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    Movimenti giovanili ecclesiali tra «novità» e «tradizione»



    (NPG 1979-10-27)


    Come educare alla memoria? Che ruolo ha la «tradizione» nella educazione umana e cristiana dei giovani? Quale accoglienza al «nuovo» che fermenta nel mondo giovanile, soprattutto tra gli adolescenti?
    Su queste domande abbiamo invitato ad un confronto alcuni responsabili di movimenti giovanili ecclesiali di Torino. Per sentire direttamente da loro come accolgono certe domande e come, concretamente, cercano di rispondervi.
    All'incontro hanno partecipato: AGESCI (Giacomo Grasso), ACI (Marco Peisino), CL (Bernardino Reinero), GiOC (Domenico Cravero), il responsabile di un centro giovanile salesiano (Vincenzo Marrone).

    I RIFLESSI DELLA CRISI DEI MECCANISMI DI TRASMISSIONE CULTURALE NEI GRUPPI GIOVANILI ECCLESIALI

    Si parla tanto, oggi, di crisi dei meccanismi di trasmissione culturale, sia per quel che riguarda la società che per quel che riguarda la Chiesa. Non si riesce, così sembra, a far recepire la tradizione, ad attivare la memoria. In che misura, ripensando il passato ed il presente della vostra associazione, si è verificata o si sta verificando oggi tale crisi? E in quali ternfini?

    PEISINO – La crisi di rifiuto, o almeno la difficoltà nel recepire il passato, per l'AC ha avuto in questi anni un significato particolare di rigetto dell'etichetta, della storia «pesante» (nel bene e nel male) della nostra associazione in Italia. Il momento attuale tuttavia vede un ritorno di simpatia a tutti i livelli. Anche da parte di chi in questi anni passati aveva parlato dell'AC in termini di estinzione. Giudichiamo questo fatto però con una certa cautela. Lo consideriamo positivo se è espressione del superamento dello spontaneismo che aveva caratterizzato il mondo giovanile ecclesiale di questi anni. Lo temiamo quando questa simpatia nasce da un presunto o voluto ritorno al passato dell'AC. Ci fa paura quando è simpatia per «quella» AC, rinnegando la storia ultima di questi anni e le sue conquiste.

    GRASSO – Parlando di crisi dei meccanismi di trasmissione culturale mi sembra importante fare alcune premesse per l'AGESCI. La prima a proposito del movimento degli associati in questi anni. Notiamo in effetti una notevole stabilità dagli 8 ai 19-21 anni, con una consistente presenza di giovani (18.000 su 102.000 iscritti) e di capi (circa 10.000). La seconda premessa è di tipo storico. L'aver compiuto 63 anni di vita, l'aver vissuto lo scioglimento da parte del fascismo, l'aver combattuto la resistenza fino alla liberazione, l'aver vissuto tutti gli avvenimenti di grosso rilievo del dopoguerra in Italia, l'aver gestito la sua laicità, secondo lo stile del Vaticano II e l'essere stata assolutamente autonoma dai partiti, tutto questo è diventato un immenso materiale di «tradizione associativa» che è venuto consolidandosi, anche durante gli scossoni del '68 e del dopo '68.
    Il fatto stesso che dal '68 ad oggi gli associati si siano raddoppiati dice molto dell'interesse dei giovani per la tradizione scout e della grossa attenzione educativa alla «tradizione» che ci caratterizza.
    Le caratteristiche dell'AGESCI sono tali da favorire il senso della storia e della tradizione. Per questo possiamo dire che, fino ad oggi, non abbiamo vissuto in modo rilevante la crisi della memoria.
    Fino ad oggi. Difficile dire quello che sta succedendo ora. Anche se, in ogni caso, non ha senso abbandonarsi a delle frettolose valutazioni. La ricchezza della nostra tradizione sta anche nel non lasciarsi coinvolgere con troppa fretta nell'immediato. La verifica non è facile perché le persone crescono lentamente. Volerla a tutti i costi è un po', come ha detto Ottavio Losana, l'attuale capo Scout d'Italia, «pretendere di veder crescere un albero».

