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    L'«al di là» comincia nella vita


     

    Secondo Pastore

    (NPG 1983-03-10)

    L'ILLUSIONE COME FONDAMENTO?

    Molti cristiani si stanno chiedendo se sia possibile oggi rendere all'al di là il suo posto centrale nella fede. A Pasqua si dice loro che il Cristo Risorto è la chiave del futuro, è l'avvenire di Dio che irrompe nel presente della storia per trasformarla nel Regno.
    È facile e anche «culturalmente accettabile» limitarsi, più o meno consciamente, a cogliere l'incisività simbolica del discorso pasquale. Il messaggio di Gesù di Nazaret è così intensamente " umano " da superare la morte e il fallimento, da convincere i discepoli e mandarli nel mondo a predicare la pace e la riconciliazione. Il «mistero» che i Vangeli fanno intuire al di là della tomba vuota è ai limiti dell'impensabile: meglio limitarsi a considerarlo l'indizio di una umanità nuova che noi stessi dobbiamo forgiare, non sognando un altro mondo, ma trasformando questo con lo stesso coraggio del profeta di Nazaret.

    Al di là. È possibile crederci?

    Eppure... la fede non chiede anche di credere «sul serio» alla sopravvivenza, alla risurrezione della carne, all'incontro personale con il Dio vivo, al giudizio particolare e universale, al purgatorio, al paradiso e a una reale possibilità dell'inferno? Per molti cristiani queste verità sono relegate ai margini della fede, come dei dati tradizionali ai quali non si pensa o perché non «si può» o perché si ritengono di scarsa rilevanza per una vita concreta.
    Il cristiano che voglia oggi credere l'al di là deve quindi vincere diverse resistenze dentro e fuori di sé. La cultura di oggi non l'aiuta. La fisica scientifica ha distrutto la vecchia immagine dell'universo: risurrezione e al di là evocano un soprannaturalismo magico che genera scetticismo. L'uomo si vuole oggi programmatore di storia: l'al di là ricorda una «mistica dell'eternità» che fa sospettare l'alienazione da un compito positivo nel mondo. La critica psicologica al desiderio di immortalità favorisce un atteggiamento tra il rassegnato e il coraggioso nell'accettare i limiti di una vita puramente terrestre. Non aiutano poi certo a credere quei fedeli che pensano l'al di là in una maniera così fantastica, egoista o grossolana da potenziare i sospetti di una enorme mistificazione.
    Inoltre, per credere l'al di là, oggi non solo si deve attraversare l'estraneità culturale in cui si trova la speranza cristiana, ma si deve anche vincere una profonda stanchezza della fiducia nella vita, i cui orizzonti sembrano sempre più restringersi verso le preoccupazioni immediate del quotidiano.

    Domande serie e una risposta «eccedente»

