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    Ci può essere spazio per i preadolescenti in questa Chiesa?


     

    Giorgio Borghi

    (NPG 1982-06-65)

    Proseguendo nell'approfondimento del documento «Una rinnovata attenzione pastorale alla preadolescenza» (aprile), dopo il contributo di Severino De Pieri che presentava i principali problemi della preadolescenza (maggio), presentiamo una vivace riflessione di Giorgio Borghi:assistente centrale dell'Azione Cattolica Ragazzi, sullo spazio dei preadolescenti nella Chiesa e sulle condizioni di base per un loro riconoscimento come «soggetti ecclesiali».

    «Se c'è una crisi nella preadolescenza, è forse la nostra, perché a contatto con questi esseri che non vogliono più essere bambini, finalmente siamo in condizione di divenire degli adulti» (J. Caviale). Questa affermazione, che può sembrare un po' paradossale, vorrei applicarla alla Chiesa e al suo problematico rapporto con il mondo dei preadolescenti.
    Tutto il bastimento carico di retorica sulla bellezza e dolcezza dei bambini, sulla loro capacità di rallegrare la famiglia e il mondo, si svuota all'improvviso quando questi «tesorucci» varcano la soglia della scuola media dell'obbligo: la famosa «età ingrata» o preadolescenza.
    È una marea di lamentele da parte dei genitori: «Era così carino, così ubbidiente; si confidava con me, era affettuoso, mi teneva volentieri compagnia... Guarda in pochi mesi cosa è diventato!». E anche i parroci non sono teneri con questa età. Che belle le aule di catechismo piene di bambini con i loro catechisti! Le aule dei ragazzi delle medie, ahimé, non sono così affollate. «Questo ha abbandonato. Questa non viene più. Quest'altro si vede solo qualche volta. Questo non durerà molto...». Che bravi i bambini e che disastro i ragazzi!
    Veramente con la Cresima ritardata il più possibile si era accesa qualche speran- za, ma ci si sta accorgendo che il ricattino «se non vieni non ti do la Cresima!» ol- tre a non essere per niente simpatico, risulta addirittura controproducente. Può produrre l'effetto «elastico»: il ragazzo tirato dentro la parrocchia il più a lungo possibile, una volta lasciato (il giorno della Cresima) va a finire talmente lontano che è difficilissimo ritrovarlo.

    «Riconoscere» il significato originale di ogni età

    La crisi dunque c'è nella preadolescenza ed è una crisi che si riflette anche nel termine stesso con cui si qualifica questa età. Non voglio fare del nominalismo e caricare di significati reconditi una parola innocente come preadolescenza, ma credo sia significativo quel «pre» che si è andato a scovare per dire che non si tratta ancora di adolescenza e che, d'altra parte, è una tappa della vita così breve e «di passaggio» che non valeva la pena coniare un termine autonomo. Forse si poteva chiamare post-fanciullezza, comunque un prefisso nella parola che definisce questa età, diviene una componente concettuale qualificante. Se io avessi 13 anni e incontrassi un adulto che mi desse del «pre-adolescente» potrei ritenerla un'offesa e rispondergli definendolo un «post-giovane».
    A parte le questioni terminologiche, sappiamo tutti che Dio non ha creato gli 11/14 anni perché aspettassero i 15 anni, ma che «ogni età dell'uomo ha il suo proprio significato in se stessa e la sua propria funzione per il raggiungimento della maturità. Questa è veramente tale quando è armonica, integrale e quindi fonte di coerenza personale nei pensieri e nelle azioni. Errori e inadempienze, verificatisi a una certa età, hanno talora conseguenze molto rilevanti per la personalità dell'uomo e del cristiano. Così pure, una sana educazione umana e cristiana consente a ciascuno di vivere sempre come figlio di Dio, secondo la sua misura, ed è garanzia del progresso spirituale. Pertanto in ogni età i cristiani devono potersi accostare a tutto il messaggio rivelato, secondo forme e prospettive appropriate» (RdC 134).
    Allora, se anche la preadolescenza «ha il suo proprio significato in se stessa», come tutte le altre età, mi viene un fondato dubbio che la citazione iniziale di questo articolo non sia per nulla paradossale: la crisi «pastorale» nei confronti dei preadolescenti è una crisi della Chiesa e non dei preadolescenti. Certo, mi rendo perfettamente conto che non ho scoperto altro che l'acqua calda, ma vorrei riscattare dalla banalità questa affermazione con le riflessioni che seguono e che spero possano servire non a definire, ma almeno a far intravvedere in prospettiva una chiesa che cerchi costantemente una più piena fedeltà a Dio e fedeltà ad ogni uomo, preadolescente compreso.

