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    Questioni di pelle (e altro). Le differenze


    Io e l'altro. Percorsi di pedagogia interculturale /2

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2014-02-54)

    In un asilo nido della cintura milanese si sta provvedendo all’inserimento di un bambino di un anno, figlio di una coppia di genitori musulmani. Non è stato facile convincere la coppia a mandare il bimbo al nido, ma l’assistente sociale del Comune ci è riuscita dopo lunghe discussioni. Le educatrici di solito fanno l’inserimento dei nuovi bambini facendo fermare le mamme in sezione per un’ora la prima settimana, poi per mezz’ora, finché il bambino o la bambina non si siano abituati al distacco. La mamma del bambino musulmano si presenta il primo giorno: indossa il burka, il copricapo che le lascia scoperti solamente gli occhi; la signora lo indossa sempre anche quando va a fare la spesa, ma in questo caso i bambini e le bambine presenti in sezione urlano, si spaventano, alcuni si mettono a piangere. Le educatrici non sanno cosa fare: si rendono conto che non possono chiedere alla donna di non indossare il burka, ma capiscono anche che la situazione con la signora presente in sezione è difficilmente gestibile.

    Ci sono differenze che si vedono e altre che non si notano; differenze che saltano agli occhi e altre che sono più nascoste. Ma la differenza fa parte delle nostre vite, la incontriamo sulla nostra strada ogni giorno, non possiamo evitarla. Nonostante spesso la storia dell’Occidente sia stata costellata da tentativi di difendersi dalle differenze, siamo finalmente arrivati a capire che senza differenza non c’è vita. La paura delle differenze è comunque una cosa assolutamente normale: a partire dalla prima infanzia colui o colei che è differente da noi o dalle persone alle quali siamo abituati ci spaventa e ci inquieta: non si deve drammatizzare questo dato, semmai occorre aiutare i bambini e le bambine a gestire la loro paura e a sdrammatizzare. Tutte le fiabe, del resto, sono piene di riferimenti al differente che viene da lontano e che spesso è pauroso e cattivo: dall’uomo nero alla strega, si è sempre cercato di mostrare ai bambini il lato negativo delle differenze, spaventandoli - così si pensava - per poterli mettere al sicuro.
    Questo atteggiamento ha fatto il suo tempo: le nuove fiabe, le nuove narrazioni per i ragazzi e per i bambini ci fanno capire che occorre giocare con le differenze, prenderle sul serio ma solo fino a un certo punto, abituarci ad esse sdrammatizzandole. Un po’ più di umorismo e un po’ meno di paura: questa dovrebbe essere la ricetta per trattare le differenze con i bambini e le bambine.
    Tanto più che si cresce soltanto a contatto con persone differenti da noi: i bambini e le bambine hanno bisogno del confronto con le differenze anche per capire chi siano loro. Un bambino che non affrontasse mai la differenza, ammesso che questo fosse possibile, non potrebbe vivere. Solo la differenza fa diventare adulti, solo tra differenti è possibile pensare di abitare il mondo in modo sereno e proficuo. Da qualche tempo anche in ambienti educativi sentiamo spesso il richiamo alla purezza: di razza, di religione, di lingua. Ma occorre sempre ricordare che “i frutti puri impazziscono”. Solo confrontandosi con chi è differente da noi, per usi, costumi, provenienza, religione, colore della pelle, possiamo davvero capire la nostra identità.