    L'al di là sta perdendo veramente ogni presa sui nostri contemporanei, al punto da rendere il cristiano portatore di una speranza «straniera»? O l'uomo è ancora capace, almeno qualche volta nella vita, di porsi delle domande serie, che hanno a che far con il «tutto», con il mistero della vita personale e dell'umanità? In questo caso, fino a che punto l'uomo è disposto a non rassegnarsi troppo presto, a prolungare la ricerca, pronto a cogliere sulla linea delle risposte umane alla sua fiducia ogni eventuale «controutopia», ultima tra tutte la morte? Fino a che punto il cristiano poi è disposto a sviscerare il senso, la rilevanza umana, la significatività dei dati tradizionali sull'al di là, per verificare se lo fanno progredire in umanità senza illuderlo?
    La domanda seria fondamentale, per poco che esca dall'orizzonte della banalità quotidiana — non per sconfessarla, ma per trasformarla e aprirla al futuro — può essere la seguente: «Riuscirà l'uomo? Riuscirà l'umanità?». Riuscirà una storia personale in quello che ha di «più umano», ossia la capacità di amare? Riuscirà l'umanità a realizzare la pace, a sanare ogni conflitto, a riconciliare le differenze, nel rispetto delle diversità, a produrre nella libertà un'armonia tra persona e comunità, uomo e natura? E supponendo che l'uomo riesca un giorno a realizzarsi come veramente «umano», questa futura riuscita sarà sufficiente a dare senso a tutta la storia passata, a tutte le sofferenze umane, oppure ci si deve rassegnare a morire interamente, contenti di costituire la necropoli del futuro, una immensa piramide di morti?
    La speranza cristiana intende essere una «risposta» a questi interrogativi: concetti e immagini come regno di Dio, pace messianica, Gerusalemme celeste, risurrezione, cieli nuovi e terra nuova, prospettano appunto una situazione di integrità umana, di vita senza alienazioni, uno stato di libertà senza ingiustizie e senza lacrime. Non una possibilità, ma una certezza. Non un simbolo, ma una realtà.
    Certo, di fronte ai limiti che la fiducia umana si impone, la speranza cristiana fornisce una risposta «eccedente», «inaudita», che evoca il popolare: «Troppo bello per essere vero!». Rifà capolino la paura della proiezione illusoria che rischia di condurre l'uomo, magari per eccesso di onestà intellettuale, a dirsi che l'al di là non può esistere proprio perché noi lo desideriamo. Se è vero che il desiderio di un aldilà non rappresenta una prova a favore della sua esistenza, è però un errore logico pensare che l'al di là non possa verificarsi perché noi ne desideriamo l'esistenza. Di cosa si tratta? Forse di una strategia psicologica immunizzante contro ogni possibile delusione?
    Questa «paura di sperare» così caratteristica oggi, può aprire lo spazio a una autentica comprensione della speranza. Perché non pensare che proprio oggi, in clima di facile rassegnazione cautelativa, la speranza cristiana, cominciata con il gioioso e timoroso stupore del mattino di Pasqua, sia la buona novella in assoluto? Se, invece di presentarsi come il naturale prolungamento illusorio dei nostri desideri, si affacciasse al nostro orizzonte culturale come un compito, un rischio, una sfida con cui Dio continua a rivelarsi come creatore di storia, dilatatore degli orizzonti dell'umanità?
    Certo questo aspetto della speranza può essere colto solo a condizione che il pensiero dell'al di là, con la sua eccedenza di significato, diventi creatore di senso nella esperienza quotidiana, polarizzatore di vissuti personali e comunitari così intensi da rendere impensabile l'esito della storia come una caduta nel nulla. Riconciliare il pensiero dell'al di là con la creazione di un senso della storia umana è il compito affidato oggi ai cristiani.
    Il che significa in altri termini: «Come e cosa sperare? Come educarsi al vissuto speranza?».

    Come sperare.
    Forza e fragilità della speranza

    Se la speranza è vissuta come compito creativo di significato umano, già si pone in una situazione diversa da quella demistificata dalla psicanalisi.
    Un cristiano, per esempio, potrebbe non sentire alcun desiderio psicologico di sopravvivenza e accontentarsi di una speranza in Dio vissuta all'interno della storia, come è stata la speranza degli ebrei per la maggior parte dell'Antico Testamento. Sperare nell'al di là gli sembra quindi di altra natura. È un autentico dono di Dio, come la fede.
    Cesare Musatti, non credente, padre della psicanalisi italiana, in una intervista a Epoca del 22 gennaio 1982, si poneva il problema: «Come mai i teologi, i padri della Chiesa hanno collocato la speranza tra le virtù teologali? La speranza è il senso ottimistico della vita. Questa speranza collocata tra fede e carità deve avere il suo preciso significato». Non so se Musatti abbia già trovato la risposta. Per un cristiano non dovrebbe fare difficoltà. La speranza, dono di Dio, non necessariamente poggia sul «senso ottimistico della vita»: è piuttosto una fede che crea fiducia, anche dove non c'è; e il fondamento di questa fiducia è quella potenza di amore liberante che è Dio.
    Sperare una umanità guarita, redenta, riconciliata vuol dire sperare in una potenza capace di realizzare questo obiettivo. Il cristiano non esita a credere che la sola potenza capace di realizzare questa integrità totale nella libertà è l'Amore riconciliatore di Dio: non le «virtualità» della natura, né il potere politico, tecnico-scientifico o etico dell'uomo murato nella nella sua autonomia.
    La speranza «teologale» fruga così in quella ferita narcisistica dell'uomo contemporaneo che rifiuta l'al di là proprio perché suppone un intervento divino nel mondo umano. Sperare in Dio ferisce anche quel sottile orgoglio che sembra trasparire da chi si dice totalmente disinteressato nel porre dei gesti di amore in favore dell'uomo, senza ripromettersi nessuna ricompensa personale, facendo apparire la speranza cristiana «interessata». Qui non tratta di sperare innanzitutto per sé (anche se il cristiano non si vergogna di essere amato e di essere consolato), ma soprattutto di chiedersi: «Chi spera di più e meglio per il mondo? Chi si limita a credere nel potere dell'uomo o della natura o chi crede in Dio, come potenza liberante e riconciliatrice del futuro?».
    Un'altra resistenza contro la speranza cristiana proviene dal pensarla come una specie di sicurezza a prova di dubbio. In realtà la speranza, come la fede, vive e cresce nella sperimentazione umana, è una continua vittoria sul dubbio, è arrischiarsi fuori dal presente, dal conosciuto, dal programmato, per aprirsi al nuovo, all'inaudito, a un sovrappiù di essere da ricevere da un amore che si svela gratuitamente.
    Per capire il vissuto della speranza cristiana è inevitabile un riferimento all'esperienza di amore: l'amore, come la gioia, non si programma, ma si accoglie con la meraviglia che accompagna l'alba di giorni sempre nuovi, nella pazienza e nella fedeltà. Quello che rende «più umani» non è dominare il futuro, imprigionando il tempo in una inflessibile volontà di programmazione di uomini e cose, ma lasciare uno spazio per abbandonarsi alla fiducia, facendo leva sui segni fragili in cui si intuisce una pienezza di senso che mi potrà essere donata. Fragilità e forza della speranza che possiamo scoprire nell'esperienza umana di Dio in Gesù.

