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     Pagine di misericordia

    Con viscere di misericordia

     «Il marchese di Roccaverdina» 

    di Luigi Capuana

    Maria Rattà



    «Il marchese di Roccaverdina», capolavoro dello scrittore siciliano Luigi Capuana, consente di affrontare il tema della misericordia da molteplici prospettive: il peccato, l'invito alla conversione, il rimorso, il richiamo della coscienza a una giustizia che si concili con la misericordia, il rifiuto di Dio, con la catastrofe umana e spirituale che ne può derivare. In sintesi, tutto si potrebbe riallacciare al tema del "dubbio" di fede e alle conseguenti questioni "esistenziali": esiste davvero Dio? Il Paradiso va guadagnato con le opere buone? Si può comprare la salvezza? Sono argomenti fortemente presenti nell'opera e ben sviluppati dall'autore, nonostante il suo intento non sia (ovviamente) didattico o catechetico. Le ultime pagine del romanzo, in particolar modo, permettono di guardare l'opera anche da una prospettiva apparentemente insolita per un testo di questo genere, ma dal sapore squisitamente biblico e teologico: si può passare dall'amore carnale alla "misericordia viscerale"?

     

      UN AMORE VISCERALE: 
    DALLA PASSIONE ALLA COMPASSIONE

     roccaverdina big5
    Domenico Modugno e Marisa Belli interpretano Antonio e Agrippina
    nello sceneggiato Rai (1972) «Il marchese di Roccaverdina»  

    STORIA DI UNA PASSIONE FINITA IN TRAGEDIA

    La storia narrata da Capuana [1] è il racconto di una passione amorosa che capitola in tragedia [2]: Antonio, marchese di Roccaverdina, è innamorato di Agrippina Solmo, serva nel suo palazzo di Ràbbato.
    La ragazza, 
    nonostante gli appelli materni alla moralità e il richiamo della propria coscienza, cede alle avances del marchese, nutrendo una vera e propria venerazione per lui. Questi, però, stretto nella morsa delle convenzioni sociali e dell'orgoglio nobiliare, combina un matrimonio tra la giovane amante e il proprio uomo di fiducia, Rocco Criscione, a patto che le nozze non vengano consumate, per continuare così la sua liaison amorosa con la giovane domestica. I due accettano la strana clausola: Agrippina perché ricambia i sentimenti del marchese; Rocco, tanto per fedeltà al padrone quanto per la propria natura di donnaiolo, che non gli impedirà di consolarsi tra le braccia di altre donne. Ma presto i giovani sposi si ritrovano tacitamente a un passo dal cedere alla passione e anche a una strana forma di compassione (nutrita da Agrippina verso il legittimo consorte): il marchese - arso di gelosia per il cambiamento intravisto nei due - nel timore che accada l'irreparabile uccide Rocco, lasciando ricadere la colpa su Neli Casaccio, padre di famiglia. Agrippina, accusata dalla zia di Antonio, soffocata dalle chiacchere della gente e tormentata dall'indifferenza quasi odiosa che il marchese le riserva, convola a seconde nozze con un forestiero, allontanandosi così da un ambiente a lei ostile. Anche Antonio, nello sforzo di tacitare la voce della propria coscienza, prova a cambiar vita accettando di prendere in moglie Zòsima, sua vecchia fiamma ancora innamorata di lui.
    La marchesa si presenta al lettore come donna di buoni sentimenti, pia, devota, caritatevole verso i bisognosi e sempre intenta a invocare la misericordia divina finanche sui peccatori. In un primo momento si configura come l'esatto contrario di Agrippina: integerrima, di sani principi, totalmente accondiscendente al marito. L'epilogo del romanzo mostrerà però il vero volto sia del marchese che della sua consorte. Per Antonio, infatti, il rimorso e la paura di essere scoperto diventano un tarlo insopportabile, che non gli lascia tregua. Capuana intreccia inoltre nella storia una serie di elementi che contribuiscono a ingenerare
     maggiore confusione e inquietudine nel protagonista: la figura dell'avvocato Aquilante, simbolico rappresentante del paranormale, e che più volte afferma di vedere il defunto Rocco; il suicidio di Sante Di Mauro, che si impicca dopo aver perso la propria terra a causa dell'ingordigia di Antonio e viene scoperto - ormai cadavere - proprio dal protagonista; infine storie di fantasmi e di morti.
    I rimorsi e il mix tra fede, paura e occultismo diventeranno il chiodo fisso che porterà il protagonista al tentato suicidio e, infine, a un'improvvisa e mortale follia, dopo un percorso - lungo quanto tutto il romanzo, ma che affonda le radici anche nella parte non raccontata della sua vita - fatto di ansie, indecisioni, timori.