    Concetti relazionali

    Del resto, tutti i concetti che ci definiscono, che dicono chi siamo, possono essere spiegati e capiti solamente in rapporto ad altri concetti: sono concetti di tipo relazionale. Non è pensabile definire “uomo” senza riferirsi a “donna”, “Occidente” senza “Oriente”, “cristiano” senza “musulmano”, “israelita”, “buddista”, “adulto” indipendentemente da “bambino” o “anziano”. Alla domanda “chi sei tu?” è possibile rispondere soltanto a partire dal confronto con ciò che non siamo. Una bambina conosce la sua condizione femminile anche confrontandosi con i maschietti: e così capisce anche che essere femmina non è qualcosa di migliore o di peggiore, è solamente diverso.
    Ma c’è di più: le differenze non sono mai così nette, così opposte come sembrano; c’è un elemento femminile in ogni maschio, c’è dell’Oriente nel cuore dell’Occidente, ci sono verità profonde che attraversano tutte le grandi religioni. Le frontiere che abbiamo tracciato sull’atlante possono suddividere le merci e purtroppo i popoli, ma le differenze sono come i profumi che attraversano le dogane, confondono le identità, ci fanno capire come sia importante pensarci come una specie di mosaico.
    Certo, per i bambini e i ragazzi, in un’età di definizione della loro identità, è anche importante avere dei punti di riferimento il più possibile saldi: la contaminazione, l’imbastardimento, potrà avvenire dopo, con l’adolescenza e l’età adulta. In questo sta a nostro parere la debolezza della cosiddetta “pedagogia nomade”. Ma quando il bambino e la bambina hanno bisogno di una identità sicura, occorre stare molto attenti a non confondere troppo le acque. Dire a un bambino di sette anni che è un po’ maschio e un po’ femmina, un po’ occidentale e un po’ orientale, significa rischiare di compromettere la saldezza della sua crescita. Queste sono idee che l’educatore/trice deve avere in mente, non slogan che devono essere passati ai bambini e alle bambine; l’importante, comunque, è non spacciare la differenza per inferiorità, non far pensare che ci siano differenti che sono migliori di altri differenti.
    L’educazione al confronto con le differenze inizia dalla nascita; tanto più che i bambini notano immediatamente le differenze. Un bambino che torna dalla scuola materna e dice che il suo nuovo amichetto “ha la faccia di cioccolato” (o peggio!) ci sta comunicando qualcosa di molto importante. Ci sta dicendo: “Ho visto che c’è qualcosa di diverso, voglio capire se devo averne paura o no”. In questi casi l’atteggiamento peggiore è far finta di niente, dire che il bambino “è uguale a te”. Certo che è uguale a me, a parte il colore della pelle. Questa è la differenza che io bambino ho subito notato e tu adulto non te la puoi cavare così a buon mercato. Sottolineare l’eguaglianza di tutti gli uomini e le donne di fronte alla legge, alle istanze morali, alla questione dei loro diritti non può voler dire non vedere le loro differenze individuali. I diritti uguali valgono solo tra differenti. Un conto è dire che questa differenza è una ricchezza e non una debolezza, un conto è far finta di non vederla. Ignorare le differenze rischia di essere un atteggiamento razzista, anche al di là delle buone intenzioni di chi lo sta assumendo.

