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    Giovani e oriente: India è bello


     

    Giancarlo De Nicolò

    (NPG 1981-01-29)


    UN INTERESSE ANTICO E NUOVO

    «L'Oriente è l'Oriente, e l'Occidente è l'Occidente» dichiarò una volta lo scrittore inglese Rudjard Kipling, il cantore dell'impero britannico, «né mai si incontreranno, se non al giorno .del giudizio per presentarsi entrambi al trono di Dio». L'ultimo giorno non è ancora venuto, ma non si fa fatica a vedere come Oriente e Occidente in qualche modo si sono già incontrati: qualche volta scontrati, magari si sono guardati reciprocamente in cagnesco o con cupido interesse, ma ormai non possono più ignorarsi.
    Se qualche precauzione è necessaria, la prima è che bisognerebbe guardarsi dal prendere i due termini, Oriente e Occidente, con un significato troppo univoco: in realtà esistono molti «Orienti» e molti «Occidenti», e l'uso di questi nomi dovrebbe accompagnarsi con la coscienza della loro convenzionalità. D'altra parte molti sono pure i pregiudizi e le affrettate equazioni con cui queste realtà si accostano (come: Oriente = irrazionalità, passività; Occidente = razionalità, attività), e questo non è certo utile per cogliere il fenomeno nella sua complessità.

    Uno spostamento di interesse

    Quest'incontro-confronto ormai già progredito è il risultato di una lunga storia che ha avuto inizio in un lontano passato, ha percorso tutte le fasi di una penetrazione politica ed economica, e nel secolo scorso si è caratterizzato come la scoperta di una civiltà antica, misteriosa e affascinante, che suscitava l'interesse di letterati, artisti, filosofi, scienziati: un interesse pertanto di natura teorico-intellettuale, in cui giocava anche un certo fascino per l'esotico.
    È necessario avere tutta questa «memoria» del passato, la consapevolezza di una lunga storia in cui è avvenuto questo incontro, per rendersi conto di tutti i condizionamenti e le difficoltà che giocano tuttora, per capire che un qualunque incontro oggi non avviene nel vuoto storico, ma in una storia che è stata ben caratterizzata da modalità concrete di incontri, e che ancora pesano oggettivamente e soggettivamente. motivo di mietesse oggi si è invece spostato su direzioni diverse che nel passato, si modalità completamente nuove, frutto di profondi mutamenti culturali e sociali.
    ma Mietesse che si sposta dal livello puramente intellettuale a quello esperienziale, come mostra per esempio l'assunzione di pratiche e tecniche orientali (yoga, meditazione...), legate o meno al loro originario contesto sapienziale.
    nell'ambito di questo contesto di incontro a livello esperienziale che affrontiamo il tema del «viaggio ad Oriente».
    Non perché esso presenti dati quantitativamente rilevanti. Anzi, un inesperto sociologo davanti alle aride tabelle, ai numeri e alle percentuali, si dimostrerebbe restio a concedere un qualche interesse al fenomeno. Quantitativamente infatti è un fenomeno marginale, di scarsa o nulla importanza, anche se l'occhio esperto del sociologo è colpito di certo dai segni della rilevanza di questo intesse (libri che trattano di argomenti di tipo «orientale», case editrici che hanno cataloghi completi di opere del genere, riviste totalmente o parzialmente interessate all'Oriente, centri e corsi che nascono come funghi con insegnamenti che vanno dalle arti marziali alla pratica della meditazione trascendentale, viaggi organizzati alla scoperta di «civiltà splendenti quando noi eravamo ancora barbari»).
    Ma un buon sociologo legge al di là dei dati: egli sa che la sociologia è interessata ai problemi di fondo dell'individuo nella società, e all'impatto che essa può avere nella formazione nell'uomo di strutture di pensiero e di significato che lo orientano nel mondo e davanti alle persone e alle cose.
    Il fatto è che il sociologo si pone il problema se il rapporto dell'individuo con l'ordine sociale (problemi come la socializzazione, il ruolo delle istituzioni, l'identità personale e sociale...) non abbia subìto o non stia subendo trasformazioni radicali con la nascita di una società moderna o postmoderna; se non siano sorte nuove strutture di significato, indotte da situazioni di vita nuova nella società, capaci di reintegrare in certo modo la vita quotidiana e atte a risolverne le crisi.

    Perché tale interesse oggi?

    In altre parole, noi crediamo che il fenomeno dell'interesse per l'Oriente oggi presente nel mondo occidentale contemporaneo, e in particolare nei giovani, o perlomeno in una certa fascia di giovani, anche se limitato e circoscritto, è tuttavia qualitativamente significativo.
    C'è indubbiamente la tentazione di sopravvalutare dei sintomi, di scorgere nessi che sono semplicemente plausibili: per cui è ovvio usare una certa dose di prudenza nel generalizzare in base ai dati, e sottolineare il carattere problematico di alcune conclusioni proposte.
    Tuttavia ci pare che il fenomeno considerato sia significativo perché è trasparente di una certa interpretazione della realtà e della società presente oggi in particolar modo nei giovani, che si traduce in una presa di distanza dalla accettazione di essa e delle sue istituzioni, nel rifiuto di una certa «cultura» che è alla base di essa e la sostiene, ed esprime la coscienza per molti giovani della necessità di un nuovo modo di vivere, di rapportarsi alle cose e alle persone: insomma il tentativo di una nuova identità personale e sociale, fondata su valori diversi da quelli tipicamente occidentali.
    In altre parole è sintomo di una «fuga da» e una «fuga per», anche se il termine «fuga» deve essere correttamente interpretato e privato delle sue abituali connotazioni negative. Positivamente si può esprimere come ricerca di una nuova qualità di vita fondata su una logica diversa da quella occidentale.
    Non diciamo che il «viaggio ad Oriente» sia l'unico modo di reagire ad una società sentita come oppressiva e soffocante: diciamo solo che per alcuni (anche se sono pochi e una specie di élite) la ricerca di spazi nuovi di libertà e di identità si ritrovano lungo la strada che porta ad Oriente, verso «l'India», o negli spazi che l'Oriente si è creato in Occidente.
    Pensiamo che interpretazioni di questo fenomeno in termini di moda, di fuga irrazionale, di turismo a buon mercato nel sottosviluppo asiatico, siano anche state valide, e lo siano tuttora, per molti.
    Tuttavia ci pare che non si coglierebbe il significato profondo e la portata reale di questo fenomeno se lo si intendesse solo in questi termini. «L'India - e l'Oriente in genere - è diventata uno spazio culturale ed umano in cui sono confluite decine di migliaia di giovani nauseati dalla vita di plastica delle grandi metropoli occidentali.
    Crediamo che per molti la scoperta dell'India abbia determinato un radicale cambiamento nei ritmi delle nostre vite e della nostra mente...
    Ripetiamo che per noi l'India non è tanto il subcontinente asiatico dove vivono milioni di persone e molte muoiono di fame; l'India della mente è un modo nuovo e antico di vedere e considerare la vita, la realtà, le persone umane. L'influenza di questa cultura comincia a farsi sentire in modo sempre più ampio sull'intero pianeta... quello che poteva sembrare un fenomeno passeggero, una certa moda esotica e decadente si comincia a mostrare con il suo volto vero e reale, per quello che è: un sentiero di conoscenza e di liberazione interiore che anche il mondo occidentale comincia a percorrere in tutta la sua profondità» (Verni-Cerquetti, La valigia delle Indie, pag. 11).
    Questa è la tesi che sosteniamo e che ci pare possa illuminare in parte la contraddittoria identità e gli orientamenti di vita di molti giovani di oggi: il «viaggio ad Oriente» è uno dei modi - e per alcuni versi molto significativo - in cui si traduce una comune insofferenza e ricerca di nuovo.