    REINERO – CL è nata dentro la crisi dei processi culturali di cui stiamo parlando. In certo senso, il nostro movimento è nato come risposta, riscossa a questa crisi. CL è nata come un fatto di vita in cui la fede fosse 'capace di perpetuare se stessa incidendo sulla realtà. Nata così, non può che «sopravvivere» così: non potrebbe rimanere per la pura trasmissione d'una sigla o d'una macchina organizzativa e tesserata. Trasmissione del cristianesimo c'è dove la fede rimane una cultura, dove rimane come valore globale della vita.
    La crisi è sopraggiunta a causa d'una trasmissione della fede intellettualistica, schematica, aprioristica. I giovani si son trovati con un bagaglio che non facilitava, anzi impediva un vero approccio alla realtà: perciò o se ne ritiravano stando al caldo sotto il campanile o vi si buttavano rimanendone travolti.
    Crisi d'intellettualismo è ed è stata; incapacità di trasmettere il valore della fede nella sua essenzialità, che è il mistero dell'incarnazione del divino nell'umano. Ne è nata una disaffezione alla Chiesa e alla sua storia, come mistero di Cristo presente e operante nella storia.
    La fede è divenuta teoria, fatto privato, cose da fare o da evitare, non più fatto da verificare pienamente nella vita, centro della vita. Ora la trasmissione della fede avviene solo nel caso in cui essa venga vitalmente assunta – come ipotesi esplicativa della realtà – e come tale comunicata. In una parola comunicar la fede è comunicar Cristo nel quale, col quale e per il quale vale la pena di giocare l'esistenza nella storia. Mi pare che la figura di Giovanni Paolo II compendi perfettamente quanto ho detto: ognuno avverte in lui una convinzione più calda della sola certezza intellettuale, una forza più calma della sola energia della volontà. E le parole echeggiate dalla sua bocca il 22 ottobre '78 («Non abbiate paura. Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!...») son diventate ormai sinfonia per l'unità di fede generata nel cuore di tanti giovani.

    CRAVERO – Non mi sembra che per la GiOC la crisi di trasmissione culturale sia così forte come per altri gruppi ecclesiali. Questo perché noi educhiamo il giovane lavoratore a vivere la vita, alla luce della fede, inserendosi nel suo ambiente, cioè il mondo operaio. Due caratteristiche fondamentali della GiOC sono appunto la caratteristica operaia e quella di massa.
    Volendo essere la classe operaia cosciente, fare memoria nella GiOC significa acquisire la storia, le lotte, l'esperienza del movimento operaio. Per questo la proposta della GiOC include sempre, dal di dentro, un momento di riflessione (talvolta anche critica) sul movimento operaio. Oggi c'è da aggiungere che i giovani non vivono più in modo trionfalistico, mitico, questo rimando alla tradizione operaia.
    Per quel che riguarda la Chiesa, la GiOC italiana ha purtroppo una tradizione non molto felice, visto che l'esistenza di un movimento giovanile operaio cristiano è stato ostacolato a più riprese. Ciò non toglie che i giovani recepiscono positivamente questa esperienza travagliata, comprendano le difficoltà della Chiesa verso la classe operaia e nondimeno siano disponibili a capire la prospettiva di una autentica esperienza di chiesa nella classe operaia, nel filone biblico storico della «comunità dei poveri». Il metodo della GiOC è sempre stato questo. Cardjin, il suo fondatore, fino dal 1948 diceva: fondamentale per il nostro movimento è partire da cos'è la classe, il movimento operaio. Termini che rimandano fortemente ad una storia ed ad una tradizione.

    MARRONE – Tento una risposta riflettendo sulla mia esperienza, evitando quindi di generalizzare ad altri ambienti salesiani, soprattutto di tipo scolastico. Negli anni del '68 mi sono trovato con alcuni giovani a dover affrontare la situazione giovanile in modo nuovo. La prima domanda che ci siamo posti è stata: c'è uno spazio tipico per gruppi oratoriani come il nostro che non sia quello dei movimenti?
    Da allora abbiamo fatto un nostro cammino, in un certo senso abbastanza slegati da ogni tradizione. Ma proprio questi giovani del '68 e del dopo '68 si sono dovuti porre il problema della tradizione.
    È successo negli ultimi anni, quando sono arrivati da noi i giovani che hanno, come si dice, riscoperto il personale. Nel momento in cui i più giovani non recepivano il discorso dei più grandi, questi si sono trovati a dover riscoprire il valore della tradizione, di una storia che li superava.
    Lentamente abbiamo riscoperto sia la scelta tipica del metodo e dello stile salesiano tra i giovani, sia lo spazio originale del carisma salesiano nella Chiesa. Oggi sentiamo molto il bisogno di approfondire lo spazio proprio dell'oratorio, al di fuori dei movimenti: uno spazio per quei giovani che nei movimenti non vogliono o non sono in grado di entrare. In questo i più grandi affermano di essere in linea con la scelta di Don Bosco, visto non come una inutile bandiera ma come un valore.
    La mia impressione è che nel mondo salesiano per alcuni anni si è andati avanti sulla spinta del capo carismatico e che dopo di lui si sia troppo istituzionalizzato il carisma, con il grosso rischio che, a volte, il carisma si è sclerotizzato, diventando incapace di assumere il «nuovo» dei giovani. Oggi si stanno riscoprendo alcune caratteristiche salesiane: la scelta del povero, lo stile della condivisione, l'importanza dell'allegria e della festa, la riscoperta della vita e dello stile di Don Bosco...
    Nei giovani-adulti si osserva, almeno nel nostro centro giovanile, questo sforzo di riappropriarsi dello stile salesiano e di comunicarlo ai più giovani. C'è una significativa volontà di recupero del passato, della matrice da cui proviene un centro come il nostro.