    Il preadolescente che è in noi

    Si dice che la preadolescenza, come periodo ben definito dell'età evolutiva, si è abbreviata. Si dice un po' meno che la preadolescenza, come dimensione culturale, si è enormemente diffusa. Non intendo certo dire che la cultura contemporanea è preadolescenziale e bollarla immediatamente come immatura. Sarebbe ridicolo. Credo invece che la maturità dell'uomo (e quindi della sua cultura) è costituita dall'insieme organico di molteplici caratteristiche che si raccolgono e si armonizzano gradualmente passando attraverso le varie età della vita. Così le diverse età, dall'infanzia alla senescenza, evidenziano ed esprimono alcuni di quegli aspetti che sono comunque compresenti nell'uomo cosiddetto maturo. Nessuno di noi si vergogna di ammettere che a volte ama sentirsi anche bambino; anzi!
    Scrive Tagore: «Il bambino che non gioca non è un bambino, ma l'adulto che non gioca più ha perso per sempre il bambino che è in sé». E l'essere bambini, ci ricorda il Vangelo, non è un ritornare indietro, ma un crescere in maturità. Gesù non dice «se non ritornerete come i bambini», ma «se non diventerete come i bambini» (Mt 18,3).
    Ebbene non solo i tratti dell'infanzia restano in noi e dobbiamo saperli recuperare da adulti, ma anche i tratti della preadolescenza. Forse è un po' più difficile ammetterlo, perché hanno spesso una connotazione che consideriamo negativa o quanto meno disdicevole per un adulto; ma è così. Quella età strana e «ingrata» ce la portiamo con noi e, anche se volessimo negarlo, ci sono continuamente delle spie culturali che ci tradiscono.
    Perché allora non ammettere senza alcun rossore che un po' di preadolescenza è in tutti noi? Ma, prima ancora, dovremmo porci un interrogativo più radicale: perché consideriamo positivo che in noi ci siano componenti infantili e giovanili e invece non ammettiamo volentieri componenti preadolescenziali? Non pretendo di rispondere, ma penso, e nei miei pensieri vaganti associo la preadolescenza alla teologia della creazione.

    Credo in Dio Padre, creatore

    La teologia della creazione mi insegna che credere in Dio significa credere in un «Vivente che vede» e opera continuamente: un Dio con le maniche rimboccate che non si accontenta del già fatto ed invita l'uomo a non considerarsi mai un arrivato, perché «ciò che saremo non è stato ancora rivelato» (1 Gv 3,2). La teologia della creazione mi dice che, come il preadolescente, dobbiamo sempre essere aperti alla creazione in noi di un «io» che solo alla fine conosceremo in pienezza. «Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto» (1 Cor 13,12). Allora, se la creazione non è compiuta, non bisogna vergognarsi se i conti non tornano sempre perfettamente.
    Anche noi, come i preadolescenti, abbiamo tutto il diritto di essere a volte scompaginati come un libro prima di essere rilegato, mutevoli come le stagioni che «vincono la noia dell'uomo», spigolosi e strani come certe opere d'arte contemporanea, conformisti credendo di essere rivoluzionari, insicuri per tutto questo e per altro ancora. Accettare questo in noi e negli altri significa credere in Dio Creatore e forse, facendo pace con il preadolescente che è in noi, guardare con occhi nuovi, pieni di simpatia, i preadolescenti che non si sa da che parte prendere. Quello che succede a livello personale e culturale succede anche a livello ecclesiale. Se ci pensiamo un attimo, ci accorgiamo che la nostra Chiesa, ad uno sguardo superficiale, appare come una chiesa dei bambini e dei cosiddetti «maturi'», per non dire dei vecchi.
    Certo, i vecchi e i bambini sono espressione di quelle età in cui l'opera creatrice di Dio sembra camminare più lentamente, o almeno senza creare eccessivi sbalzi esistenziali. Sono le età nelle quali la fede può tranquillamente esprimersi nelle forme della religione senza tradire se stessa, perché «quand'ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino», ed è giusto. «Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino, l'ho abbandonato» (1 Cor 13,11); logico, no!? Nella chiesa, a volte, sembra proprio di no.
    Accettare un Dio che non ha ancora detto e fatto tutto è piuttosto scomodo, perché potrebbe dire o fare cose che non avevamo previsto e scombussolare i nostri piani. Meglio tenerlo sotto controllo, trasformandolo sostanzialmente in un idolo muto di cui sappiamo già tutto e che non ci riserverà delle sorprese continuando a parlare. La fede diventa religione pagana quando, invece di lasciarci creare ogni giorno a immagine di Dio, ci creiamo noi un Dio a nostra immagine. In buona fede, naturalmente! Così ne esce una Chiesa che possiede Dio, invece di una Chiesa che lo «aspetta».
    Scriveva magistralmente P. Tillich: «Penso a quell'uomo di Chiesa che non aspetta Dio, perché lo possiede racchiuso in una istituzione. Penso a quel credente che non aspetta Dio, perché lo possiede nella propria esperienza. Non è facile sopportare di non avere Dio, di doverlo aspettare; non è facile predicare ogni domenica senza mai pretendere di possedere Dio e di poterne disporre. Non è facile annunciare Dio ai bambini e ai pagani, agli scettici e agli atei, spiegando nello stesso momento che anche noi non possediamo Dio, ma dobbiamo attenderlo. Sono convinto che gran parte della opposizione al cristianesimo si basa sulla pretesa chiara o no dei cristiani di possedere Dio, la quale cosa comporta la perdita della dimensione dell'attesa... Noi siamo più forti se aspettiamo che se possediamo». La difficoltà a vivere nella Chiesa questa dimensione dell'attesa determina la difficoltà pastorale non solo nei confronti dei preadolescenti, ma anche nei confronti di tutte le manifestazioni éd espressioni preadolescenziali degli adulti. L'adulto nella fede è colui che non ha più «crisi di crescenza». Chi l'ha detto? La fede, che io sappia, non è una sedia su cui un bel giorno uno arriva a sedersi, ma una strada che bisogna riprendere ogni mattina.
    Rivendicando, se così si può dire, uno spazio ecclesiale per i preadolescenti sento pertanto che sto rivendicando anche la possibilità per me di stare nella Chiesa con tutto me stesso, per contribuire a farla diventare una Chiesa per tutti.