    Antonio è l'emblema dell'uomo combattuto dal dubbio di fede, ma anche e soprattutto dalla propria generale irrisolutezza generata dall'orgoglio: egli ha scelto di "non" scegliere, fermandosi all'opzione più conveniente al proprio ruolo di nobile, ma non riuscendo così a trovare la vera pace. Egli crede di sfuggire alla "pazzia" di sposare una serva dandola in sposa in un finto matrimonio; crede di vincere il pericolo di infangare il buon nome della famiglia non consegnandosi alla giustizia; pretende di salvarsi l'anima (ammesso che paradiso e inferno esistano!) senza pentimento, ma sperando di "acquistare" un'assoluzione dal Papa, non avendola ottenuta dal curato del paese.
    Anche Zòsima si rivelerà diversa dalla persona inizialmente tratteggiata dalla penna di Capuana. Scoprendo il misfatto del marito - capace di ammazzare per una "donnaccia" - il suo atteggiamento misericordioso e devoto non reggerà alla prova: l'orgoglio la condurrà istantaneamente dall'amore all'odio per il marito.  Agrippina, invece, avuta notizia della tragedia, accorrerà al capezzale del malato, sfidando quelle convezioni sociali che, tuttavia, finiranno ancora una volta per allontanarla dal suo "benefattore". Avrà parole di misericordia anche per quanti l'avevano osteggiata, causandone la separazione da Antonio.

    «Che castigo, Signore! Che castigo!», pronuncerà nell'ultimo capitolo del romanzo, e al ritmo di questo sommesso balbettio, che proromperà dalle sue labbra, si impenneranno drammaticamente le scene finali. Sarà un’impennata intensa e amara, in cui la miseria totale che devasta la vita del protagonista verrà percepita e descritta come la punizione per gli altrui e propri errori, come il castigo che avvinghia gli esseri umani - al pari di una piovra - attraverso i tentacoli del risentimento, dell’orgoglio, delle regole sociali e delle distorsioni della mente umana.
    Apparentemente tutto sembrerà concludersi senza offrire spazio alla speranza, ma proiettando l'idea di un destino invincibile che detta dispoticamente le sorti delle creature.

    LA MISERIA DELL’ALTRO: SPECCHIO DELLA PROPRIA CAPACITÀ DI “MISERICORDIARE”

    Capuana prospetta lo scenario di uno sconquasso interiore ed esteriore che coinvolge e sconvolge: dinanzi alla totale miseria di un uomo che perde il senno e ineluttabilmente va incontro alla morte, chi sarà ancora in grado di esercitare una misericordia umana o - addirittura - sovrumana (vale a dire al di là delle logiche puramente umane) nei suoi confronti?
    Il dramma della miseria si presenta dunque come il dramma della misericordia. Due drammi che percorrono l’intero romanzo, ma che nelle ultime pagine assumono una portata visibile, “sociale”, non più solo interrata nel privato del protagonista, ma cosa di dominio pubblico, tragedia che penetra violentemente nelle vite degli altri personaggi. Il narratore riesce con sottilissima abilità psicologica a descrivere quanto il calvario dell’altro costringa ciascuno a scegliere chi diventare o a mostrare chi realmente si è: Pilato che se ne lava le mani, il Cireneo che aiuta, il crocifissore che inchioda, la folla che plaude o compatisce.