    QUALE RUOLO PER LA «TRADIZIONE» NELL'EDUCAZIONE DEI GIOVANI?

    Nel modello educativo in cui la vostra associazione si riconosce, che valore viene attribuito alla memoria/tradizione? Il rapporto tra memoria ed innovazione tende maggiormente ad usare della memoria per capire/costruire il presente ed il futuro (il «nuovo») o piuttosto per inserire il presente nella continuità vivente della tradizione?

    REINERO – Il nostro movimento è strutturalmente un'educazione alla memoria, si sente carne della Tradizione cristiana. Ne son segno il tenace perseguimento della sintonia con l'autorità della Chiesa e la discepolanza continua nei confronti di tutto ciò che il popolo di Dio ha generato nei secoli. I nostri ragazzi imparano assai presto ad accostare i Padri o la storia della Chiesa.
    Ma, più profondamente, essendo l'uomo esistenzialmente una «possibilità d'esistenza piena» e ricevendo soddisfazione, esaudimento solo dall'esperienza del dono – che è Cristo –, una vera comunità cristiana è impregnata di memoria, è imperniata sulla tradizione, è spettacolo di un luogo umano in cui il valore di Cristo nella storia degli uomini è passato di mano in mano perché ognuno ne possa godere. Ciò determina nella comunità – è il nostro perenne impegno nel movimento – un clima, un'aria in cui si respira il gratuito, la carità, l'invenzione...
    La tradizione è carità che tien dritto l'uomo che non è roccia e non starebbe a lungo di fronte a se stesso e a Cristo. La tradizione è l'umanissima Madre Chiesa che sostiene l'uomo, lo tiene attaccato alle sue radici vere e trasmette alla vita il sapore di qualcosa che val la pena di vivere, appunto. La tradizione costituisce il presente nella sua essenzialità e lo rende fecondo. Perciò non v'è rinnovamento nel rinnegamento del passato. La vita non si edifica per fratture... perciò il rinnovamento non distrugge il passato, ma parte da esso per capire il presente e pone nel presente un segno di vita nuova per il futuro.
    Anche se critica, l'unità di passato e presente è l'autentica generatrice del futuro. Fa violenza alla tradizione chi parte da uno schema ideologico. Ma è destinato a riprodurne il peggio: ciò vale sia per il pensiero rivoluzionario nella società, sia per il «clericalismo laicizzato» di certe forme ecclesiali «contestatrici ed infeconde» di questi anni.

    MARRONE – Una premessa. Il nostro è un ambiente «educativo» ed in quanto tale si differenzia da una comunità cristiana. La comunità cristiana è formata esplicitamente da «credenti»; un centro giovanile include giovani che credono, altri alla ricerca. Ci sono dunque nel nostro centro delle persone che sanno bene quali sono le mete a cui arrivare, però non è detto che il ragazzo e l'adolescente che viene da noi abbia in testa quelle mete. Proprio per questo esiste un lungo iter educativo. E ci sono i singoli che, nella libertà, danno la loro risposta alla proposta che viene rivolta dall'ambiente educativo.
    Ora, nel nostro ambiente, la memoria/tradizione è poco accentuata, perché lo sforzo nostro è anzitutto quello di accogliere il giovane, la sua storia e di dargli uno spazio in cui inventare il suo futuro. È chiaro che i più vecchi, se vogliono educare alla fede, devono introdurli nella tradizione. Ma non vogliono affatto trasmettere la loro maniera di vivere la tradizione. Questo crea un problema serio: riuscire ad educare a cogliere i valori del passato, non perché passato, ma perché il passato ha iniziato a riflettere e noi dobbiamo continuare la riflessione. Oltre recepire i valori del passato e cercare di tradurli, crediamo anche che la nostra generazione abbia qualcosa di nuovo da dire. Un discorso complesso, in cui oggi ci troviamo immersi. Anche noi, i più grandi dico, ripetiamo che senza passato non c'è futuro.