    ALLA RICERCA DELLE ORIGINI

    È difficile datare quest'incontro tra giovani occidentali e cultura-religione orientali, ed è difficile anche dire chi sono questi neo-orientali.
    Soprattutto perché non è determinante il fatto di avere intrapreso davvero il viaggio ad Oriente (il «viaggio» non è di tipo geografico-spaziale), ma il fatto che l'Oriente ha affascinato in Occidente, quando non stregato, un numero grande di persone. «Sono migliaia e migliaia gli americani che oggi si sentono attratti da movimenti, pratiche e idee derivate da qualcuna delle grandi tradizioni della sapienza spirituale d'Oriente. Il loro interessamento ha vari gradi di serietà e perseveranza. Alcuni si contentano di dare un'occhiata a un'edizione economica del famoso libro I Ching, o provano qualche posa yoga; altri, come me, scelgono una delle pratiche orientali ritenuta importante; altri ancora abbandonano ogni cosa e vanno a dormire su stuoie in qualche tempio Hare Krishna americano. C'è gente seria che cerca la verità, e ci sono buontemponi, dilettanti, convertiti autentici e ipocriti. Insomma, il neo-orientalismo coinvolge un numero enorme di persone, non solo qualche individuo isolato, e suscita un interesse che non ha precedenti nella storia religiosa americana» (pag. 102).
    Abbiamo iniziato col considerare l'America, nelle parole di H. Cox, autore di La svolta ad Oriente, perché è stato in America che questo fenomeno ha avuto inizio ed ha conosciuto la massima diffusione.
    Volendo elencare i soliti dati sociologici circa gli appartenenti a questi movimenti, sempre per quanto riguarda l'America (sono dati ricavati da studi sul campo e da inchieste), si potrebbe dire che in genere i neo-orientali sono giovani dai 18 ai 35 anni, quasi esclusivamente bianchi, istruiti, di classe media o medio-superiore, provenienti da famiglie agiate ed hanno almeno cominciato gli studi universitari, in numero quasi eguale tra uomini e donne (ma sono gli uomini che detengono i posti di comando), abitanti per lo più in città, con percentuali pressoché uguali tra cattolici, protestanti, ebrei e con rilevante prevalenza di appartenenti a nessuna confessione religiosa, e con bassissime percentuali di altre confessioni.

    Il legame col movimento underground

    Questi dati sono certo interessanti (e utili magari per un confronto con dati provenienti da altre zone geografiche), e si potrebbe tentare di interpretarli. Ma penso che un altro fattore sia ancora più caratteristico e degno di nota: il fatto che esiste uno strettissimo legame tra le tematiche orientali globalmente intese e il movimento underground americano (fenomeno che non si è certo manifestato e concluso soltanto nella terra di origine, ma ha avuto il suo corrispettivo pressoché in ogni parte del mondo occidentale, almeno nelle sue caratteristiche originali e fondamentali), che si è espresso soprattutto, attorno agli anni Sessanta, nella protesta giovanile e nelle varie forme di controcultura.

    Una protesta globale al sistema di vita

    Delle cause e del tipo di protesta ne parla Robert Bellah, in un saggio dal titolo Il nuovo senso religioso e la crisi del moderno. Egli rileva come le critiche alla società americana (siamo agli inizi degli anni Sessanta) vertevano soprattutto sulla questione dei fini. «L'espansione continua del benessere e del potere, che è ciò che la razionalizzazione dei mezzi in pratica intende, non sembrava buona di per se stessa. Naturalmente vi erano gli acuti problemi circa l'ineguale distribuzione della ricchezza e del potere; ma oltre a ciò vi era il problema se la qualità della vita fosse una semplice funzione della ricchezza e del potere, oppure se l'accumulazione senza fine di ricchezza e di potere non finisse per distruggere la qualità e il significato della vita, sia da un punto di vista economico che sociologico. Se la razionalizzazione dei mezzi, l'interesse per lo strumentalismo esclusivo non erano più di per sé significativi, allora le cose che erano state subordinate, dominate e sfruttate a favore dei mezzi di razionalizzazione, assumevano un nuovo significato: la natura, le relazioni sociali e i sentimenti personali potevano adesso essere considerati fini anziché mezzi, ed essere affrancati dal controllo repressivo della ragione tecnica».
    Insomma, «la causa più remota, a prescindere dai fattori particolari che contribuirono alla scelta del tempo, fu, a mio avviso, l'incapacità dell'individualismo utilitaristico di fornire modelli dotati di significato di esistenza personale e sociale, specialmente quando la sua alleanza con la religione biblica cominciò a cedere, perché la stessa religione biblica era andata distrutta nel processo. Vorrei perciò interpretare la crisi degli Anni Sessanta soprattutto come una crisi di significato, una crisi religiosa, ovviamente con conseguenze politiche, sociali e culturali di grande entità».
    Tra coloro che condividevano questa analisi generale, alcuni ponevano l'accento sul rovesciamento del sistema attuale come condizione preliminare necessaria per la realizzazione di una società più umana, e altri invece sottolineavano «l'attuale incorporarsi di un nuovo stile di vita "nei pori ", per così dire, della vecchia società», e ancora alcuni erano prevalentemente orientati verso l'azione politica (quindi più sui mezzi che sui fini), altri invece erano prevalentemente interessati «all'effettiva creazione di modelli di vita alternativi».
    Sarebbe su questa seconda tendenza, volta a creare «microisole di libertà» in cui testimoniare una nuova qualità di vita, che si inseriscono le tematiche orientali con i loro modelli alternativi, con la «credenza nell'armonia tra uomo e natura e nella felicità dell'attimo presente, raggiunta attraverso le droghe, la musica o la meditazione. Vi era di certo una forte opposizione al dominante ethos americano dello strumentalismo utilitaristico orientato verso il successo personale».
    La spiritualità asiatica offriva infatti elementi di vita in contrasto netto con tale individualismo: «al posto del successo esteriore essa poneva l'esperienza intima; al posto dello sfruttamento della natura, l'armonia con essa; al posto dell'organizzazione impersonale, un'intensa relazione con un "guru "... L'esperienza della droga, interpretata in termini di religiosità orientale, come fecero tra i primi Leary e Alpert, e l'esperienza meditativa, spesso intrapresa allorché si scopriva che l'uso della droga aveva troppe conseguenze negative, mostravano l'illusorietà della competizione mondana; il carrierismo e la ricerca di " status ", il sacrificio della felicità presente in vista di mete future sempre allontanantisi, non parevano avere più valore. Si verificò un allontanamento non solo dall'individualismo utilitaristico, ma dall'intero apparato della società industriale».