    DALLA VITA DI GESÙ UN MODELLO DI SPERANZA

    Gesù ci insegna come sperare l'al di là

    «Se Cristo non è risorto, allora è vana la nostra predicazione ed è vana la nostra fede» (1 Cor 15,14). Per afferrare la centralità del Cristo risorto, occorre ricollocare la Pasqua nella concreta vicenda della storia di Gesù, che è la stessa esperienza umana di Dio.
    Come ha sperato Dio nella coscienza umana di Gesù? Gesù spera alla maniera profetica, concretamente, una terra promessa. Mentre purifica le immaginazioni messianiche del suo tempo, inizia un mondo nuovo con dei gesti di perdono, di convivialità, di liberazione, di guarigione. Associa l'uomo nella corresponsabilità di gestire questa realtà «nuova» e lo stimola con una eccedenza di promessa verso il compimento perfetto del Regno di Dio definitivo.
    Ma Dio in Gesù assume anche in prima persona lo stato fragile e conflittuale della speranza. Porta il peso di tutto quello che la minaccia: la delusione, le passività obbligate, i conflitti generati dalla diversità dei progetti umani, il fallimento e infine la morte.
    Ma al culmine del fallimento umano, nell'esperienza dell'abbandono del Padre, Gesù raggiunge il punto più alto della speranza. Dopo aver dato appuntamento ai suoi oltre la morte nell'ultima cena, perdona sulla croce i nemici, il che equivale a credere a una possibilità di riconciliazione affidata al futuro del Padre; nelle sue mani infatti abbandona lo spirito, cioè il suo progetto di Regno. Proprio per aver vissuto fino in fondo (e senza «fingere») il punto «zero» e la tragicità della speranza, la risurrezione diventa, per l'esperienza umana di Dio, l'esplosione della meraviglia: Dio, la vita, l'amore vincono! La concentrazione di vita, di amore e di novità che è stata la storia di Gesù di Nazaret svela la sua energia più forte della morte. Secondo Gv 19,30 Gesù, già sulla croce, «emette lo Spirito», inaugura un modo nuovo di esistenza con delle possibilità che vanno al di là dei fenomeni di biologia umana o di fisiologia cellulare per avvicinarsi alla dimensione di vita di Dio stesso.
    Così Gesù ci insegna come sperare: lavorare e rischiare per il Regno, fidandoci del Padre che, al di là dei successi e insuccessi, ha il segreto di un mondo a misura degli uomini nuovi che il Vangelo genera nella storia.
    Gesù risorto, piccola fessura dell'al di là aperta sulla storia, riversa in essa l'energia creatrice di Dio, senza togliere l'ombra della croce, la fragilità e il rischio della speranza.