    CRAVERO – Per capire il ruolo della memoria nella GiOC si può fare riferimento alla revisione di vita. La GiOC educa alla memoria mediante la revisione di vita, vista non come una tecnica per fare la riunione di gruppo ma come uno strumento attraverso il quale si parte dall'azione, si riflette, ci si coscientizza, si ritorna all'azione per cambiare. La revisione di vita parte da fatti concreti che coinvolgono la vita del giovane lavoratore, ma subito invita il giovane ad allargare lo sguardo in due direzioni: orizzontale (vedere che quei problemi riguardano anche altri) ed una verticale (vedere il problema nella sua dimensione storica e nelle sue prospettive future). In questo ci sembra di trovare un adeguato equilibrio tra continuità con il passato, apertura alla novità del presente e costruzione di un futuro che non sia puramente la ripetizione del passato.

    PEISINO – Mi pare ci possano essere tre posizioni a riguardo del passato, quasi tre poli distinti tra loro, ma riconducibili ad uno stesso denominatore comune. Il primo è l'atteggiamento di chi sacralizza il passato, il secondo quello di chi ignora il passato come qualcosa che non merita interesse, il terzo quello di chi contrasta il passato e sceglie il nuovo come fine a se stesso.
    Le tre posizioni hanno un denominatore comune, quello di evitare di dover/poter riconoscere i propri errori e le altrui ragioni. Chi sacralizza il passato dice a priori che nel suo passato non possono esistere errori: il passato è buono, l'importante è continuare. Chi ignora il passato non può riconoscere i suoi errori, perché non se ne occupa. Chi lo contrasta rinnega ogni cosa, evitando così di chiedersi cosa ci fu di «bene» prima di lui.
    Queste posizioni si ritrovano purtroppo a volte anche oggi nella chiesa e nella società. Credo sia assolutamente necessario uno sforzo per superarle, accettando di «dover» sapere il passato per riconoscervi il «bene» ed il «male», per poter costruire il presente vissuto come «pietra» da portare alla costruzione comune del futuro dell'uomo.
    La scelta educativa dell'AC cerca di rispecchiare questa interpretazione del rapporto tradizione-novità: in ogni gruppo l'animatore è colui che aiuta a riflettere sul passato, cioè sulla storia del gruppo e, più in generale, sulla storia dell'uomo, per scegliere però nella piena libertà di ciascuno il modo di vivere il presente. L'animatore è colui che «cammina» a fianco delle persone che educa, aiutandoli a fare scelte autonome e responsabili, ma accettando insieme che «educare è anche sempre lasciarsi educare». L'animatore deve quindi presentare le sue scelte, superando l'obiezione superficiale di chi sostiene che facendo delle proposte si condiziona il gruppo, perché se non presenta al gruppo le sue scelte, «gioca» a fare il «ragazzino» e viene rifiutato.
    Ma nello stesso tempo non può imporre nulla al gruppo, in cui occorre invece che ciascuno abbia piena coscienza e si assuma la responsabilità di ogni scelta. Ecco perché mi dà un po' fastidio l'espressione della domanda «inserire il presente nella tradizione», quasi che i giovani fossero da inscatolare in uno schema precostituito e perciò automaticamente vecchio.

