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    “Qui c’ero prima io”. Il conflitto


    Io e l'altro. Percorsi di pedagogia interculturale /6

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2015-02-59)


    Nella classe di Paolo, una prima media caratterizzata tra l’altro dalla presenza di tre ragazzi immigrati, gli insegnanti hanno svolto una serie di lezioni sulla nonviolenza; su come si possano risolvere i conflitti senza venire alle mani, su come sia possibile dialogare piuttosto che aggredire o essere aggrediti ecc. Hanno invitato esperti dalla Palestina, dal nord Irlanda, dal Cile. Un giorno Paolo entra in classe senza voglia di fare lezione; segue distrattamente la lezione di italiano e poi va a cambiarsi per educazione fisica. Il suo rapporto con il docente è pessimo, anche perché il ragazzo è molto indisciplinato. Il docente fa l’appello e il ragazzo risponde in modo provocatorio. Docente e ragazzo iniziano a litigare, il docente perde le staffe e lo trascina nello sgabuzzino dei palloni, dove lo chiude a chiave fino alla fine delle due ore di lezione.

    Purtroppo siamo abituati da tempo a considerare il conflitto come qualcosa di negativo, associandolo alla violenza e alla guerra. Parliamo di una situazione conflittuale sottintendendone la negatività, e spesso la parola confitto viene utilizzata anche dalla stampa o dai libri di testo per le scuole come sinonimo di guerra. Queste abitudini linguistiche hanno il difetto di non farci vedere la positività del concetto di conflitto. Questo fa parte della nostra vita, non è eliminabile (almeno per ora) dalla esistenza umana: l’incontro con gli altri e le altre è anche uno scontro, è anche un confronto tra punti di vista che non sempre coincidono e spesso faticano a trovare un punto di convergenza. Imparare a gestire il conflitto, ad attraversarlo ma soprattutto a “starci dentro” è una delle competenze essenziali delle persone che vogliono vivere in un mondo complesso.
    Proprio questa sottolineatura differenzia il nostro approccio al tema dell’integrazione e del dialogo tra culture dal “buonismo”, secondo il quale le differenze tra culture non sarebbero poi così importanti e basterebbe un po’ di buona volontà per eliminarle e vivere in pace. Secondo noi la pace non è l’eliminazione delle differenze, ma piuttosto uno stato nel quale le differenze sono libere di incontrarsi e di scontrarsi, purché il loro rapporto non porti a soluzioni sanguinose né all’eliminazione violenta di una di esse.
    Inoltre a nostro parere il conflitto è, almeno oggi, il principale motore della crescita, ed è proprio per questo che l’occasione del confronto tra culture ha una dimensione educativa straordinariamente forte per i ragazzi e le ragazze; chi dice infatti che gli immigrati e le immigrate dovrebbero cambiare perché “li vorremmo un po’ più come noi”, chi enuncia il sottile ricatto per cui “se si comporteranno come noi sarà possibile dialogare”, in realtà sta perdendo una grande occasione: quella dell’incontro/scontro tra modi di vivere e di pensare differenti. Si parla tanto a sproposito in questi anni di “scontro tra culture” sottintendendo quasi sempre il carattere violento di questo scontro; non si capisce che lo scontro violento è evitabile soltanto permettendo e creando le occasioni per scontri simbolici e nonviolenti, predisponendo spazi e tempi all’interno dei quali le culture possano confliggere senza distruggerci. Ci sono infatti tanti ambiti di conflitto tra culture diverse, poche sono però le possibilità reali di giocare questi conflitti in modo produttivo.
    A questo proposito è utile ricordare un mito che ricorre in parecchie culture, il mito della verità smembrata: secondo questa narrazione la verità un tempo era una sola, bella e splendente e soprattutto evidente a tutti e per tutti uguale. Ma i cani la sbranarono (o, in un'altra versione, essa esplose in mille pezzi) e i suoi frammenti si dispersero nel mondo. Compito dell’uomo e della donna è allora ricercare ciascuno il suo frammento di verità e poi metterlo insieme a tutti gli altri per ricomporre il mosaico. Non c’è un pezzo di verità, per quanto piccolo, che non sia indispensabile alla ricostituzione della figura intera; dunque non c’è uomo o donna che non abbia almeno in parte un po’ di ragione. Ma non c’è nemmeno alcuna persona che possa dire di tenere in mano tutta la verità: ognuno/a di noi ne porta solamente un frammento. Nel confronto, nel conflitto e nel dialogo tra tutti i frammenti dispersi è forse possibile avvicinarci alla costruzione di un mondo giusto.
    Risolvere un conflitto non è sempre facile. Anche perché a volte si scambia la distruzione o la messa a tacere di una delle due parti per la soluzione del conflitto stesso. Come dire: se il conflitto non c’è più – o se non lo si vede – significa che è risolto. In parte, questo è vero: il conflitto in questione ha avuto quella che si definisce una risoluzione violenta; risolvere un conflitto in modo violento è spesso la strada più semplice; significa affidarsi alla legge del più forte, fare in modo che una versione aggiornata della legge della jungla si incarichi di risolvere le situazioni conflittuali.