    Per loro o con loro?

    Vorrei ora accennare ad alcuni problemi particolari del rapporto Chiesa-preadolescenti, non dimenticando però il quadro tracciato sopra.
    Pensando al rapporto Chiesa-preadolescenti non dobbiamo immaginarlo a senso unico, situando i ragazzi nel ruolo passivo dei destinatari di molteplici servizi a cui avrebbero diritto: la nostra analisi si ridurrebbe in questo caso ad una elencazione di doveri della comunità ecclesiale che non contribuirebbe ad impostare correttamente il tema in questione. Non dobbiamo dimenticare che una delle ragioni principali del distacco dei preadolescenti della Chiesa è proprio la nostra scarsa convinzione «pratica» che anch'essi siano protagonisti e costruttori di Chiesa, con le loro caratteristiche e con la forza dello Spirito che opera anche in loro.
    Magari lo ripetiamo spesso, ma l'impressione generale dei preadolescenti, quando si pongono di fronte alla vita e ai problemi del mondo, è quella di non sentirsi per nulla importanti per la comunità in cui vivono. Da questo sentimento nasce la disaffezione, l'allontanamento e la perdita del senso di appartenenza.
    Per una corretta valutazione del problema, pertanto, non dobbiamo chiederci cosa la Chiesa deve fare per i preadolescenti, ma come possiamo vivere anche con loro il nostro essere Chiesa. Ora, se la Chiesa è koinonia, diakonia, kerigma e liturgia, come vivere tutto ciò con i preadolescenti? Rispondendo a questo interrogativo, evidenzierò solo alcuni elementi generali.