    GRASSO – Mi è difficile rispondere a questa domanda: tutti dichiarano oggi di essere dei rinnovatori, anche quelli che non fanno che perpetuare. Quanto a noi mi sembra che entrambe le prospettive siano presenti e il più o il meno valgano a seconda dei casi e delle circostanze.
    Mi permetto a proposito di fare tre esempi. Dalla loro descrizione emergerà come tentiamo di coniugare tradizione e novità.
    I fanciulli dagli 8 ai 12 anni (Lupetti e Coccinelle) vedono fortemente collegata la loro attività al così detto «ambiente fantastico» che fa riferimento ad un racconto (per i Lupetti a Il libro della Giungla di R. Kipling). Questo «racconto», raccontato dai Capi, è non solo un modo per interessare i ragazzini, ma soprattutto il tramite per leggere l'oggi e il domani del Branco e del singolo Lupetto, nella memoria dell'ieri che ha visto coinvolto il Branco di cui parla il libro. I ragazzi dai 12 ai 15-16 anni (e le ragazze), sono aiutate dall'e avventura» e dall'e impresa» a formare la propria personalità. Ma l'impresa è un avvenimento di tipo «storico»: occorre tener presente la «storia» del Riparto, le sue capacità, quello che «ha dato» negli anni precedenti; e occorre poi memorizzare le fasi dell'impresa stessa che si svolge in momenti diversi. I giovani dai 16 anni in su vivono quel momento che prende il nome di «Comunità di Clan e Fuoco». Questa comunità ha una sua «Carta»: ad essa ci si rifa, negli anni del «noviziato» (in genere biennale per 16-17enni; talora annuale per sedicenni), per prepararsi a vivere poi tre anni nella «Comunità». La «Carta» è l'esplicitazione – attraverso una tradizione vissuta – dei tre cardini di questo momento educativo che sono «la strada, la comunità, il servizio». È in questo momento che prendono ulteriormente corpo i sensi di una «tradizione di gruppo», molto sentita nello scoutismo anche se mai a discapito dell'unità del movimento. Infatti i gruppi hanno una loro tradizione, ma questa si inserisce in quella dell'Associazione e quella dell'Associazione in quella della fraternità mondiale scout e guide, più volte resa sperimentabile da una fitta rete di collegamenti (dal Jamboree ogni quattro anni, ad incontri, ecc.).

    LA INIZIAZIONE ALLA CULTURA DEL GRUPPO

    Come avviene concretamente il processo di inculturazione, cioè di acquisizione della cultura/tradizione della vostra associazione? Ci sono dei tempi di iniziazione e catecumenato, riti di passaggio non automatico, informazioni da acquisire per diventare a pieno titolo membri del gruppo? Che ruolo svolgono, in questo processo di inculturazione, gli «anziani»?

    MARRONE – Partendo ancora una volta dalla nostra esperienza di gruppo c'è da osservare anzitutto che abbiamo una divisione a «fasce»: medie, biennio, triennio, giovani-adulti. Ora c'è un periodo, voluto e pensato dai più anziani, di «noviziato» per quelli del biennio. Il principio ispiratore è che questa è un'età in cui gli adolescenti ripensano e rifondano la loro esistenza. I più anziani, in questo tempo di noviziato, si preoccupano anche di presentare ai più giovani la strada che essi hanno percorso. Presentano loro la «storia del gruppo» e spiegano il significato delle istituzioni, delle attività, dei momenti diversi della vita di gruppo.
    In questi due anni si impegnano gli adolescenti ad un cammino di intensa vita di gruppo, attento appello alla loro capacità di riflessione, sollecitazione della loro capacità inventiva.
    Il modo con cui il cammino è impostato fa sì che si determini una selezione. Nel nostro oratorio il ragazzo fino alle medie gioca, si diverte, fa esperienza di gruppo, senza essere messo di fronte ad una seria scelta di vita cristiana. Questa scelta gli viene proposta nel biennio. Diversi se ne vanno, gli altri restano e si assumono progressivi impegni di servizio nel centro giovanile. Il passaggio quindi non è automatico. L'adolescente è tenuto a prendere parte a dei campi scuola, ad esperienze di ritiro, a incontri riservati solo per loro...

    GRASSO – Questo della iniziazione è uno degli aspetti più rilevanti e conosciuti del mondo scout ed è riassumibile, come già ho detto, nel principio del «trapasso delle nozioni». A tutti i livelli il nuovo arrivato viene inserito nel gruppo (nel Branco, nella Squadriglia e nel Riparto; nel Noviziato e nella Comunità di Clan/Fuoco) e li trova qualcuno (i ragazzi più anziani di lui, ma in particolare nel Riparto il/la Caposquadriglia) che lo aiuta nell'itinerario (pista per il Lupetto, sentiero per lo scout, strada per il rover). Esistono poi i Capi (e i loro Aiuti) che intervengono continuamente in questo processo. Vi sono tempi di iniziazione (prima della promessa lupetto, prima della promessa scout, alla fine del Noviziato, ecc.), e di continuazione (le stelle per il lupetto; i «livelli» per lo scout; la «partenza» per il rover).