    La fede senza le opere e le opere senza la fede

    Gelosia GermiPosta a confronto col dolore dell’altro e con le ferite dell'amor proprio, la pura e pia Zòsima si rivela donna dal cuore arido, orgoglioso, incapace finanche della semplice pietà cristiana verso il marito ridotto a una larva. Non può perdonare - dirà - perché è troppo grande l’offesa. Lascerà su due piedi casa, consorte e ricchezze, ancorata a un’idea sbagliata di misericordia verso se stessa, piuttosto che verso l’altro.
    Agrippina, al contrario della marchesa, sarà la donna compassionevole. Affronterà due giorni di estenuante viaggio pur di vedere Antonio, il suo «benefattore» (come ella lo chiamava, dandogli del «voscenza», anche nei momenti di maggiore intimità [3]). I suoi gesti, la sua dedizione, la sua capacità di perdonare - e, seppure a modo suo, anche quella di continuare ad amare - riusciranno a intenerire persino il cavalier Pergola (il cugino acquisito del marchese) che nella storia narrata da Capuana incarna il modello dell’ateo, derisore della fede che cede all’esteriorità dei riti religiosi solo credendosi in punto di morte, per poi tornare a beffeggiare Dio e i suoi ministri. In sintesi, anche Pergola è - come Antonio - l'uomo dell'incoerenza, in cui la religione sembra basarsi solo sull'atavica  e spesso inconscia  paura del tremendo giudizio di Dio. I sacramenti in articulo mortis sono per Pergola un "lasciapassare" per la salvezza, ma diventano anche l'emblema di un rapporto con il sacro vissuto in modo alterato, così come, d'altronde, anche Antonio è convinto di avere diritto alla salvezza, ma è scosso dalla presenza - per lui inquietante - di un grande Crocifisso che si trova nel proprio palazzo, dagli occhi di quel Volto della misericordia (ma anche di Giudice) che  lo scrutano inesorabilmente. Il rapporto tra Antonio e Pergola non è dunque marginale, anzi, assume grande spessore all'interno del romanzo: l'incoerenza del cugino avrebbe potuto essere, per il marchese, un motivo di riflessione sulla fede, e di superamento della dicotomia tra ragione e religione, ma - e Capuana lo delinea bene nel capitolo XXIII - Antonio non si lascia scuotere che per un momento, più per paura, che per sincero desiderio di cercare Dio.
    Nel marchese prevale la propria spavalderia, che fa dissolvere le inquietudini dell'animo come fumo al vento, al sorgere del nuovo giorno. I due personaggi, tuttavia, hanno un diverso modo di "prendere la vita": Pergola ha, in un certo senso, un proprio codice di comportamento "morale", che lo salvaguarda dalla follia del tormento interiore. Antonio invece - che ha una fede solo esteriore, di facciata - non solo non agisce in osservanza dei comandamenti (pur conoscendoli bene), ma non opera neppure in ascolto della propria coscienza e tantomeno nel rispetto della legge umana, come dimostrano il suo atto omicida, le sue menzogne, la sua idea di "ripagare" al delitto semplicemente benificando la vedova di Neli Casaccio o pretendendo l'assoluzione, senza mai ritenere di dover pagare un prezzo per il torto gratuitamente inflitto agli altri. La sua visione delle cose è quella di una "meritocrazia" fondata sull'apparenza, sul titolo nobiliare, sull'autogiustificazione. Il cugino Pergola, seppure nelle sue ipocrisie e nel suo ritorno all'ateismo dopo una conversione-lampo, è convinto che all'uomo non sia lecito fare tutto ciò che egli desidera. Così, alla domanda-affermazione del marchese: «Secondo voi, ognuno potrebbe commettere qualunque delitto e scialarsela, giacché non c'è inferno né paradiso», egli risponde: «C'è la legge, fin dove può; c'è la coscienza umana che ci dice: Non fare agli altri quel che non vuoi fatto a te stesso!» [4]. Una sentenza che, pur nella sua triste esclusione di Dio dal panorama terreno - un Dio ridotto a spauracchio per quanti credono di meritare il Paradiso con i loro retti comportamenti - riconosce comunque l'impossibilità dell'uomo di farsi arbitro assoluto della vita dell'altro.