    Il gruppo per vivere la koinonia ecclesiale

    «Il segno della koinonia ecclesiale o comunione risponde all'anelito di fratellanza, di pace, di comunione e di comunicazione degli uomini di tutti i tempi» (E. Alberich).
    Per i preadolescenti è molto importante poter trovare da qualche parte uno spazio in cui sperimentare un modo di stare insieme diverso da quello familiare. Un luogo in cui la loro soggettività ancora fluttuante sia accolta, rispettata e valorizzata: questo spazio può essere il gruppo dei coetanei. Ma per noi il gruppo non è importante solo perché risponde all'esigenza psicologica di un tipo di comunicazione interpersonale diversa. Assai di più, diviene la modalità fondamentale con cui il ragazzo di questa età può imparare a credere la Chiesa. Il gruppo dunque come esperienza e mediazione di Chiesa.
    Certo la Chiesa non si esaurisce nell'esperienza di gruppo, ma esso può esprimere e vivere l'essenza totale della ecclesialità perché il mistero della Chiesa, nel suo nucleo, è un tutto indivisibile. Parlando dei gruppi, il teologo L. Sartori scrive: «A mano a mano che si scende giù verso la celebrazione effettiva della Parola e della Eucaristia, là sembra che la Chiesa diventi realtà più viva; ma al tempo stesso sembra che si lasci indietro qualcosa che appartiene alle garanzie di vita, e perfino alla totalità integrale dei fattori-valori che fanno l'ecclesialità. Per questo non si può rimanere prigionieri di un discorso di confronto quantitativo» (cf. «Presenza Pastorale» n. 7, 1981, pag. 32).
    L'importante è che nel gruppo si riflettano i tratti essenziali della ecclesialità, ma è certo che i preadolescenti potranno essere iniziati esistenzialmente alla Chiesa non attraverso discorsi, non riferendosi alla diocesi e spesso nemmeno alla dimensione per loro troppo astratta della parrocchia, ma attraverso l'esperienza di gruppo; un gruppo aperto, naturalmente, a tutte le altre dimensioni della Chiesa, ma coinvolgente in prima persona il ragazzo così come è. E questo non vale solo per i preadolescenti.

    Una relazione educativa impostata sulla diakonia reciproca

    «Il segno della diakonia ecclesiale risponde alla profonda esigenza degli uomini e dei popoli di trovare una alternativa alla logica di sopraffazione e di egoismo che avvelena la convivenza umana» (E. Alberich).
    Strettamente collegata all'esperienza di gruppo di cui sopra, la diakonia della Chiesa dovrebbe poter essere sperimentata ed «imparata» dai preadolescenti nel rapporto con i loro educatori, espressione immediata della Chiesa e testimonianza di uno stile di servizio. Accenniamo soltanto ad alcuni atteggiamenti educativi sbagliati.
    - «Padre-madre»: per i preadolescenti due genitori sono abbastanza, se non troppi. Guai quindi ad offrirgliene altri.
    - «Complice»: non meno inutile è l'atteggiamento dell'educatore che vuole assomigliare in tutto ai ragazzi. E la tentazione del «cavallo di Troia»: entrare dentro le mura nemiche senza farsi riconoscere.
    - «Giudice»: è decisamente crudele mettere un sacco pesante sulle spalle di uno che cammina sopra una corda appesa in aria, per vedere come va a finire.
    - «Burocrate»: un gruppo di preadolescenti non è un ufficio comunale e non basta essere puntuali e precisi.
    La diakonia nei confronti dei preadolescenti comporta invece altri atteggiamenti. Ne ricordo alcuni.
    - Simpatia. I ragazzi se ne accorgono se uno li sopporta per amor di Dio o per altri interessi e reagiscono. Una conoscenza più attenta, la scoperta del perché di comportamenti antipatici, il lavorare con loro, sono strade per coltivare la simpatia.
    - Amicizia. Se uno è giovane o adulto non può e non deve mascherarsi: deve essere quello che è. Amicizia, ricordiamolo, non è né paternalismo né complicità.
    - Sostegno. I preadolescenti non vanno aspettati al varco: «voglio vedere se siete cqaupealcloi dcihfearsei dsoansoolip!r»o.pVoasntin. Vanno proposti. contrario messi in condizione di riuscire a fa- re
    - Competenza. Anche a proposito del servizio ai preadolescenti dobbiamo gridare: abbasso i pronti a tutto e buoni (perché non preparati) a niente! Allora la diakonia diventerà uno stile anche per i preadolescenti nel loro rapporto con gli altri, ma... senza fretta!

