede, non è scandalo o pazzia ma «sapienza e potenza di Dio». Le misure della terra che privilegiano il più potente, il più forte, il più ricco, il più bello, il più intelligente, ricevono dalla confessione di peccato e dal ristabilirsi dell'eco evangelica, la loro sconfitta. Così riacquista il suo posto la condizione umile ma robusta del credente chiamato a testimoniare al mondo della speranza che è in Lui. Ed è una testimonianza che sa di risurrezione. Di libertà. Di Croce: quel legno glorioso sul quale è stato appeso, come un trionfatore, il vero Dio e vero uomo.
    E tutto questo se ha un senso primario per una fede che dice risurrezione, libertà e croce, ha forse anche un senso per ogni uomo anche non credente. E per questo ha la sua importanza...

    Come introdurre tutto ciò nella riflessione del giovane credente?

    Per quel poco di esperienza che ho del mondo giovanile ritengo che oggi tutti chiedano, e spesso senza risposta, l'essenziale. Spesso senza risposta, un po' come se l'evangelo insegnasse (e insegna invece il contrario) che al figlio che chiede un pane si debba dare un sasso! I giovani chiedono l'essenziale, e si offrono i frutti del consumismo più bieco. Talora anche nella chiesa. Chiedono l'evangelo e si dà loro, spesso in maniera arruffona, elementi di psicologia, di sociologia, di economia, di politica, di arte... Non mi si fraintenda. Tutte queste scienze hanno una loro dignità, e una loro grande importanza. Ma: se ti chiedono l'evangelo, per qual motivo devi offrire queste scienze?
    Se al giovane credente (per lo più da evangelizzare), si dà Gesù Cristo, il suo evangelo, cioè lo «specifico» del credente esplicitato magari secondo le linee della proclamazione e del riconoscimento, si può arrivare ben presto alla loro conclusione: alla confessione di peccato. E tutto questo nel clima evangelico di cui sopra, evidenziando il senso di lode e di festa che acquista per chi crede la confessione del peccato. E se nasce un'ulteriore domanda, essa non è più preoccupata del «come». Piuttosto riguarda i contenuti, perché non sempre i credenti adulti li hanno esplicitati a se stessi.
    Forse perché troppo preoccupati di «convincersi di giustizia» piuttosto che di «convincersi», essi stessi, «di peccato».


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