    PEISINO – Lo stile della vita del gruppo di AC è (come ho già detto prima) quello della proposta e non dell'imposizione.
    Il livello di appartenenza del singolo all'associazione è dunque legato sempre e soltanto alle scelte personali che ha compiuto, maturate a contatto e nel confronto con i coetanei del gruppo e con l'animatore.
    È proprio l'animatore il testimone nel gruppo dei valori fatti propri dall'associazione, e li propone a parole e mediante la vita, a tutto il gruppo, secondo il livello di maturazione delle persone.
    Proprio per rispettare il grado di crescita di ciascuno, la divisione dei gruppi per età, pur non essendo rigidissima, è molto significativa.
    Ma anche l'animatore è in cammino e quindi cresce nella coscienza associativa, ed ecco perché il confronto e la formazione comune degli animatori è l'aspetto che privilegiamo sempre nelle nostre attività educative.
    Non esistono quindi riti associativi di passaggio, ma l'attenzione ai grandi «passaggi» della vita di ciascuno: la famiglia, la scuola, l'inserimento nella società, nella chiesa, il divenire adulti.

    CRAVERO – Nella GiOC tendiamo a non sottolineare troppo la «cultura» della associazione, ma di fare nostra la cultura della gente, del mondo operaio. Il processo educativo che tentiamo di attivare in questa direzione può essere riassunto così: passare dai primi contatti con i giovani ad una sempre maggior consapevolezza del proprio compito come operai e credenti. Noi chiamiamo il primo contatto «aggregazione», e la consapevolezza «militanza». Il cammino si svolge in quattro tappe che comprendono un arco di tempo che normalmente si estende per alcuni anni.
    La prima tappa può essere definita cosi: dalla aggregazione alle prime contraddizioni. Si parte con un «gruppo di base», formato da giovani che si ritrovano nello stesso ambiente: bar, fabbrica, angolo della strada, pullmann... In questa fase si vuole aiutare a porre dei primi interrogativi a questi giovani per nulla abituati a riflettere sui molti problemi che hanno, ma che non sanno appunto analizzare. La seconda tappa: dalle prime contraddizioni alle prime azioni: educare: una volta presa coscienza, a fare qualcosa. Educare attraverso l'azione.
    La terza tappa: dalle prime azioni, che si compiono magari senza troppa consapevolezza (lasciare il bar per trovare altre forme di aggregazione o divertimento, per esempio), all'inizio del cammino di militanza. Quella della militanza è la quarta ed ultima tappa del cammino.
    Sovente questa trafila è molto lunga, a volte senza risultati a prima vista apprezzabili. Spesso i giovani che si sono avvicinati ritornano nel loro ambiente di bar, strada... Il passaggio tra le varie fasi è informale.
    I «gruppi di base» non sanno di appartenere, ed effettivamente non appartengono alla GiOC. La proposta di entrare nella GiOC viene fatta solo all'ultima tappa del cammino. Solo allora se ne parla. Il passaggio, misurato come si vede da piccole azioni e gesti, da momenti di progressiva riflessione, da incontri di revisione di vita, dipende in fondo dal grado di coscientizzazione che i singoli riescono a fare loro. Ma dipende molto anche dalla capacità di «dono» del militante. Dono che vuol dire tempo, pazienza, coerenza...

    REINERO – Mi pare che questa terza domanda sia sul metodo.
    Anzitutto è difficile parlare di tempi di iniziazione e di riti di passaggio che non siano già quelli appartenenti alla saggezza della Chiesa; e comunque i tempi di passaggio – di «inculturazione» – sono ultimamente personali, appartengono al cammino misterioso d'ognuno: vogliamo rendere possibili delle vite e non perpetuare schemi.
    Poiché l'adesione al movimento è adesione ad una realtà che vuol essere unicamente pedagogia alla Chiesa in quanto tale, quando incontriamo un giovane lo inseriamo di fatto in una vita a cui appartiene fin dall'inizio a pieno titolo. Nella vita un figlio che nasce è immaturamente e totalmente appartenente alla realtà e alla storia della famiglia. La vita in famiglia lo renderà nel tempo responsabile e protagonista maturo: la vita, infatti, non è se non una grande e drammatica esperienza pedagogica. Il fatto cristiano in un giovane cresce anch'esso attraverso il confronto attento, critico ma leale, con persone più mature nella fede che sollecitano ad un autentico approfondimento. «Seguire» un'esperienza cristiana è il grande principio di metodo che dà corpo al nostro movimento.
    Così potremmo dettagliare il metodo della sequela: l'essenzialità della proposta; la necessità di porsi al seguito di altri ai fini d'una comprensione vera, quindi critica, della proposta stessa; il rischio necessario della traduzione personale di ciò che si è appreso ed accolto seguendo altri, perché una verifica fatta in proprio assicuri la ragionevolezza dell'adesione; la pazienza, tanto più necessaria quanto più consistente e importante per l'esistenza è il valore comunicato, Cristo; la libertà profonda delle decisioni personali; il rispetto senza confini dei modi con cui tale libertà si gioca nell'azione della persona. Un'ultima nota di metodo: seguire un'esperienza non coincide col rafforzare la tendenza associazionistica, ma col «ripetere», riattualizzare l'esperienza incontrata nel proprio ambiente: sia perché è nell'ambiente normale di vita che l'uomo misura se stesso e cresce, sia perché è il luogo in cui è necessario che il credente manifesti la vittoriosa presenza di Cristo liberatore di tutto e di tutti.