    Una società tecnocratica che illude ed opprime

    La stessa descrizione ce la offre Theodore Roszak, nel suo ormai classico La nascita di una controcultura, partendo da considerazioni riguardanti la società tecnocratica, «la forma sociale in cui una società industriale raggiunge il vertice della sua organizzazione integrativa». Il segreto infatti della tecnocrazia risiederebbe nella sua capacità di far accettare queste premesse: che i bisogni essenziali dell'uomo sono di carattere puramente tecnico, e che è compito degli esperti tecnocrati accertarli e soddisfarli.
    Ma contro questo abbassamento della vita al cosiddetto tenore di vita che l'ingegno tecnico è in grado di controllare perfettamente, sorge un movimento radicalmente nuovo che «sottrae il dissenso dal tavolo di disegno degli adulti e lo trasforma in uno stile di vita». Nasce così una controcultura, «disancorata radicalmente dagli assunti essenziali della nostra civiltà da non poter addirittura apparire a molti una cultura, ma anzi da assumere l'aspetto allarmante di una invasione barbarica»: questa controcultura è «un capovolgimento della visione scientifica del mondo, con la sua incallita connivenza con un tipo di coscienza egocentrica e
    e cerebrale; con la consapevolezza che al suo posto ci deve essere una nuova cultura nella quale le facoltà non intellettive della persona diventano arbitre del buono, del vero, del bello».
    in questo compito di definire le caratteristiche delle facoltà non-intellettive della personalità, di riscoprire l'unità dell'io a livelli di interiorità più profondi, che si avvia l'incontro con le tradizioni orientali, che «hanno una meravigliosa ricchezza di vocaboli per distinguere la coscienza non-intellettiva, come anche un certo numero di tecniche per attingere al suo contenuto».

    L'incontro con le tematiche orientali

    La ricerca di uno stile di vita alternativo, nato sulla scia della crisi di significato, in opposizione all'individualismo utilitaristico, secondo Bellah, o alla società tecnocratica tutta interessata alla razionalizzazione dei mezzi e alla riduzione dei bisogni della persona, secondo Roszak, tipica della controcultura giovanile, si incontrano dunque agli inizi degli anni Sessanta con le tematiche orientali. Inizia così un «viaggio» autonomo alla ricerca di nuovi significati per l'esistenza, un viaggio verso l'interiore, che trova i suoi simboli nell'abbandono o fuga dalla famiglia, dalla società dei consumi, e nell'avventura «sulla strada». Un viaggio che magari si accompagna anche con l'uso di sostanze psicotrope, che permettono di sperimentare o di intravvedere regioni sconosciute della coscienza, e che finisce con il diventare, per chi riesce a liberarsi dall'esperienza psichedelica fine a se stessa, ricerca interiore delle proprie radici esistenziali nell'incontro con l'Oriente, che è capace di offrire un contesto concettuale e tecniche adatte per l'esperienza di «coscienza allargata» capace di arricchire la vita e dotarla di nuovi significati. Anche questo orientamento «mistico» della cultura underground non è senza padri, o senza i suoi profeti. I nomi più significativi sono quelli di Allen Ginsberg, che lega insieme ricerca di un volto nuovo di Dio e protesta radicale, che nella sua poesia assume l'ardore del responso oracolare di un profeta; Alan Watts, il divulgatore dello Zen in America, alla ricerca di un'illuminazione interiore al di là della pura coscienza intellettiva; il Kerouac de I vagabondi del Dharma e di Sulla strada; l'Herman Hesse di Siddharta.
    Personaggi che avrebbero precorso e interpretato un nuovo modo di sentire dei giovani, e sarebbero diventati i nuovi maestri di vita.