    Ecco perché sembra quasi "logico" che, alla fine del romanzo, siano proprio la peccatrice e il miscredente a tratteggiare la misericordia in parole e opere. Non Zòsima o l'altrettanto credente zio di Antonio, vinti dall'orgoglio l'una e dalle regole sociali l'altro. Pergola e Agrippina, noncuranti dello «scandalo» rappresentato dalla presenza di lei al capezzale del moribondo, sapranno essere misericordiosi, nel senso più umano del termine, ma che rimanda alla capacità del cuore umano di com-patire: le opere concrete. Non è più scandaloso - sbotterà Pergola - che il marchese debba «morire come un cane, alle mani di gente prezzolata» [5]? Scandalo non è piuttosto l’atteggiamento dell’altra - la legittima moglie -, appartenente al genere di quelle che «si dicono cristiane! Si confessano e ingoiano particole!» [6], ma poi non sanno passare dalla fede ai fatti?
    Agrippina verrà così ammessa nel palazzo di Antonio e si prenderà cura di lui fino a quando non sarà allontanata, a un passo dalla fine, dallo zio del marchese, per evitare di infangare oltre il “buon nome” della famiglia.
    Ogni cosa sembrerà allora andare “come deve andare”, come «il destino aveva voluto» [7].

    LA RESPONSABILITÀ DELLA CONVERSIONE

    In realtà, in questo romanzo che si presenta come un «Delitto e castigo» all’italiana, non c’è veramente un “destino” segnato - un fato ineluttabile - nel senso classico del termine. Come d’altronde non vi è per nessuna vita umana, reale, in cui per ogni caduta può esserci conversione; per ogni peccato una misericordia umana e - soprattutto - divina; per ogni errore una riparazione, per ogni morte una rinascita. Se nell’opera di Capuana non si realizza il capovolgimento del male in bene e del peccato in conversione è perché il Dio misericordioso che fa nuove tutte le cose (cfr. Ap 21,5) non trova spazio nella storia dei personaggi principali se non nelle vesti di un giudice tremendo, mentre Egli - come giudice, ma giudice misericordioso - sembra albergare solo negli animi dei più semplici, di quegli apparenti sconfitti come don Silvio La Ciura - curato del paese -, o come mamma Grazia - la serva che ama il marchese come un figlio - e, ancora, come la vedova Mugnos - la suocera di Antonio, nobildonna decaduta capace di perdonare il marito nonostante il tracollo finanziario in cui aveva trascinato la famiglia -. Sono questi i personaggi che “umanizzano” la consapevolezza dell'abisso che separa la miseria umana dall'infinito amore di Dio, consapevolezza da cui nasce l'anelito al Signore misericordioso; sono questi gli uomini e le donne che sanno distinguere il bene dal male e che, pur cercando di farsi (ciascuno a modo proprio) apostoli di conversione, assistono impotenti e inascoltati ai disastri che solo i cuori induriti dal peccato, dal risentimento e dall’amor proprio, e i cuori deboli (che cedono al piacere effimero pur sapendo di peccare) sono capaci di produrre nella propria esistenza e in quella degli altri.In questi cuori, come in quello di Agrippina il peccato viene identificato con un destino segnato, e rende schiavi delle proprie passioni; in questi cuori, come quelli di Antonio e di Zòsima, la misericordia diventa solo una parola, di volta in volta declinabile a uso e consumo della propria coscienza, in una religione “fai da te” nella quale per ogni colpa personale ci sono un'autogiustificazione e un’autoassoluzione, ma non così avviene per le mancanze altrui.