    CHE DIRE DELLA «GENERAZIONE DEL '77»?

    Partendo dal presupposto che la «generazione del '77» è innovativa rispetto a quelle che l'hanno immediatamente preceduta, in che cosa la vostra associazione si è aperta al nuovo? Quali stimoli ha accolto e quali no? Ha comportato cambiamenti di ordine strutturale e culturale nella vita della associazione? L'ingresso dei nuovi nel gruppo è, in alcuni casi, l'inizio della morte del gruppo o della emarginazione degli anziani. In altri casi i nuovi rendono del tutto sottomessi agli anziani. In altri ancora i nuovi entrano nel gruppo ma non ne assorbono i valori e i modelli di comportamento; usano invece del gruppo per i propri fini. Cosa è successo a riguardo nella vostra associazione?

    REINERO – Mi pare che della generazione del '77 sinteticamente si possa dire che questi giovani sono orfani d'un passato, vivono precariamente nel presente, non hanno valori per il futuro. Hanno un merito, però: hanno rotto con l'ideologia, hanno messo a tema, magari confusamente, l'uomo, l'uomo prima di tutte le teorie, prima di tutte le organizzazioni, l'uomo come creatività, spontaneità, tenerezza... in una parola, l'uomo nei suoi bisogni. Questi temi hanno un loro svolgimento disordinato e frammentario; il nuovo è rimasto in molti solo come sentimento confuso che non ha ancora trovato un destino adeguato. Le grosse organizzazioni ideologiche possono, a questo punto, avere ancora su di loro buon gioco.
    Per noi cristiani, per i movimenti giovanili tutto ciò è una grossa domanda. Occorre farci portatori ancora più veri della verità che abbiamo incontrato. Questi giovani sono un segno dei tempi che ci invita irriducibilmente a convertirci, a divenir più luminosi nella testimonianza di vita. E poi è richiesto sempre più un atteggiamento di assoluta gratuità nei confronti dei bisogni che essi manifestano. Ancora una volta il Papa che Dio ha dato alla Chiesa si mostra a tutti noi maestro di certezza esistenziale e di carità forte nei confronti dei giovani.

    CRAVERO – Francamente, da questo punto di osservazione che la GiOC assume – i giovani della classe operaia –, ho l'impressione che non ci sia stato un salto generazionale e di mentalità con il '68.
    Questo è particolarmente chiaro per il nucleo più tipico e consistente dei giovani lavoratori: gli apprendisti, che in una città come Torino sono circa 60.000. Direi di più: per loro non c'è stato neppure il '68. E con questo voglio dire che la stragrande maggioranza subisce il bombardamento massiccio della pubblicità, l'umiliazione del ruolo sociale, il fatalismo sostanziale di questo nostro mondo. Con i giovani di questo genere noi lavoriamo da anni. E non noteremmo differenza tra il '67, il '77 o il '78 se non nel fatto che questa civiltà disumana continua a far crescere isolamento e disadattamento. I giovani operai, in particolare, in genere figli di famiglie immigrate, vivono in una situazione di sradicamento culturale e sociale impressionante.
    Il lavoro «educativo» con i giovani della classe operaia esige dunque lucidità e tenacia. Si tratta di radicare questi giovani nella loro nuova terra, il mondo operaio, é qui far risuonare la parola del vangelo.
    L'esperienza di questi anni ci dice che non si riscontrano successi trionfali, ma che i giovani lavoratori sono disponibili e rispondono, anche oggi, ad una proposta del genere.
    Una riflessione a parte meriterebbe l'analisi del momento storico vissuto oggi dal movimento operaio e delle sue ripercussioni sui giovani lavoratori. In particolare il movimento sindacale vive oggi un momento delicato, stretto tra le istanze corporative di parecchi gruppi e l'attacco massiccio dell'offensiva liberista. Oggi che tanti miti sono appannati, non pochi nel mondo cattolico pensano che sia giusto contribuire al ridimensionamento del movimento operaio. La GiOC ritiene invece che proprio questo sia un po' il momento della verità, in cui si verificano le fedeltà di fondo e gli opportunismi di maniera. Se è vero che il movimento operaio paga oggi a caro prezzo gli errori presenti nel '68, è anche vero che l'emergere delle classi più povere alla ribalta della storia è un fatto rilevante e, per questo, «un segno dei tempi». Qui si colloca il ruolo educativo della GiOC oggi.