    Il caso dell'Italia

    «Quella provincia dell'impero americano che è l'Italia» si colloca nel più generale ambito in cui si è evoluta la società industriale-tecnologica, assumendo le forme iniziali di quella che ormai da tempo nell'Occidente viene chiamata la società post-moderna.
    Le profonde trasformazioni che a partire dagli anni Cinquanta hanno mutato il nostro paese (il definitivo passaggio da strutture caratteristiche ancora di sottosviluppo, ad una società industriale avanzata, col conseguente sviluppo della società dei consumi, la crescita delle classi intermedie, la diffusione dell'istruzione scolastica, l'affermazione di una cultura tecnologico-scientifica) hanno velocemente mutato le condizioni di vita degli italiani (per quanto certe sacche - specie nel Meridione - non sembrano ancora toccate da queste trasformazioni), e il sistema tradizionale dei valori.
    Nuovi filoni di cultura si affiancano a quelli tradizionali e contribuiscono a determinare una nuova base culturale in cui operano le scelte e gli orientamenti di vita. Su questa situazione di rapida trasformazione culturale, in parte comune ad altri paesi occidentali, in parte tipicamente italiana, si inseriscono i movimenti di ribellione studentesca, che presentano due tipi di istanze, quella strettamente politica (che avrà il sopravvento), che mirerà allo scontro frontale col potere, e quella della cultura underground, interessata, come quella americana e in genere occidentale, «soprattutto alla musica, alle sostanze psicotrope, al " viaggio " interiore, alla creazione di spazi alternativi come testimonianza di una diversa qualità di vita». Il diverso esito delle due istanze è noto. Gli anni Settanta hanno visto l'arroccarsi su rigide posizioni dell'ala politicizzata, e la progressiva espansione dell'ala underground con il ripiegamento verso il «privato» alla ricerca della necessaria precondizione che è la rivoluzione «interiore». L'aggancio con l'Oriente si presenta allora, in questi anni Settanta, come uno dei più caratteristici modi e mezzi di «decondizionamento interiore» o di «smantellamento dei ruoli psicologici e sociali che costituiscono l'io fittizio».
    Ci si rende conto che «la ricerca di adeguati strumenti operativi trova negli approcci orientali risposte concrete dal punto di vista sia teorico sia pratico. L'ansia di liberarsi dal peso dei condizionamenti interiori, l'esigenza di un cambiamento radicale da attuare qui e ora, la ricerca di un sicuro orientamento esistenziale, la sete di un'esperienza viva, immediata e sensibile della realtà, il desiderio di contatti più schietti con il prossimo, costituiscono alcune fra le motivazioni più forti che spingono un numero crescente di giovani - e non più giovani - dell'area della controcultura a orientarsi verso le soteriologie orientali. A queste motivazioni, poi, se ne aggiungono altre più «regressive», legate al famelico bisogno di sicurezza e protezione, a un risentito rifiuto del mondo quotidiano e a un narcisistico compiacersi dei propri mondi interiori» (tutte le citazioni di questo capitolo si riferiscono a Bergonzi, Inchiesta sul nuovo misticismo, pag. 39-40).
    Da un punto di vista sociologico, si nota che l'Oriente ha ancora un'incidenza molto bassa sul tessuto sociale italiano, ha adepti prevalentemente giovani, di varia estrazione sociale, con prevalenza delle classi medie. Si mostrano molto critici nei confronti della società e della religione ufficiale, e contrappongono alle istituzioni di chiesa l'esperienza religiosa diretta che ritrovano tipica del modo orientale di essere. E hanno prevalentemente la tendenza di caratterizzarsi come sette, in forte antagonismo con ogni forma di istituzione tradizionale.
    Il panorama delle prese di posizione dei vari filoni della cultura italiana non rivela certo una irenica accettazione e accoglienza di questi movimenti: né il mondo cattolico per motivi dogmatici, né quello marxista ortodosso per una sua fondamentale incapacità a cogliere i fenomeni legati in qualche modo al religioso, né quello radicale per il suo scetticismo agnostico di stampo neoilluministico.

    L'incontro tra culture

    Ben più complesso è il caso in cui sono le tematiche e le esperienze di vita orientali che emigrano in Occidente: allora il confronto finisce con il diventare a livello di culture, e gli sbocchi di questo incontro sono ovviamente svariati, con notevoli conseguenze sugli eventuali adepti. Grosso modo si danno allora due categorie di posizioni (utilizziamo ancora il valido e aggiornato studio di Bergonzi). Le tematiche filosofiche-religiose restano pressoché inalterate: il modello originario orientale viene trapiantato in Occidente senza subire mutazioni rilevanti: è il caso del Buddhismo, soprattutto nella forma Zen. Una ragione storica può ritrovarsi nella fuga dei monaci tibetani a causa dell'invasione cinese, con il conseguente desiderio di far rivivere tutto l'insieme della loro cultura minacciata di estinzione: ne segue la formazione in Occidente di «isole» tradizionali all'interno delle quali rivive tutto un passato glorioso e ben strutturato.

    UN TENTATIVO DI CLASSIFICAZIONE

    Il comportamento di coloro che affrontano veramente il viaggio, una volta arrivati in Oriente, può essere diverso, ma è sempre a livello strettamente individuale: essi non sono portatori di una cultura che vogliono diffondere, ma sono portatori soltanto dei loro bisogni e delle loro esigenze. Sono atteggiamenti e comportamenti che possono variare da un girovagare turistico, a un respirare il clima orientale in una comoda e refrigerata camera d'albergo, a un partecipare alla vita e ai problemi della gente della strada; oppure si mettono alla ricerca di un guru famoso, o di un ashram (monastero) e iniziano la via dell'illuminazione.
    Il secondo caso è dato dal fatto che a contatto con l'Occidente le tematiche orientali subiscono modificazioni, anche radicali.
    A( volte finiscono con l'essere completamente assorbite da parte della cultura ospitante, senza che questa ne venga modificata. Basti pensare a tutta la serie di tecniche meditative orientali distolte dal loro significato e usate per altri fini. Oppure danno l'avvio ad una reciproca trasformazione in base alla quale emergono situazioni nuove, che danno anche vita a riformulazioni delle tematiche orientali sintonizzate coi sistemi concettuali della nostra cultura.
    Dare una classificazione di questi movimenti emigrati in Occidente sulla base del loro «adattamento radicale» (come lo chiama Cox) o meno, non è molto semplice. Tanto più che, soprattutto in America, le tradizioni orientali hanno raggiunto primati di elasticità, e alcune in particolare sono accusate di essere capaci di adattarsi soltanto esteriormente all'Occidente per aumentare il loro potenziale di vendita. Forse è più conveniente affidarsi al sistema delle «grandi tradizioni», le principali delle quali sono ovviamente l'induista e la buddhista. Anche qui però operiamo una rigorosa selezione: perché l'importante per questo lavoro non è di fare una classificazione e divisione completa e aggiornata, ma operare alla ricerca del significato dell'interesse per l'Oriente da parte soprattutto dei giovani di oggi: insomma un denominatore comune che sta alla base delle varie appartenenze. Ci interessa presentare i movimenti e i gruppi che sono più seguiti e più significativi in Italia.

