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    Si può educare alla responsabilità



    Vittorio Ghetti

    (NPG 1977-03-20)


    Ho l'impressione che nel mondo dei giovani non si parli quasi mai di responsabilità. Si direbbe che il termine venga vissuto come manipolante, ambiguo e (per dirlo con una parola ormai corrente) mistificante. Il farsi carico di se stessi, delle proprie azioni, delle scelte e delle decisioni che queste comportano non fa più modello stimolante. Al contrario. Fa piuttosto pensare ad uomini fuori dalla storia presente, superati, individualisti o tormentati dal «dover essere». Se qualche educatore condivide, anche solo in parte, queste mie impressioni mi sembra importante proporre – senza recriminazione, senza giudizio e senza condanna – una sia pur rapida lettura dei tempi per cercare di capire il senso e di interpretare i motivi di questo rapporto dei giovani colla loro responsabilità.

    VIVERE IN UN SOCIETÀ DERESPONSABILIZZANTE

    Osservatori attenti e sensibili di segni e tendenze, essi appartengono ad una società deresponsabilizzante. Quello che sta davanti ai loro occhi è infatti un mondo mercantile la cui filosofia dominante è rappresentata dal meccanismo produzione-consumo-produzione. Per sopravvivere e svilupparsi questo universo ha bisogno di uomini disponibili agli idoli, tendenti a privilegiare l'avere sull'essere e orientati verso una scala di valori secondo la quale l'affermazione, la capacità d'acquisto e il potere a qualunque titolo acquisito, lascia pochi e marginali spazi alla conquista personale raggiunta lungo il faticoso cammino della coerenza colla propria coscienza.
    Stretti nell'alternativa, talvolta angosciante, dell'esercizio della loro autorità da un lato e della perdita dall'altro di ogni dialogo anche solo formale, i genitori diventano facili alleati del sistema. Ad essi, il più delle volte, non rimane che la paziente attesa di una maturità sperabilmente capace di indurre ad una autonoma revisione di valori e di modelli. Stiamo accennando al permissivismo familiare oggetto di tante condanne non sempre a mio avviso giustificate. Gli spazi consentiti alla autorità paterna e materna possono in realtà ridursi a ben poco quando i genitori vengono inclusi nel processo di emarginazione riservato ad ogni richiamo che ostacoli o comprometta l'affermazione di diritti nei confronti della o delle generazioni precedenti. Il gran numero di risorse investite per lo sviluppo del cosiddetto «mercato dei giovani» rappresenta il solido supporto a questo atteggiamento che è peraltro solo una delle componenti di una più comprensiva visione del modo di essere dei giovani oggi. Per cercare di offrire con poche parole un quadro della situazione, un buon punto di partenza può essere rappresentato dalle parole di E. Fromm. «Perché una società funzioni occorre che gli uomini desiderino ciò che è necessario che essi facciano per il buon funzionamento della società in cui vivono». Occorre, in altri termini, che i cittadini facciano delle norme sociali vigenti le loro norme personali.

    NORME E PERSONA: MODELLI RICORRENTI

    A livello della responsabilità e della formazione della coscienza possiamo cogliere nel tempo e nello spazio geografico tre tipi di norme sociali determinanti di cui il primo è quello in cui predomina la proclamazione di «valori assoluti» e nel quale il consenso è assicurato dalle relazioni di potere tra gruppi suddivisi per casta, età, professione e status.

    Il tempo dei valori assoluti

    Per «valori assoluti» si intendono quelli che, essendo al di fuori del tempo, dello spazio e delle vicende contingenti, si contrappongono ai valori empirici della vita di ogni giorno. Questa impostazione pedagogica ha antiche origini e protagonisti di grande prestigio. Basti citare la repubblica terrestre di Platone, il cristianesimo primitivo e medioevale, l'idealismo obiettivo di Kant e di Hegel fino ai due grandi credenti del nostro tempo Maritain e Mounier. Le norme in questa società sono statiche, si riferiscono prevalentemente al passato e privilegiano la formazione individuale della persona (tutto è già stato detto per es. dalla Bibbia e dalla Storia). In questa visione l'assoluto è considerato in se stesso, fuori da ogni incarnazione storica, tanto da imporlo e contrapporlo ai valori concreti che determinano le singole vicende quotidiane.