    La grazia a buon mercato

    Sono proprio i cuori come quello del marchese e della marchesa a dimenticare più facilmente che Dio è pietoso, ma «non mercanteggia il suo perdono» [8], per dirla con le parole di don Don Silvio, parole pronunciate nella notte in cui vede piombare in casa propria il ricco e tormentato Antonio, uomo alla ricerca di un'assoluzione a buon mercato. In preda al rimorso e oppresso dal timore della giustizia divina, il marchese sfida la tramontana sferzante per trovare, in una confessione "segreta", non il riscatto morale e la rinascita spirituale, ma la tacitazione della propria coscienza e la rassicurazione della propria incolumità agli occhi di Dio e del mondo. Una confessione in cui l'inquietudine interiore non diventa il trampolino di lancio verso una vera conversione, perché convertirsi richiede di seppellire l'uomo vecchio e di rivestirsi di quello nuovo, a qualunque prezzo: anche a quello della riparazione delle colpe commesse e della perdita del prestigio agli occhi del mondo. Cose che Antonio non è disposto ad accettare, nel suo orgoglio nobiliare. Antonio vorrebbe risorgere senza prima accettare anche la "croce" della sofferenza, della riparazione [9]. Non a caso, infatti, nella notte della confessione, il marchese sente ancora su di sé gli occhi del grande Crocifisso che albergava nel mezzanino del suo palazzo. Sono occhi che lo terrorizzano, perché egli non comprende che Cristo stesso ha pagato il prezzo della redenzione umana, dando la vita anche per lui. Così, dinanzi all'impenitenza del peccatore, Don Silvio non può assolvere, tramutando, agli occhi di Antonio, la notte della rinascita nell'ossessione di essere pubblicamente scoperto e condannato. Capuana dedica un intero capitolo (il nono) all’incontro tra il sacerdote di Cristo e il marchese di Roccaverdina, tra l’uomo chiamato a concedere il perdono in nome di Dio e l’uomo che crede di poter comperare la salvezza in virtù del proprio nome. Sono forse tra le pagine più drammatiche - assieme alle ultime - di tutto il romanzo. E in un certo senso il capitolo IX e il XXIV sono infatti legati da un invisibile filo rosso. Perché, come don Silvio assiste impotente - e con profondo turbamento - allo squadernarsi della miseria umana, così anche Agrippina - seppure personaggio ben diverso dal curato - alla fine si presenta come una sorta di «sacerdotessa della pietà» [10]. Consapevole delle proprie colpe e di quelle del marchese, cosciente del castigo che viene a travolgerli, anche lei appare inerme dinanzi al rapidissimo peggioramento delle condizioni di salute di lui e disarmata da un uomo che non è più risvegliato dalla sua presenza amorevole. Ma nonostante tutto, ella conserva la sua capacità di offrire misericordia a quella creatura che non ha più nulla della bellezza di un tempo, proprio come don Silvio aveva continuato a sperare nel ravvedimento e nella conversione del peccatore ostinato, abbruttito dalla colpa e dalla presunzione.

    Dalla passione alla compassione: le viscere della misericordia

    Voluto o meno, l’effetto che l’autore riesce a produrre attraverso il contrasto tra l’umanità di Agrippina - una donna in un certo senso trasformata dalla vita e dai propri errori - e la “disumanizzazione” di Antonio è straordinariamente efficace, quasi dal sapore teologico, oltre che psicologico. In quell’uomo animalesco e poi inerme, sfigurato dalla follia, Agrippina sembra vedere non più l'amante, ma qualcun altro. Così che anche lei possa diventare “un’altra". Le sue ultime parole «Figlio! Figlio mio!» [11] fanno di lei non più la concubina e l’adultera, ma una madre. Questa nenia riecheggia per ben due volte, intervallata dal gesto di «baciare e ribaciare quelle mani che avevano ammazzato per gelosia di lei; e pareva» - s'inserisce qui il narratore con la sua descrizione - «che volesse lasciarvi tutta l'anima sua grata e orgogliosa di essere stata amata fino a quel punto» [12]. L'apparente contraddizione tra l'orgoglio di essere stata amata e la consapevolezza del peccato si superano proprio nel nuovo ruolo che la serva-amante ha finalmente assunto. Agrippina è ora è una madre che ama visceralmente la propria creatura e - proprio come una madre - vorrebbe lasciare la propria anima accanto al suo bambino, per non doverlo abbandonare nel momento del dolore estremo, ultimo, fatale. Come una madre, Agrippina è «grata» di quell'unico tipo di amore che lui è stato in grado di offrirle, pur riconoscendo gli sbagli commessi; proprio come una madre, ella prova ancora un amore appassionato, ma non più di quella passione sensuale che può condurre alla follia e incenerire la linea di confine tra bene e male, ma di quella che permette a una donna di sentire il proprio figlio "vivere" nel proprio grembo. È quella "passione" che rimanda - etimologicamente - al patire. Patire con l'altro, compatire.
    Capuana fa dunque di questa popolana l'assoluta protagonista dell'ultimo capitolo del romanzo, tracciando l'iter psicologico (e in un certo senso un abbozzo di quello spirituale) di una donna che ha colto a proprie spese, con grande dolore e probabilmente senza totale consapevolezza, l’essenza stessa dell’amore misericordioso di Dio, il cui «cuore freme di compassione» [13]. Pur non potendosi parlare, in senso stretto, di una vera conversione, nell'implorazione di Agrippina al "figlio" si può intravedere la sconfinata, inestinguibile e prorompente tenerezza di una misericordia viscerale, in cui finalmente lei - ignorante, peccatrice, oggetto di scandalo - riesce a condividere il dolore dell'altro nella propria carne, e a partorire una nuova visione dell'uomo tanto amato: amandolo nonostante il suo peccato, amandolo rimproverando la sua e la propria colpa. Amandolo, dunque, in modo nuovo (pur nella disfatta definitiva della loro storia) dopo aver rincorso per anni l’amore sbagliato, l'amore che non sazia e non disseta, l'amore sterile, l’amore incapace di generare vita.