    Le grandi tradizioni

    E allora, tra i movimenti dell'area indiana, possiamo ricordare:
    - gli Hare Krishna, movimento che si innesta su antichissime tradizioni indu, trapiantate in Occidente negli anni Sessanta, che si propone la meta dell'abbandono in Dio, consapevoli ad ogni istante della sua presenza, attraverso vari mezzi di liberazione (celebre tra questi la recitazione del mantra basato sul nome di Krishna);
    - i seguaci della Meditazione Trascendentale, che attraverso il processo meditativo cercano di raggiungere, in piena consapevolezza, la fonte di ogni energia, la profondità dell'Essere in cui perdersi. La tecnica del mantra, diversamente dal caso precedente, è priva di ogni riferimento religioso;
    - i cultori dello Yoga, non tanto nel senso allargato di insieme di tecniche psicofisiche, ma in quello di sistema filosofico-religioso, volto alla sperimentazione di una consapevolezza totale, capace di osservare la realtà senza coinvolgersi in essa. I filoni principali di questo sistema sono quelli dell'azione, della devozione, della conoscenza, e lo yoga reale;
    - gli «arancioni» di Rajneesh, per i quali le vie della ricerca interiore devono essere un processo spontaneo, gioioso, dove le energie represse vengono liberate attraverso tecniche tra le più svariate;
    - i seguaci di Kaushik, dove ognuno è spinto alla ricerca della Verità nel crogiolo della propria esperienza.
    All'ispirazione buddista si possono collegare numerose scuole e metodi, tali che è pressoché impossibile tentare una classificazione completa. «L'iter meditativo buddhista - osserva nell'opera citata Bergonzi - comporta uno smantellamento sistematico di tutte le strutture condizionate che incatenano l'individuo al samsara (gli incessanti circoli viziosi che rendono dolorosa l'esistenza); e comporta altresì - parallelamente - lo sviluppo di una conoscenza salvifica e trasformativa capace di bruciare ogni forma accumulata di attaccamento attraverso la presa di coscienza - al livello esistenziale - dell'inquietudine-sofferenza implicita in qualsiasi situazione condizionata, della relatività del concetto di " dio " e del carattere di flusso continuo inerente a ogni fenomeno della realtà, fino poi a propiziare il salto finale della dimensione dell'Incondizionamento (nirvana), di cui nulla si può affermare perché trascende ogni concettualizzazione» (pag. 107). In Italia si sono diffusi soprattutto due tipi diversi di buddhismo, quello tantrico e quello zen.

    TESTIMONIANZE ED ESPERIENZE

    Ma è ora di sentire dal vivo le voci di alcuni dei protagonisti di questo «viaggio». Non sono tutte dello stesso valore, ed esprimono le motivazioni più disparate. Ma tutte sono pienamente consapevoli che questo viaggio ha significato qualcosa di importante per loro.
    Per ora non ci preoccupiamo dell'analisi approfondita, ma soltanto di registrare fedelmente, rimandando alle conclusioni una interpretazione globale. La trascrizione che segue è tratta da una tavola rotonda promossa anni fa dalla rivista per giovani Doppiovu dal titolo II grande viaggio: fuga o conoscenza?, e da lettere e resoconti tratti dal libro già citato La valigia delle Indie.

    Le testimonianze di Doppiovu

    Doppiovu: Un viaggio verso l'Oriente, soprattutto se si tratta di un lungo viaggio con pochi soldi e senza scopi di lavoro, in questi anni è diventato una specie di «classico», acquistando spesso un significato di rifiuto della nostra società e del nostro tipo di vita. Cos'è stato per voi partire: un po' di fuga o una ricerca di conoscenza?
    - Per me è stato proprio un bisogno. Per respirare. Un po' sarà per vedere delle cose diverse, un po' per mettere alla prova se stessi in una situazione che non sia sempre la solita. In fondo, mi pare che voler uscire dalla propria realtà e voler conoscere siano due cose strettamente connesse. La mia molla, come penso per molti, è stata la delusione di non essere riusciti a realizzare molte cose qui. Dopo il famoso '68, il cambiamento non c'è stato, e l'andarmene è diventato un po' il tentativo o la speranza di trovarle altrove (Emanuele, 24 anni).
    - Anch'io sono partita con una grande voglia di diverso, e di questo viaggio non me ne pentirò mai (Maria, 20 anni).
    - A me interessava proprio l'Oriente, come modo di vita, religione. Per me non è stata assolutamente una fuga, ma un voler conoscere, un voler vedere cosa vuol dire la parola vita da quelle parti. E infatti è stata una scoperta fantastica (Stefano, 23 anni).
    - Non è stata una fuga: cercavo proprio un modo di vivere più liberamente, di avere più libertà nei rapporti con le persone (Rita, 24 anni).
    - A parte il conoscere, che è ovvio, penso che uno dei fattori determinanti che ti spingono a viaggiare sia il piacere, bisogna dirlo. Il piacere di stare con te stesso, di stare con gli altri. Allora capisci che è la massa dei legami che ti opprimono, che non ti permette di fare le cose belle e di raggiungere un po' di piacere, fosse anche il più semplice: fare l'amore, conoscere la gente, andare in giro a guardare. Tutte cose che qui sono difficili perché hai sempre delle scadenze, degli orari, una famiglia, che ti impediscono di svilupparti in questo senso (Luca, 22 anni).
    - A me il viaggio ha insegnato che al limite si può viaggiare anche a Milano. Il viaggio è una condizione della tua testa, non solo delle tue gambe. E ci si può provare a ricrearla dovunque tu sia. Il viaggio è un modo diverso di stare con la gente, un modo nuovo di vedere la vita sempre nuova, un modo di essere anche tu sempre nuovo. Per me, la rivelazione è stata di scoprire che miei compagni possono essere tutti, che la mia casa può essere dappertutto, che forse la mia casa è viaggiare. Che non ho bisogno del «mio» tetto familiare, ma solo di un tetto. Perché: così sono più aperta, mi sento meglio (Michi, 24 anni).
    - Il viaggio ti apre una tale dimensione di libertà, che se vuoi riesci ad avere rapporti più liberi comunque (Michi).
    Doppiovu: Parliamo di quella che è stata, e forse lo è ancora, una fuga tipica di molti viaggiatori dell'Est: la fuga mistica. Nessuno di voi è stato attratto in questo viaggio da una spinta religiosa?
    - Io sono partito con dei libri sul buddismo tibetano, scritti da occidentali naturalmente, perché mi interessavano queste cose. Ma la botta l'ho avuta partecipando a una festa locale, e ho incontrato un Lama: questa persona non diceva niente, non parlava, non spiegava, guardava solo, ma è arrivata con un solo sguardo dove nessuno era mai arrivato in vita mia. Giuro, ho capito che esiste davvero l'illuminazione, che esiste il capire, il conoscere, l'amore (Stefano).
    - Io ho avuto l'impressione che anche qui la religione è usata come potere (Lidia, 23 anni).
    - Se hanno tanta presa la filosofia e la religione orientali è perché parlano di te, ti aiutano a conoscere te stesso, cosa piuttosto dimenticata qui in Occidente, e con quali risultati si vede. E ancora di più, in Oriente puoi vivere questo meraviglioso diritto naturale alla gioia e alla festa. Chi di noi ha mai imparato queste cose? (Michi).
    - È vero. Io ho assistito alla festa di Shiva, la notte di Shiva, dio del fuoco, verso la fine di febbraio. La gioia sì, in Oriente, è rispettata (Stefano).