    Valori interiorizzati

    Il secondo tipo di norma a diffusione sociale è quello esistente in una società a direzione interiorizzata nella quale le indicazioni sul comportamento nascono dall'interno della coscienza ed i modelli sono rappresentati dagli anziani ai quali è riconosciuto il ruolo di trasmettere principi e di inculcarli nelle nuove generazioni fin dall'infanzia. Benché le norme interiorizzate siano caratterizzate da una notevole rigidità, esse consentono da un lato di conservare un equilibrio tra le forze divergenti rappresentate dalle aspirazioni vitali e gli ostacoli opposti al loro raggiungimento e di lasciare dall'altro margini sufficientemente ampi per mettere continuamente a confronto il dato esperienziale con i valori trasmessi e custoditi a livello di coscienza. Tipica della famiglia patriarcale questa struttura normativa trae le sue origini dal Rinascimento, dalle rivoluzioni sociali e religiose del 17° e 19° secolo e rappresenta il modello educativo più diffusamente somministrato agli attuali 45-60enni.

    Il tempo delle permissività

    Nelle società occidentali di tipo terziario (progressiva crescita dei servizi, delle comunicazioni e della distribuzione, diminuzione relativa delle nascite e aumento delle attese di vita) si stanno sempre più affermando norme di comportamento sociale a carattere eterodiretto. In esse i fini verso i quali tende il singolo si spostano collo spostarsi della guida esterna costituita dalla tendenza collettiva e dalle ideologie dominanti. I rapporti con se stessi e cogli altri sono regolati dal flusso delle comunicazioni di massa alle quali viene affidato il compito di interpretare il significato dei valori morali, culturali, sociali, politici e religiosi. Il prevalere di queste forze sulle scelte interiorizzate di comportamento induce ad un'educazione permissiva. In queste condizioni (lo accennavo prima) la conservazione dell'affetto diventa, per chi educa, un obiettivo prioritario mentre l'imposizione di norme da interiorizzare incontra seri ostacoli.
    Il gruppo dei pari è il più efficace strumento di penetrazione e di diffusione della comunicazione di massa. Gli eductori, a questa a loro volta esposti, tendono ad apprezzare e a ritenere più importante la capacità di «captazione» dei messaggi che il rispetto e l'adesione a norme di coscienza. Per caratterizzare con immagini emblematiche il passaggio all'eterodirezione dal precedente rapporto con norme interiorizzate, si può dire che il simbolo della società a direzione interiorizzata potrebbe essere il giroscopio mentre quello della società eterodiretta il radar. La sanzione in caso di contravvenzione alle norme della prima è costituita dal senso di colpa. Poiché in un società eterodiretta l'omeostasi dei suoi membri è assicurata in primo luogo dal consenso e dall'approvazione, l'assenza di uno dei due (o di entrambe) trova la sua sanzione nell'ansietà. La tensione necessaria per restare in sintonia col mondo esterno in continua evoluzione e cambiamento sostituisce, nella società eterodiretta, lo sforzo di introspezione, di auto-verifica e di interiorizzazione che precede ogni assunzione di responsabilità. In altre parole il significato e l'importanza di accettare responsabilità a livello di coscienza e di persona tendono ad essere vanificate dal nostro sistema sociale.