    Le radici dell'al di là. Appropriarsi dell'energia della risurrezione

    C'è un convertito che ha fatto un'esperienza travolgente del Cristo risorto: Paolo di Tarso. Dopo averlo incontrato sulla strada di Damasco come inaudita esperienza di libertà, ha buttato via come spazzatura tutte le sue vecchie sicurezze religiose: «E questo per poter conoscere lui, l'energia della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dei morti» 3,10-11).
    Per Paolo esistono due mondi: l'al di qua e l'al di là. La loro differenza però non passa nel «prima e dopo la morte», ma all'interno della vita stessa. C'è il mondo della morte, all'insegna dell'egoismo, del vecchio e del peccato, e il mondo della vita, sotto il segno del nuovo e dell'amore. Il mondo e l'uomo attuali sono diversi da come appaiono, perché sono travagliati dal di dentro da un compimento che è la storia dello spirito, grazie all'energia della nuova creazione, liberata a Pasqua, che crea vita attraverso tutti i fermenti di morte. Paolo sente che la figura di questo mondo «passa», anche se non è possibile proiettare delle figure precise dell'uomo nuovo. Chi vive dello spirito del Vangelo però è già nell'al di là: «Voi siete già come morti: la vostra vera vita è nascosta con Cristo in Dio. E quando Cristo, che è la vostra vita, sarà visibile a tutti, allora si vedrà anche la vostra gloria, insieme con la sua» (Col 3,3-4).
    Paolo non gioca con i simboli. Fisicizza i due mondi e ci pone il problema del «reale». Che cosa è veramente «reale» dal punto di vista della speranza di una umanità compiuta? Uno stiramento indefinito del tempo, senza la capacità di trasformarne a fondo il vissuto, oppure la lenta generazione dello spirito, inteso come un «uomo nuovo» capace di riconciliazione totale?
    Si potrebbe verificare il senso del reale in base alla capacità di percepire il nuovo, di cogliere l'al di là più sotto forma di simboli temporali che di immagini spaziali.
    È vero che anche il nuovo è svalutato da slogan politici e pubblicitari, ma resta pur sempre più adatto a cogliere il salto di qualità di essere, già all'interno della condizione attuale di esistenza.
    Anche Israele non ha capito cosa volesse dire sperare nella terra promessa fino a quando non ha elaborato il concetto di «cuore nuovo e spirito nuovo» (Ez 36,2627). Saranno i miti a possedere la terra, cioè degli uomini capaci di un patto definitivo di amicizia (Ger 31,31-33). L'al di là comincia sulla terra, grazie ai due cuori «nuovi» aperti alla giustizia, alla gratuità, al perdono, all'amicizia. Questa è l'autentica novità, per cui vale la pena sperare in un compimento futuro; questo è l'al di là di ogni potere umano. Questo è il «reale», mentre è morto, è passato, non ha futuro tutto quello che non è in funzione di una profonda riconciliazione tra uomo e uomo, persona e comunità, umanità e natura, Dio e storia.

    IMMAGINI DELL'UOMO NUOVO NELL'ESPERIENZA DELLO SPIRITO

    Lo Spirito che dà forma alla nostra speranza

    La riflessione sul reale, sul nuovo dovrebbe aiutarci a saldare la continuità tra la vera storia dell'uomo e l'al di là. Descrivere l'uomo nuovo dovrebbe essere come tratteggiare l'al di là, senza aver paura di mistificazioni nello spiegare il presente dell'esperienza con delle profezie sul futuro. È venuto il momento di chiederci: «Per sapere " come " sperare, non dovrò anche sapere "cosa" sperare? La mia speranza non sarà potenziata e purificata dal tentativo di intuire le cose da sperare?». Tanto più che la paura aprioristica di ogni proiezione rischia di provocare un cortocircuito nel meccanismo della speranza, chiudendo il presente nella sterile ripetizione del passato.
    Dato che l'intuizione dell'al di là si pone come problema estremamente delicato, lasciamo che Paolo ci aiuti: «È vero che siamo salvati, ma soltanto nella speranza. E se ciò che Si spera si vede, non c'è più speranza: evidentemente nessuno spera in ciò che già vede. Se invece speriamo in ciò che non vediamo ancora, lo aspettiamo con pazienza» (Rom 8,24-25).
    La speranza sarà dunque un dinamismo cieco, senza antenne? Parafrasando il seguito di Paolo, possiamo continuare: «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto della nostra debolezza, perché noi non sappiamo neppure come dobbiamo sperare, mentre lo Spirito stesso spera in Dio per noi, con sospiri che non si possono spiegare a parole. E Dio che conosce i nostri cuori, conosce anche le intenzioni dello Spirito che spera nei credenti come Dio vuole» (ib. 26-27).
    La speranza dunque non possiede un sapere sull'al di là. Lo Spirito però le conferisce delle «antenne», sotto forma di sospiri, di aspirazioni, di intuizioni.
    Non si tratta allora di cogliere l'intensità di questi sospiri in quelle proiezioni che noi chiamiamo giudizio, purgatorio, fine del mondo, paradiso, per estrarne tutta la pienezza di significato, e ricevendole come autentico compito di vita nuova donata dallo Spirito? Intanto lo Spirito inizia con il compiere un'opera purificatrice del desiderio. Purifica dalla pretesa di «sapere», dagli eccessi dell'immaginazione, dalla preoccupazione della salvezza individuale ed egoista, come proiezione fantastica di un narcisismo smisurato, dall'ossessione tragica del cielo mancato, ossia della dannazione. Fa pulizia insomma di ogni perversione e della proiezione in Dio delle nostre paure, avidità, risentimenti, aggressività. Lo Spirito evangelizza la nostra speranza.