    Stralci da lettere

    Altre testimonianze tratte da lettere:
    - Ieri notte sono rimasto a cantare il sacro nome di Krishna in un piccolo tempio vicino al mare. Sentivo il rumore dell'oceano diventare nelle mie orecchie il suono dell'estasi. Provo l'antica gioia della fede e l'Occidente mi sembra così lontano. La mia mente è pace infinita, il mio corpo è pace infinita: sono solo un bambino che guarda il mondo con occhi buoni, seduto a gambe incrociate sulla nuvola di cotone del respiro divino (Piero).
    - Invio questa lettera sperando che gli amici rimasti sappiano moltiplicarsi e agire, più dell'immobilità e apatia da me sempre dimostrata, perché i tempi stanno cambiando, supercoscienze per il nuovo mondo (Lorenzo).
    - Sono arrivato in India, sono scivolato nella magica atmosfera orientale, il mio corpo, la mia mente, i ritmi biologici occidentali sono svaniti, il passato non c'è più. Sono di fronte al presente, all'infinito presente; cerco di capire l'eternità, il grande tempo, ci sono dentro completamente immerso. «Be here now» dice la saggezza indiana, vivi qui adesso ripetono i giorni che passano uguali e diversi nello stesso tempo.
    - Non devo dimenticare le condizioni anteriori che mi avevano spinto e che avevano motivato questo viaggio di ricerca e di decondizionamento dai molti anni malamente spesi nella decadente civiltà occidentale o per lo meno quella che avevo conosciuto e nella quale ero, sino ad allora, vissuto: una mia realtà grigia e piatta, un cumulo di valori fasulli, artificiali e pericolosi.
    - Ora Elena ti sto scrivendo delle cose a cui puoi anche non credere, si tratta di allargare la propria coscienza ed andare oltre alla materia e ciò che noi consideriamo reale, la realtà non è solo fuori ma anche dentro di noi. Per entrare così nel mondo interiore che è in ognuno di noi, per far sì che la mente non sia più condizionata dalla censura imposta dalle zone più giovani del cervello, cioè della corteccia cerebrale, ma che la coscienza allargata accetti dei fenomeni abitualmente esclusi, rendendo possibili nuove percezioni. Mi sto rendendo conto sempre più che non si può vivere solo di materialismo, che c'è qualche cosa al di sopra di noi, che non è un Dio, ma è una spiritualità, una luce che ti spinge sempre più ad essere onesto con te stesso e ad agire nel giusto perché il corpo finisce quando giunge la morte, ma c'è qualcosa al di là del corpo fisico (Luisa).
    - Capisco che è più importante purificare se stessi. Cerco allora di analizzare tutte le forze negative per eliminarle. Il mio spirito sento si sta purificando di giorno in giorno ed attraverso la meditazione acquisto una felicità interna indescrivibile perché non è dipendente da niente di quello che mi è interno, è dentro di me, nell'amore e nella purezza che cerco di acquistare. Avendo una chiarezza d'azione, tutto diventerà armonico dentro di te, perché non avrai più forze che si respingono e acquisti armonia d'azione e conseguentemente forza d'azione in cui tutto quello che fai verrà benissimo (Laura).
    - L'incontro con Krishnamurti distrusse con amore tutti gli archetipi che con falso amore tenevamo rinserrati in fondo al cuore e dopo un po' ci ritrovammo così tutti nudi, spogli delle nostre illusioni... La pace che ora posso riuscire a provare è infinita e totale.
    - Dopo anni di politica, la carenza fondamentale era che non si viveva individualmente, si proiettava tutto sulle masse popolari... Allora siamo partiti, senza sapere assolutamente dove stavamo andando, con delle idee in testa che poi si sono dimostrate completamente sbagliate. Ognuno nella «storia dell'India» ci infilava tutto quello che non aveva, tutto quello che gli mancava qua doveva per forza essere in India (Silvano).
    - L'esperienza delle droghe, dell'India dei viaggi nasceva in me da una insoddisfazione totale, era un rifiuto e la ricerca di un'alternativa: cercavo una via alla totalità, insoddisfatto e frustrato dalle cose che facevo. In India ho incontrato Bana che mi ha liberato da molte mie sovrastrutture, mi ha insegnato un tipo di studio-esperienza diretta con la vita, attraverso un ricupero dell'istintualità, dell'intuito, della totalità, della vitalità.

    UN TENTATIVO DI INTERPRETAZIONE

    Questa raccolta di testimonianze non dia l'impressione di ascoltare soltanto chi in Oriente ci è stato ed ha sperimentato sul posto.
    In realtà, identiche sono le testimonianze anche di chi conosce l'Oriente solo perché è entrato in qualche movimento in Italia, o è attratto da un qualche interesse o curiosità. Abbiamo citato solo le impressioni più significative.
    Ora, da tutto questo insieme che può dare anche l'idea di caoticità e di contraddittorietà, ci pare si possa ricavare un quadro abbastanza preciso di che cosa ricercano giovani e meno giovani che negli anni Settanta sono stati affascinati in qualche modo dall'Oriente, o che cosa li spinge verso questo tipo di esperienze. Essi stessi si rendono conto della diversità delle motivazioni che li animano, tant'è vero che i loro viaggi li fanno rientrare o nella categoria del «viaggio mistico» o in quella dello «sballo», viaggio anarchico, senz'altre motivazioni apparenti se non la fuga di tutto ciò che è occidentale e forse anche la ricerca della droga. È necessario pertanto tener conto del contesto grandemente differenziato dell'interesse che in qualche modo si manifesta verso l'Oriente, rilevarne i vari livelli di significato presenti nelle esperienze di questo incontro.