    PEISINO – Credo che oggi non si possa pretendere di ridurre i problemi dei giovani (ma anche quelli sociali) a schemi prestabiliti, per rispondervi con soluzioni a loro volta prefabbricate ed universali.
    Il disorientamento che si vive non può essere immediatamente inserito in un vecchio canovaccio di interpretazione della realtà. Bisogna saper accettare la crisi come momento che stiamo vivendo. Anche chi ha dato risposte globali al senso della vita, come chi ha fatto una scelta di fede, deve riconoscere che in questa società è difficile vivere. Molte difficoltà sono profondamente strutturali (crisi della scuola, della famiglia, del lavoro...) e bisogna riconoscere che si può essere soggetti ad una sorta di disperazione. Il cristiano ha certo la risposta globale al senso della vita, ma è una risposta che supera e racchiude anche l'esperienza contingente, ma non gli permette di risolvere le cose in modo precostituito. Oggi i giovani rivendicano la facoltà di poter non dare delle risposte. E noi dobbiamo in qualche modo accettare di non saperle dare, ed offrirgli di ricercare con loro una «soluzione» nuova, evitando di proporre sempre soltanto i nostri schemi.

    MARRONE – Il '77 ha posto con prepotenza domande nuove, domande di personale e di aggregazione per esempio, a cui non siamo ancora, parlo della mia esperienza, riusciti a dare risposta. Noi per principio apriamo le porte del centro giovanile a tutti. Ciò ci ha posto seri problemi. Tocca a noi dare risposta ai problemi della aggregazione giovanile? In che rapporto sta questa offerta di aggregazione con la comunità cristiana di cui siamo parte? Il centro è'anzitutto un luogo educativo o anzitutto un luogo ecclesiale? Come coniugare l'educativo e l'ecclesiale?
    Quando alla cosiddetta nuova domanda religiosa dei giovani, mi sembra che sia da assumere parallelamente ad un'altra costatazione, quella della crisi della vita cristiana nei giovani, anche quelli più vicini a noi. Non ha senso dire che i giovani «ritornano». Il ritorno purtroppo è a certe gratificazioni che il mondo ecclesiale concede ai giovani. D'altra parte non oserei parlare di reale accoglienza della domanda religiosa dei giovani nelle nostre comunità. Non mi sembra infatti che in questi anni si siano fatti dei grossi passi in avanti nel costruire delle comunità ecclesiali che siano «lievito» nel loro ambiente.
    L'aggregazione come servizio sociale del centro giovanile ci pone un ulteriore problema; quello che nasce dal fatto che vengono a trovarsi insieme giovani con diversa impostazione culturale ed ideologica. Che tipo di collaborazione con gli «altri» che accogliamo nel nostro ambiente? Che spazio lasciare loro? A chi tocca la responsabilità educativa? E qual è la nostra identità, anche a confronto degli altri movimenti giovanili ecclesiali che fanno scelte pastorali diverse dalla nostra?

    GRASSO – Mi permetto un'osservazione a proposito della crisi dei giovani oggi. Si è detto che i giovani rivendicano la non-risposta e che i nostri movimenti e la stessa Chiesa non possono avere «la sicurezza» delle risposte. D'accordo. Però non si può accettare troppo tranquillamente questa rivendicazione della non-risposta. Bisogna che ad un giovane che rivendica la non-risposta si dia qualcosa che renda possibile e vivibile una risposta. Pena la morte dei giovani, perché sono loro, in fondo, a pagare il prezzo più salato della non-risposta.
    Tra un volere «acritico» di «non-risposta» e una risposta piena di sicurezze abusive sta – a livello semplicemente umano – lo «stile» dell'educatore che aiuta, senza imporre, il giovane a formulare una risposta, e a livello di Fede e di Chiesa, l'atteggiamento del credente che ha in Gesù il suo modello. E oggi, forse, vale il Gesù del Vangelo secondo Marco, o quello che ricalca lo stile del «servo sofferente» del secondo Isaia. Ad entrambi i livelli si esige da una parte la forza profetica, dall'altro l'umiltà del servo.


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