    MATURITÀ PER RESPONSABILITÀ

    Evocate in forma estremamente sintetica le forze che condizionano il senso di responsabilità personale, cerco ora di esprimere alcuni aspetti pedagogici del problema che ritengo di grande attualità. Poiché l'obiettivo primario dell'educazione è rappresentato dal cambiamento (conversione) della persona e poiché ogni cambiamento presuppone l'assunzione di responsabilità assunte e mantenute, l'argomento in questione occupa una posizione centrale in tutto il processo educativo. Mi sembra anzitutto che la progressiva assunzione di responsabilità personale sia strettamente correlata con lo sviluppo della maturità della persona. Per rifarsi alla rapida precedente ricognizione della condizione giovanile odierna, mi pare di capire che non solo le forze che agiscono sul loro modo di essere costituiscano un freno alla loro maturazione ma che le norme dominanti nella attuale società occidentale esigano, per essere efficaci e condivise, un certo grado di immaturità. Gli interventi educativi più determinanti per poter aprire un discorso coinvolgente sulla responsabilità dovrebbero a mio avviso pertanto concentrarsi sulla crescita della maturità della persona. Per agire pedagogicamente in questa direzione occorre avere idee sufficientemente chiare su cosa significa essere maturi e poiché ho la fondata impressione che nei confronti di questo termine esistano idee piuttosto confuse se non tra loro in contrapposizione, propongo al giudizio del lettore alcune indicazioni volte a meglio definirlo. Se voglio rifarmi alla mia esperienza dovrei dire che maturità è anzitutto crescente accettazione di se stessi (del proprio stato, delle proprie capacità, del proprio aspetto) senza spinte verso l'aggressività e senza perdita dell'auto-stima.
    Maturità è inoltre crescente accettazione degli altri per quello che sono e non per quello che vorremmo che fossero. Considero assimilabile a questo attributo anche quello relativo all'accettazione della propria identità sessuale capace di gestire un dialogo equilibrato e positivo con persone di sesso diverso. Maturità vuol dire anche crescente accettazione della relatività del proprio giudizio ed accettazione del continuo modificarsi della realtà con conseguente disponibilità a cambiare il proprio patrimonio di valutazioni e di comportamenti. Ciò significa, tra l'altro, pervenire alla convinzione che nei gruppi umani vi è spazio anche per posizioni decentrate senza volere, per questo, quando se ne fa parte, rifiutare o tendere a sabotare il gruppo di appartenenza. Maturità vuol dire anche capacità di ascolto e sforzo di comprensione di idee e situazioni inconsuete o, a prima vista, inaccettabili. Maturità, ancora, significa capacità di prendere decisioni e di accettarne fino in fondo le conseguenze. Benché l'elencazione sia certamente incompleta, è probabile che già questa prima lista di attributi della maturità sia considerata deludente da quanti hanno di essa un'immagine molto più idealizzata o speculativa. Mi sembra tuttavia che ai fini di una proposta pedagogica avente come obiettivo lo sviluppo del senso di responsabilità e di coscienza individuale questi richiami concreti possano in qualche modo costituire un punto di riferimento per la costruzione di un disegno educativo convergente e realistico.

    RISPETTO DELLA «LIBERTÀ ESPERIENZIALE»

    Ma quale disegno educativo? Dopo quanto ho accennato sul rispetto, sull'ascolto, sul valore dell'esperienza e delle idee degli altri come segno di maturità, il discorso diventa a questo punto ovviamente difficile. Tanto più che per il rapporto educativo non sono accettabili modelli costanti ed universali e questo non solo in termini di relazione tra educatore ed educando ma anche e soprattutto in ordine alle situazioni, alle alle circostanze ed agli eventi che caratterizzano giorno per giorno il rapporto pedagogico interpersonale. Mi limito quindi ad alcune considerazioni rifacendomi soprattutto alla mia esperienza. Io ritengo che lo sviluppo della maturità (cogli attributi prima indicati e con altri che lascio identificare al lettore) sia un processo naturale e spontaneo quando sia possibile assicurare condizioni di crescita della persona nelle quali esista un rigoroso rispetto nei confronti della «libertà esperienziale». Prevengo subito ogni possibile reazione negativa sottolineando che libertà esperienziale non significa libertà di fare le esperienze che si vogliono. Tutt'altro. Col termine «libertà esperienziale» intendo un tipo di rapporto interpersonale che lasci libero l'educando di riconoscere, analizzare ed elaborare le proprie esperienze ed i propri sentimenti in modo autentico e indipendente. Ciò significa non essere costretto a negare o a deformare le proprie opinioni ed i personali atteggiamenti per
    assicurarsi l'affetto, la stima ed il consenso delle persone che per lui contano. In assenza di libertà esperienziale la deformazione o la totale negazione della propria esperienza diventa la regola. Come si è visto questa negazione rappresenta un meccanismo dominante della società eterodiretta che restringe o cancella le opportunità di autentica autovalutazione. Se gli educatori aggiungono negazione a negazione i contorni che l'educando assegna alla propria immagine ed alla sua attualizzazione si dissolveranno sempre più. Egli diventa così incapace di capire quali siano esattamente i suoi pensieri e cosa in realtà i suoi desideri, lasciandosi andare a quel qualunquismo esistenziale che rappresenta una delle posizioni più difficili da rimuovere in termini di cambiamenti verso la maturità e la conseguente assunzione di responsabilità.