    Le intuizioni dell'al di là come sospiro dell'uomo nuovo

    Lo Spirito dunque dà forma alla nostra speranza sfidando l'impensabile. Ci aiuta a cogliere gli sprazzi del definitivo, facendoli diventare significati vitali per realizzare l'al di là fin d'ora.
    Ci aiuta a vivere la morte in tutta la sua serietà, senza cedere alle false naturalizzazioni culturali, che cercano di permettere all'uomo di «finire in bellezza». Aiuta a capire l'uomo come il mistero di una vita, in cui la passività dell'essere amati si colloca tra le due grandi passività del nascere e del morire e apre quindi alla comprensione della morte come dell'estremo abbandonarsi della fiducia nell'amore.
    Lo Spirito trasforma l'immagine del giudizio, spogliandolo del clima di paura, dalle figure tribunalizie, dalla sua estrinsecità. Ci desta alla responsabilità e alla decisione, facendoci desiderare di strapparci al vaneggiamento dell'innocenza, per stabilire un rapporto corretto con la verità. Saremo noi a giudicarci alla luce del Vangelo. Pensare al giudizio è desiderare di essere finalmente veri! Nel giudizio quel Dio che «è più grande del nostro cuore» (I Gv 3,20), aiuta l'uomo a diventare se stesso, a riconoscersi, accettarsi, riconciliarsi con il suo passato, alla luce di un amore che ama anche quando si sbaglia. Il giudizio si qualifica non con l'antipatica immagine dell'essere pesato sulla bilancia, ma come l'ultima e definitiva remissione dei peccati, attraverso cui Dio ci ricrea, ci rigenera — a partire dalla nostra scelta storica — come libertà radicale, come pura capacità di amore.
    Lo Spirito ci fa cogliere il purgatorio come una dimensione interna del giudizio, ci fa paradossalmente desiderare quella gioiosa sofferenza purificatrice dovuta al pensiero di aver mancato l'amore e allo sforzo di allenarsi con una rifusione totale dell'essere sclerotizzato dall'egoismo, per potere essere interamente disponibili alla fraternità.
    Lo Spirito spoglia il pensiero dell'inferno da ogni carattere ossessivo e di ogni proiezione di aggressività. L'inferno non si commina agli altri; ognuno lo deve pensare come una sua personale possibilità di rifiuto, pur sull'orizzonte della volontà salvifica universale di Dio, per trovarvi degli spunti di meditazione sulla grandezza e sul rischio della libertà umana e sulle devastazioni terribili della mancanza di amore.
    Lo Spirito suscita in noi il desiderio della vita eterna come riconciliazione con Dio, come superamento della soggettività angosciante della pura autonomia umana e di quella più o meno latente aggressività verso Dio che colora il nostro rapporto ambivalente con lui. Il cielo sarà la ratificazione libéra e gioiosa della dipendenza dall'origine: un dialogo con la verità, la bellezza, il bene con un sì senza residui. E questo è il compimento della persona, non vista come semplice particella quantitativa di un insieme, ma come io-forza dialogico, generato nella storia con la sua originalità insostituibile.
    Lo Spirito ci spinge a desiderare il Regno come la riuscita di una fraternità veramente universale (al di là di una semplice sopravvivenza della specie, intesa in modo biologico-darwinistico), come un intreccio di esistenze diversissime finalmente riconciliate, dove si compia il rispetto, l'amore, la tenerezza, il desiderio che gli altri «siano fino in fondo».
    Lo Spirito ci fa cogliere il giudizio universale, senza perderci in immagini apocalittiche, come il desiderio profondo che sia fatta la verità sulla storia umana, che se ne rivelino le più profonde intenzionalità, che sia separato il bene dal male, così strettamente intrecciati, non solo nel cuore dell'uomo, ma anche nelle strutture culturali di esistenza.
    Lo Spirito ci fa proclamare la risurrezione dei morti, al di là di immagini fantastiche, come una verità profetica e provocatoria. Vi sarà una giustizia per i morti, questi grandi dimenticati dal pensiero evolutivo. Vi sarà la salvezza di ogni persona nella concretezza della sua vita storica vissuta nel corpo; anche il lavoro, l'amore, le gioie e le lacrime dell'uomo saranno rivelati nel loro senso più profondo ed entreranno a far parte dei cieli nuovi e della terra nuova, nella creazione veramente compiuta, in una coordinazione perfetta tra natura e amore.


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