    Non "razze" ma culture

    Esistono le razze umane? Come si decide l’appartenenza a una razza piuttosto che a un’altra? C’entra la genetica? Si può cambiare razza? Oppure siamo tutti uguali, e la razza è soltanto una invenzione dei razzisti? Domande che spesso sentiamo sulla bocca soprattutto dei giovani, domande che non hanno certo una risposta facile. Che ci sia differenza tra un esquimese e un djola del Senegal è evidente: che questa differenza abbia radici biologiche, genetiche, affondate nel concetto di razza, è una cosa assai diversa, e soprattutto non vera.
    Piuttosto che di razze, concetto troppo compromesso dal suo uso in senso razzista, si preferisce oggi parlare di culture; le culture sono gruppi umani caratterizzati non tanto e non solo da somiglianze fisiche o tra i loro componenti, ma soprattutto da somiglianze di tipo linguistico e culturale. Dunque un uomo o una donna non appartengono a una razza che sia riconoscibile dalla forma del cranio o dalle dimensioni del naso (come purtroppo ancora qualcuno ha il coraggio di affermare); ognuno di noi appartiene a un gruppo umano con lingue, usi e costumi differenti. Se ci è permessa una battuta, il bianco Alex Zanotelli è keniano quanto il nero Mario Balotelli è italiano.
    Dunque le usanze e i modi di comportarsi delle persone hanno radici nella loro appartenenza ai gruppi di riferimento: questo ovviamente non significa per esempio che esistano uomini e donne che siano “aggressivi” per nascita: è ridicolo (anzi non fa più neanche ridere) affermare che gli scozzesi sono tirchi, gli albanesi aggressivi e che gli africani hanno la musica nel sangue. Parlando di gruppi umani le cose sono molto più complicate, come ha scoperto la signora che ha chiesto a un nigeriano di farle sentire qualche parola in “africano” e si è sentita rispondere “Va bene, e lei mi fa sentire qualche parola in europeo?”. Però è vero che i gruppi umani si distinguono per particolari usanze e atteggiamenti soprattutto di fronte alla nascita, alla morte, all’amore, alle tappe fondamentali dell’esistenza. E’ importante ricordare soprattutto ai giovanissimi che queste differenze sono culturali: il fatto di essere nati sotto una certa latitudine non ha nessun influsso sul carattere o sul comportamento delle persone: è il modo in cui il loro gruppo umano le educa, le cresce, le accompagna nei momenti fondamentali della vita a determinare i loro comportamenti, che potrebbero essere anche – ovviamente - modificati nel momento in cui una persona si allontana dal proprio gruppo di riferimento e sceglie di scontrarsi con i valori rispetto ai quali è stata educata. Nessuno dunque nasce simpatico o antipatico, religioso o miscredente, tirchio o prodigo: le differenze tra culture si rafforzano o si allentano nel corso delle vite delle persone, e costituiscono comunque una ricchezza per il mondo intero.

    Siamo tutti "differenti"

    Per gli altri i differenti siamo noi. Sembra uno slogan, può essere invece l’inizio di un nuovo sguardo sulle differenze. Non c’è un modo “giusto” di essere uomini e donne, non c’è un colore “giusto” della pelle. La differenza arricchisce il mondo, non lo indebolisce. Questi principi educativi dovrebbero essere trasmessi ai bambini e alle bambine fin dai primi anni di vita, mettendoli di fronte al dato di fatto delle differenze.
    Certo, l’esempio riportato all’inizio di questo capitolo dimostra che, soprattutto di fronte alle differenze di usi e costumi, non è sempre facile riuscire a muoversi, e le soluzioni ai problemi concreti e quotidiani che le differenze pongono non possono essere risolte soltanto facendo appello al buon senso. Differenti usi, differenti modi di vivere la vita quotidiana ci sconvolgono spesso perché entrano in conflitto con le abitudini che fin dalla nascita ci fanno pensare che il “nostro” modo di fare le cose sia il solo giusto. Eppure c’è tanto da imparare dai comportamenti che ci sembrano inusuali e “differenti”. Abbiamo già detto che la regola secondo la quale occorre adattarsi agli usi della cultura che ci accoglie dovrebbe anzitutto valere anche per noi quando viaggiamo all’estero; ma per quanto riguarda il rapporto con le persone che provengono da altre culture gli usi e i costumi differenti ci fanno anche vedere i limiti della nostra cultura, ci fanno capire che ci sono dei “buchi neri” nelle procedure e nelle pratiche che siamo per scontate. Ad esempio, se un lavoratore musulmano ha bisogno di pause per pregare durante l’orario di fabbrica, questo fatto può anche condurci a ripensare ai ritmi di lavoro che caratterizzano la nostra società, ritmi che spesso non ci lasciano il tempo per la riflessione, la preghiera, il riposo. Dunque il contatto con il differente non solo ci arricchisce di una nuova esperienza e di un nuovo sguardo sul mondo, ma soprattutto ci fa capire come anche le nostre abitudini possono essere modificate e cambiate; la vera educazione antirazzista, il vero lavoro educativo per il dialogo parte dalla possibilità di concepire ognuno e ognuna di noi come differenti, vedendoci almeno per un momento con gli occhi degli altri e delle altre. Il punto di partenza per una educazione alla differenza è la constatazione che, per fortuna, il nostro mondo ospita sei miliardi di diversi e di diverse.


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