    Attenzione: non si pensi che si stia parlando qui soltanto delle guerre, degli stermini, dei conflitti armati. Anche nella vita quotidiana è possibile trovare esempi di conflitti risolti in modo violento: una situazione classica è quella nella quale due bambini si stanno picchiando; arriva il genitore e picchia tutti e due. Il messaggio avrebbe dovuto e voluto essere “Non è giusto picchiarsi”, è diventato invece “Se due si stanno picchiando e arriva un più forte, il terzo può picchiare i primi due”. Un caso nel quale i mezzi utilizzati per risolvere il conflitto sconfessano il fine. Non si può educare alla nonviolenza con mezzi violenti, non si può pensare di risolvere un conflitto con metodi che non fanno altro che creare un altro conflitto più violento del primo. Gli elementi di debolezza della risoluzione violenta dei conflitti sono dunque evidenti: anzitutto tale soluzione fa passare l’idea che la violenza risolva le questioni e quindi trasforma tutti i conflitti in conflitti violenti. E poi non tiene conto del fatto che un conflitto apparentemente risolto in modo violento è in realtà soltanto sotterrato e nascosto; continuerà a vivere nell’ombra aspettando il momento di riemergere e lo farà con violenza raddoppiata.
    Ma non si pensi soltanto alla violenza fisica o verbale; c’è anche una violenza del buonismo, la violenza consistente nel non voler vedere i conflitti, nel non volerli affrontare. “Dovete andare d’accordo” è una delle frasi più violente che si possano rivolgere a ragazzi e bambini. Siamo in questo caso di fronte a una non-risoluzione del conflitto, a un atteggiamento di disinteresse e di cecità da parte dell’adulto o a un intervento sbagliato che crede mettendo a tacere la fase acuta del conflitto di averlo risolto per sempre. Tipico esempio: due bambini che litigano per il possesso di un oggetto, per esempio un pallone: l’adulto interviene e dà un pallone a testa. Commette così un duplice errore: non va a fondo delle ragioni del conflitto per il quale il pallone è un pretesto, e soprattutto fa credere che tutto si risolva sempre aumentando le risorse, moltiplicando gli oggetti. Ma viviamo in un mondo limitato, e limitate sono le risorse: i palloni finiranno e non ci sarà più la possibilità di mettere in atto questa strategia.
    La risoluzione nonviolenta dei conflitti è la più educativa perché ha il vantaggio di utilizzare mezzi che siano coerenti con i fini che vuole raggiungere; non usa mezzi violenti per scopi nonviolenti, non sposta il conflitto su un piano diverso e peggiore rispetto a quello su cui si situa. Educare i bambini e le bambine a un approccio nonviolento ai conflitti significa fare alcuni passi importanti.
    Anzitutto riconoscere il conflitto: se c’è una sola sedia e due persone stanche che vogliono sedersi c’è di fatto una situazione potenzialmente conflittuale; non è detto che il conflitto ci debba per forza essere, né che la sua soluzione debba essere violenta. Ma si tratta di una situazione nella quale occorre stare attenti e preparare il terreno per aiutare i protagonisti a risolvere la possibile conflittualità. Quando in un quartiere ad elevata immigrazione tutti sostengono che “tutto va bene”, che non ci sono problemi, ma si percepisce un razzismo strisciante pronto ad esplodere, è infinitamente meglio provocare il conflitto piuttosto che tacerlo, magari con una rappresentazione teatrale o un altro intervento che susciti reazioni da parte delle persone.
    Occorre poi nominare il conflitto: a proposito di cosa si sta confliggendo? Di che tipo è il conflitto? Si tratta di un conflitto politico, religioso, economico? Di un misto tra questi (come spesso accade)? Di altro ancora? E’ un conflitto che si risolve a livello individuale, di gruppo, sociale? Non sempre queste domande hanno una risposta chiara, ma occorre cercare di trovarla; i conflitti nominati non sono di per sé risolti, ma da un certo punto di vista salgono di livello, perché finalmente si sa e si dice per che cosa si sta confliggendo. Nominare il conflitto ma anche le parti in causa: ogni confliggente ha diritto ad esser riconosciuto come tale; una delle forme più sottili di violenza consiste proprio nel sottrarre a una parte in causa il diritto ad esistere e ad essere nominata dome tale.
    La cosa forse più difficile è lasciar giocare il conflitto: a volte si ha troppa fretta di chiudere i conti con il conflitto, di non vederlo più; occorre molta pazienza, occorre lasciare che il gioco del conflitto vada fino in fondo, non bisogna forzare troppo i tempi perché come tutte le cose umane anche il conflitto ha suoi ritmi specifici da rispettare. Ma occorre contemporaneamente gestire e finalizzare il conflitto mostrando alle parti in causa che esistono modalità differenti, punti di vista inediti sulla loro situazione. Il tutto non servirà soltanto a risolvere quello specifico conflitto, ma aiuterà anche a trovare una soluzione applicabile altrove. In questo senso diciamo che i conflitti sono finalizzabili: possono avere lo scopo di modificare le visioni di altri conflitti. A proposito della presenza degli immigrati ad esempio si sente spesso dire la frase: “vengono qui e vogliono tutti i diritti”. E’ proprio a partire da questa frase che è possibile spiegare come il concetto di diritto sia uno dei modi più raffinati che siano stati concepiti dagli uomini e dalle donne per risolvere i conflitti in modo nonviolento. Dunque proprio l’estensione e l’applicazione del concetto di diritto, a partire dai diritti elementari, può essere un modo per risolvere non soltanto un conflitto specifico ma situazioni conflittuali più ampie. In questo l’esempio dato dagli adulti nell’affrontare le situazioni conflittuali quotidiane è assolutamente fondamentale.


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