    Un kerigma adeguato ai problemi dei preadolescenti

    «Il segno del Kerigma o parola ecclesiale si pone nella storia come messaggio liberatore e come chiave di interpretazione della vita e della storia» (E. Alberich). In questo ambito ci interessa particolarmente il problema della catechesi. Sappiamo tutti che oggi il «catechismo» viene chiamato «catechesi» e conosciamo bene gli sforzi compiuti dalla Chiesa italiana per rinnovare questa attività che occupa gran parte della prassi pastorale. Rimane però ancora un grosso limite: i bambini vengono molto catechizzati ma poco evangelizzati. Il punto di partenza e di arrivo del «cammino di fede», anche se per una strana pigrizia mentale non lo vogliamo riconoscere, finisce per essere il sacramento. E c'è anche di più: un catechismo fatto approfittando con troppa disinvoltura della facilità dei bambini a credere al «non dimostrato», lascia nei preadolescenti una sottile vena di rabbia e allegria: «roba da bambini!».
    Risultato: i ragazzi delle medie ci appaiono praticamente pagani. Se poi, e può succedere in qualche parrocchia fatata, si fosse fatto con i bambini un serio lavoro di evangelizzazione, i nostri «pagani» non ci richiederebbero una fatica minore. Il vangelo non è un prodotto surgelato, ma una proposta viva a persone vive. Con l'esplosione che si verifica nella pubertà, ve l'immaginate quale può essere l'efficacia di una presentazione del Vangelo esangue ed astratta?
    Non posso e non debbo affrontare qui il tema di quale catechesi offrire ai preadolescenti, ma dovrebbe farci molto pensare il fatto che una altissima percentuale di ragazzi se ne va e perde il contatto con il Vangelo proprio quando i problemi vengono a frotte. È possibile che fede e problemi non possano stare insieme, o rispunta qui il volto di una Chiesa strutturata essenzialmente per i «senza-problemi»?
    Ribadisco alcune convinzioni.
    In primo luogo: è inutile tentare di conservare «la pappa» delle elementari per quelli delle medie: non la mangeranno nemmeno se è riscaldata o diversamente confezionata. Ciò che vale per una età non vale necessariamente per le altre. Ci dobbiamo convincere ad offrire un servizio di evangelizzazione umile e preciso ad ogni età. Certamente dobbiamo tener presente il passato e pensare al futuro, ma noi ci dobbiamo preoccupare di «tirar su» i ragazzi. Noi dobbiamo offrire loro una esperienza cristiana attraente, incisiva, fruttuosa per il loro presente. A quando una prassi diffusa di catechesi permanente fedele a tutte le età?
    In secondo luogo: l'attesa che ha preceduto la pubblicazione dei vari volumi del nuovo catechismo della CEI mi ha sempre un po' preoccupato: se crediamo che un libro possa essere determinante per risolvere certi problemi pastorali, non abbiamo ancora capito cosa è la pastorale. E questo vale soprattutto per i preadolescenti.
    Una liturgia che accolga la vita dei ragazzi
    «Il segno della liturgia ecclesiale risponde all'esigenza, profondamente radicata nel cuore dell'uomo, di celebrare la vita, di esprimere nel simbolo la densità dell'esistenza coi suoi problemi e speranza» (E. Alberich).
    Chi più dei preadolescenti, che esperimentano in sé la prepotenza della vita, può sentire l'esigenza di celebrarla? La possibilità di esprimere anche nel simbolo ciò che si vive ha una forte valenza ermeneutica, se il simbolo è ciò che deve essere. E per il preadolescente una esperienza liturgica significativa è importante per non lasciarsi prendere la mano da una ragione più «ragionatrice» che «ragionevole», che non sa poi difendersi dalle suggestioni seducenti dei mass-media. Forse non si è ancora studiato a sufficienza che cosa può voler dire «celebrare» e in quali modalità possono pregare i preadolescenti. O forse assai spesso la nostra liturgia non è celebrazione della vita e sulla vita, e allora è disertata non solo dai preadolescenti. Forse possiamo recuperare terreno lasciando che i ragazzi, come nella Pasqua ebraica, interrompano i nostri riti impeccabili con la domanda: «perché facciamo questo?».

    Per concludere

    Voglio concludere rifacendomi ad una riflessione di R. Parant (cf. «Lumen Vitae», n. 2, 1981, p. 245).
    Pensando ai preadolescenti, credo a delle comunità che, nella concretezza della vita, rovescino l'ordine logico delle tre virtù teologali: fede, speranza, carità. Ci sia prima di tutto un luogo dove amo e sono amato. Qui sono contento e mi sento vivo... E ciò che mi preoccupa è, a volte, il pensiero che tutto ciò possa essere senza futuro.
    Allora incomincio a sperare, a scrutare i segni e i fatti che mi fanno pensare che questa felicità non è destinata a finire.
    E poi scopro Gesù, il risorto e mi affido a quella bella notizia che egli fa sgorgare al centro della mia vita: se tu ami veramente, se tu sei amato, niente può distruggerti, nemmeno la morte.

    Nota.
    Alcuni brani del presente articolo sono presi da un sussidio in preparazione, per gli educatori dell'ACR, dal significativo titolo «Uffa, che bello!».


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