    Le esigenze di nuovo e diverso

    Mi sembra però che al di sotto dei diversi tipi di esperienze, vi sia un terreno comune, che si esprime in una ricerca di diverso e che nasce da una insoddisfazione radicale. Donde nasca questa insoddisfazione, o vuoto interiore, lo vedremo in seguito. Cerchiamo ora di indicare alcuni motivi di base che spingono all'incontro con l'Oriente.
    Si possono esprimere in queste esigenze:
    - l'esigenza di un'antropologia diversa, di nuove categorie di analisi per la comprensione dell'umano, capaci di penetrare fino alle radici dell'umanità, attraverso cui si possa «risvegliare la coscienza originale», che non è di tipo intellettivo, ma intuitivo, che non è celebrazione del cervello, ma dell'intera persona;
    - all'esigenza di una «consapevolezza allargata» fa riscontro l'esigenza di interiorità, il bisogno di «riscoprire degli spazi interiori». Tutto ciò permette di «riappropriarsi di tutta una serie di sapori occidentali completamente alienati»;
    - la possibilità di trascendere i limiti egoici, di «disidentificarsi da un fittizio frammento di realtà per identificarsi con la totalità dell'esperienza», sia nel campo della consapevolezza, che come armonia con l'universo, col tutto. Ne segue che ci si scopre più interessati alla realtà, capaci di viverla con maggior partecipazione;
    - il bisogno di liberazione interiore, per ricuperare una interiorità repressa da mille condizionamenti;
    - l'esigenza della ritualità, la capacità di tradurre in «gesti» il nuovo rapporto con le persone e le cose;
    - il bisogno di tecniche precise che avviino alla riscoperta degli spazi interiori, soprattutto quelle meditative.
    Ripetiamo che svariati sono i livelli di esperienza che questo interesse ispira, e siamo d'accordo nel rilevare che queste caratteristiche non sono tipiche e comuni di ogni esperienza «orientale».
    Diciamo solo che le esperienze più significative rivelano nell'insieme questi tratti; che queste richieste o bisogni indirizzano verso l'incontro con l'Oriente sentito come potenzialmente aperto a soddisfare tali esigenze.

    Da una cultura della disgregazione alla ricerca di significato

    Da dove esse derivino, è questione ormai da anni al centro dell'interesse e della cultura.
    Senza voler riassumere gli studi fatti in proposito, ci pare che alcuni elementi debbano essere sottolineati.
    È l'angoscia (qualche sociologo ha parlato di «smarrimento») che deriva da un certo tipo di società (definita industriale-avanzata, o che altri interpretano come post-moderna) che, per cause strutturali, sociali, politiche e culturali, ha prodotto una certa «cultura della disgregazione». Tale cultura ha al negativo il rifiuto di ogni mito e illusione, vede la caduta delle ideologie e dei programmi a lungo termine, vede infrangersi le sicurezze o le rifiuta perché legate a istituzioni «borghesi», e al positivo si esprime nella celebrazione, come filosofia riflessa e come ideale di esistenza, del nichilismo, o della emarginazione elaborata come sistema di vita.
    Non mancano le cause immediate di questo disorientamento: «la crisi della scuola e della famiglia; la provvisorietà e precarietà del lavoro; il prolungamento dell'età adolescenziale e - all'opposto - l'inserimento precoce negli obblighi della vita adulta: è questa miscela esplosiva a determinare la crisi di identità che oggi investe gran parte delle nuove generazioni» (Borgna, I giovani, in Aa. Vv., Dal '68 ad oggi, Laterza 1979, pag. 409).
    Un vuoto di esistenza («gioventù votata alla morte» è stata definita) che è insieme perdita del senso della storia (rifiuto delle proprie origini, vivere l'immediato, il qui-ora, mancanza di un progetto), perdita di socialità (lo sradicamento e l'isolamento, l'allontanamento dai tradizionali canali di socializzazione), e perdita di identità.
    Per questo i giovani si sentono sempre più infelici, disperati.
    Non crediamo di ascoltare solo le voci angosciate che provengono dal mondo giovanile: ma crediamo che sia per riempire il vuoto esistenziale di cui parlavamo a che i giovani sono alla ricerca, talvolta seria, talvolta qualunquistica, di significati nuovi, dotati di senso per loro.
    Una ricerca che ha gli sbocchi più molteplici e disparati: che vanno dall'annientai mento (la «cultura della morte»), alla ricerca di significati totalizzanti: e tra questi pensiamo si possa collocare il fenomeno che abbiamo considerato, almeno ai suoi livelli di significatività più profondi, e se vissuto in una consapevolezza autentica.
    Harvey Cox nel suo La svolta ad Oriente cerca di individuare il vuoto personale che attende di essere riempito dalle discipline orientali, e di comprendere cosa esse veramente offrono, a quali domande danno una risposta; e rileva che le motivazioni di questa avventura riflettono il disagio culturale, i sintomi del malessere della civiltà occidentale, che si proiettano poi sui singoli, e a cui il neorientalismo cerca di porre rimedio. Essi sono lo sfaldamento della comunità umana, la mancanza di esperienza diretta in luogo dei concetti astratti, il bisogno di un'autorità. Il neorientalismo viene incontro a queste esigenze offrendo «sangha, dharma, guru», e cioè comunità amicali, l'insegnamento, un maestro.
    Alla perdita di identità sembra quindi far riscontro l'offerta di una consapevolezza allargata, di un'interiorità mai sperimentata prima, una specie di supercoscienza; alla perdita di socialità l'offerta di una comunità o un gruppo dalle caratteristiche ben definite che offre riparo, sicurezza, possibilità di rapporti diretti e non mediati; alla perdita di storia sembra venir incontro la relazione personale col maestro, un'autorità che non permette di perdere il senso del passato, e che orienta verso un progetto.