    Il contenuto della «libertà esperienziale»

    Il discorso sarebbe incompleto senza un accenno all'oggetto della «libertà esperienziale» e cioè alle esperienze da proporre. È evidente che queste cambiano a seconda della proposta del metodo educativo prescelti. Poiché la mia personale esperienza educativa si è sviluppata soprattutto nello Scoutismo ne cito alcune tra quelle che mi sono più familiari. Per esempio l'esperienza di essenzialità (esperienza dell'«unum» di Dio contro l'esperienza di idolatria e degli idoli) che viene dal contatto costante, semplice, immergente colla natura. Per esempio la misura di se stesso, la scoperta dei propri limiti, le attese che la comunità ha nei confronti della persona ed il bisogno di comunità della persona che provengono dal regolare anche se temporaneo abbandono delle facilitazioni offerte dalla moderna tecnologia. Per esempio il prevalere dell'essere sull'avere quando l'avere in determinate condizioni di vita nel Creato conta ben poco. Per esempio l'esperienza del provvisorio, che va considerato fondamentale premessa al cambiamento ed alla speranza, che lo Scoutismo propone in termini di gesti e di vissuti concreti. Per esempio, e ancora, il richiamo al mito e all'utopia che è un modo di rievocare le origini dell'uomo come punto di incontro e di misura dei valori perenni e dei progetti per il futuro. Sarebbe facile proseguire in questa, esemplificazione ma preferisco fermarmi
    qui. D'altra parte ritengo che due tra le più importanti prerogative dell'educatore siano la creatività e l'innovazione. Queste due qualità sono sempre più richieste a chi fa educazione in epoca di cambiamento. Se infatti in una società retta dalla tradizione o da «valori assoluti e costanti» un'educazione basata sullo stimolo alla creatività e all'invenzione presenta una elevata apposizione all'emarginazione e al disadattamento, in una società come la nostra in rapida e continua evoluzione l'apprendimento nell'iniziativa personale consente una ricerca in funzione dei mutevoli bisogni dopo una serie di approcci esplorativi che possono approdare sia verso nuove conquiste sia verso l'insuccesso a sua volta tuttavia capace di offrire preziosi insegnamenti. Il principale vantaggio della formazione nella creatività in epoca di cambiamento è costituito dalla continua offerta di esperienza esistenziale utilizzabile quando si verificano situazioni nuove ed imprevedibili.

    Condizioni: quale educatore?

    L'apprendimento nell'iniziativa è molto più esigente di quello proprio alla formazione ripetitiva e condizionante. Esso richiede, tra l'altro, esperienza di autonomia umana nell'ambito di iniziative personali che esigono duraturo e costante impegno. Richiede autentica capacità di incontro coi giovani (cosa mi interessa di loro, quale è l'arco di età che ritengo più adatto alla mia persona e perché?). Richiede tolleranza ai cambiamenti di mentalità ed alle occasionali «rivoluzioni culturali». Richiede volontà di presenza, di partecipazione e di implicazione qualunque sia la direzione verso la quale la persona o il gruppo tendono a muoversi. Esige una duplice solidarietà: cogli adulti stabilizzati o reazionari e con i giovani attratti dal richiamo di nuove frontiere. Richiede infine la capacità di assumere tensioni e conflitti senza mettere continuamente in discussione la scelta di essere educatore.
    È con questo atteggiamento che a mio avviso va oggi visto il rapporto educativo in genere e quello volto alla formazione al senso di responsabilità in particolare. Non dimenticando che la coscienza morale dell'educando si forma molto meno colle parole e molto di più col modo di essere dell'educatore.


    T e r z a
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