    I pericoli di un incauto accostamento

    Dicevamo che la «svolta ad Oriente» sembra offrire un rimedio a quello che Cox chiama il malanno della nostra civiltà, una specie di ritrovamento di una certa identità personale e sociale smarrita; sembra insomma rispondere alla domanda di significato più profondo della vita.
    Ma non è la risposta, l'unica possibile (di fatto altre si collocano allo stesso livello di offerta di senso), e non è priva di rischi e di pericoli.
    «I rimedi religiosi - afferma Cox - per i mali di una cultura assumono due forme fondamentali: possono cercare di agire sulle cause della malattia o tentano di fare in modo che la cultura continui a vivere nonostante la malattia, fornendole un piccolo mondo alternativo, abbastanza lontano dal grande mondo per evitarne i pericoli. I neo-orientali hanno scelto quasi tutti il secondo rimedio. L'unica soluzione che propongono agli altri è di andare a vivere insieme a loro nel loro piccolo mondo. Ma, se tutti lo facessero, il minimondo diventerebbe subito un maximondo, con tutti i problemi relativi. Non può dunque costituire una soluzione valevole per tutti. Riassumendo, possiamo dire che alcuni neo-orientali hanno trovato un rifugio contro l'impersonalità e il vuoto della società e - a loro dire - delle chiese. Hanno diagnosticato correttamente due dei mali più gravi della nostra epoca malata, ma il rimedio che propongono - anche se valido in qualche caso specifico e per un certo tempo - non è, a lungo andare, un rimedio per gli altri, per tutti noi» (pag. 117).
    Ci pare interessante sottolineare altri aspetti dell'ambiguità del fenomeno. L'accusa più grossa, che viene mossa soprattutto dalle correnti della nuova sinistra, è quello di «fuga dalla realtà»: non nel senso che tale sarebbe la ricerca interiore (qualsiasi aspetto della realtà, anche il più impegnato, può diventare fuga se usato per schermarsi dal rapporto con sé e con gli altri), ma in quello che porterebbe ad estraniarsi rispetto ad ogni progetto o impegno nel sociale. A questa accusa però viene ribattuto con forza che tale fuga è in realtà l'unico vero impegno possibile, quello di allargare ulteriormente il livello della coscienza e di iniziare la rivoluzione dal di dentro, mentre invece fuga diventa ogni altro impegno perché alienato, rassicurante, disarticolato, tale in cui ci si perde invece che ritrovarsi.
    Altre accuse sono quelle riguardanti le autentiche motivazioni che spingono a tali esperienze: se la ricerca interiore comporta molte volte il rischio del nuovo, dell'ignoto, l'abbandono di vecchie sicurezze e identificazioni, tal'altra può essere anche alibi per una ricerca di sicurezza, il che si risolve in fenomeno regressivo. Problematico è anche un certo modo di rapportarsi al maestro, al guru: talvolta può instaurarsi un sottile e inconscio rapporto di reciproco sfruttamento, e concludersi in una sottomissione non liberante e acritica. Vi è però da dire che vengono in genere messe in atto tecniche e stili atti a smantellare in continuazione gli aspetti autoritari del rapporto. Cosa che però non è sempre facile da attuare (gli esempi più caratteristici di questo genere di «dittatura spirituale» possono ritrovarsi nel caso del guru Maharaj-Ji della Divine Light Mission, di Rajneesh, di Trungpa).
    Un altro rischio è quello che si potrebbe definire «consumismo spirituale», o sperimentalismo, di chi attua una specie di turismo religioso, a caccia sempre di nuove dottrine, di nuove esperienze; il che è in genere collegato alla riduttiva semplificazione di ciò che l'Oriente offre: «Si tende in sostanza - afferma Bergonzi - a mettere in luce solo gli aspetti più gratificanti (libertà, gioia, spontaneità, ecc.), esorcizzando contemporaneamente tutti i lati «ombra» (sofferenza, paura, rischio) che pur sono passaggi obbligati lungo la via della liberazione, la quale - notano gli insegnanti più seri - non è né facile né indolore: essa comporta il coraggio di aprirsi all'ignoto, di confrontarsi con aree dolorose di sé, fatte di ombre e minacce; e comporta altresì pericoli mortali, fasi delicate in cui è possibile perdersi per sempre, «notti oscure dell'anima». È per questo che la retorica dell'ipersemplificazione ottimistica - oltreché superficiale - risulta pericolosa nella sua incoscienza» (pag. 206).
    Altri pericoli sono la fuga dal personale («il sopraggiungere di certi stati non-ordinari di coscienza, di certe intuizioni, di certe espansioni della consapevolezza
    e della sensibilità, non solo esercita un forte fascino, ma può addirittura indurre l'individuo a usare questi stati come schermo per non vedere altri aspetti - più scottanti e personali - del proprio mondo interiore», pag. 207); e la fuga nel personale, una specie di narcisismo in cui ci si perde nella propria immagine riflessa,
    invece che aprirsi alla visione di un transpersonale che attende. Infine il pericolo di usare le pratiche orientali come mere tecniche o strumenti di repressione e controllo delle energie interiori, come per disfarsi degli aspetti scomodi di sé e instaurare una falsa maschera di calma, disseccando in tal modo in sé ogni creatività e spontaneità.

    È una domanda religiosa?

    Un ultimo aspetto ci preme sottolineare. E lo poniamo sotto forma di domanda. È una domanda religiosa questo «bisogno di oriente»? Non mi pare che la risposta possa essere affermativa se essa si colloca sul piano specifico del trascendente,
    del «radicalmente altro».
    Ma lo può essere e lo può diventare in senso lato, se il «viaggio ad Oriente» è, come crediamo, risposta di senso a domanda di senso, offerta di una nuova qualità di vita a un vuoto di vita.
    La conclusione è di Cox. Al termine del suo «personale» viaggio ad Oriente, egli ha compreso quale vuoto spirituale questa esperienza vuole riempire. Ma la sua fondamentale ambiguità e astoricità lo porta a porre in questo modo la parola fine al suo viaggio: «La crisi spirituale dell'Occidente non si risolverà importando e religioni esotiche o salvando singoli individui, perché è la crisi di tutta la nostra civiltà, ed uno dei suoi sintomi più gravi sta appunto nel credere che la salvezza ci debba venire dagli altri. Riusciremo a risolvere la crisi solo quando l'Occidente rinuncerà ai miti dell'Oriente e ritornerà alle proprie tradizioni».

    Abbiamo utilizzato la seguente

    BIBLIOGRAFIA

    Cox Harvey, La svolta ad Oriente, Queriniana, Brescia 1978 (descrive una ricerca che si è trasformata in scoperta: è una brillante documentazione e una chiave di lettura del fenomeno delle nuove religioni).
    Bellah Robert, Il nuovo senso religioso e la crisi del moderno, in Aa. Vv., Vecchi e nuovi dei, Valentino, Torino 1976.
    Roszak Theodore, La nascita di una controcultura, Feltrinelli, Milano 1976 (è un classico: il tema fondamentale è quello dello studio dell'opposizione giovanile in America alla società tecnocratica).
    Bergonzi Mauro, Inchiesta sul nuovo misticismo, Laterza, Bari 1980 (un viaggio nel nuovo misticismo che mette radici sempre più profonde nella nostra cultura).
    Verni Piero - Cerquetti Giorgio, La valigia delle Indie, La Salamandra, Milano 1976 (è una raccolta di testimonianze).
    Aa. Vv., Dal '68 a oggi: come siamo e come eravamo, Laterza, Bari 1979 (soprattutto l'articolo di Gianni Borgna, I giovani).
    Swami Deva Majid, Alla ricerca del Dio perduto, SugarCo Edizioni, Milano 1979 (il racconto della «conversione» di Andrea Valcarenghi, il direttore di «Re Nudo», dal rosso politico all'arancione di Rajneesh).


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