    ANTOLOGIA DI BRANI DEL ROMANZO

    Proponiamo ai lettori un piccolo excursus tra le pagine del romanzo. Le citazioni sono estrapolate da Capuana, Il marchese di Roccaverdina, Istituto Geografico De Agostini, 1982. L'antologia è stata organizzata non secondo un criterio di semplice progressione cronologica degli eventi, bensì analizzando, di volta in volta, i singoli personaggi, per delinearne in maniera più chiara la complessa trama psicologica. Infine, una piccola parte antologica è stata dedicata al tema generale della misericordia riscontrabile nell'opera.

    IL MARCHESE ANTONIO

    Roldano Lupi Gelosia 1942
    Il marchese di Roccaverdina nell'interpretazione di Roldano Lupi (1942)

    Il dio denaro uccide la misericordia

    «Ah!... Mi ero scordato che voi eravate qui per l'affare di Margitello. Insomma, che dobbiamo concludere? Vogliamo fare alla buona, tra noi, senza periti né altro?... Cinquant'onze!».
    «Che dice mai, voscenza?», rispose il vecchio contadino rimasto presso l'uscio.
    «Sessanta?»
    «È il meglio pezzo di terreno, eccellenza; il cuore di Margitello.»
    «Più sassi che terra. Dovrò pagarlo a peso d'oro?»
    «Quel che vale, eccellenza.»
    «Oh! Se intendete di prendermi per la gola...»
    «No, eccellenza!»
    «Sentiamo dunque: che pretendete?»
    Il vecchio stette un po' a riflettere, portò la mano destra al petto, quasi si accingesse a pronunziare un giuramento, e balbettò: «Cent'onze, eccellenza!».
    Il marchese diè uno scatto. Il marchese continuò a gridare come un ossesso: «Cent'onze!... Volete scommettere che non vi faccio più andare nel vostro feudo?... Lo stimate certamente un feudo, se ne chiedete cent'onze... Chiudo tutti i sentieri; litigheremo... Intanto dovrete andarvi col pallone nel gran feudo di cent'onze!... Avrei dovuto fare così da un pezzo. Domani! Manderò a disfare con un aratro sentieri e viottole. E chi crede di avere diritti, procuri di farli valere!».
    «Ma, ccellenza!...»
    «Zitto, compare Santi!», disse l'avvocato. «Lasciate che parli io...»
    «Cent'onze!», sbraitava il marchese.
    «E se facessi un taglio?», propose l'avvocato.
    Il vecchio assentì con un gesto e soggiunse: «Fate come vi pare! Sono venuto qui ad afforcarmi; coi miei propri piedi ci sono venuto! Il signor marchese Non dovrebbe approfittarsi delle circostanze... Dio non vuole!».
    «Zitto!... Settant'onze!», buttò là in mezzo don Aquilante. E fece il gesto, quasi aprisse il pugno pieno di monete e le spargesse per terra. Il vecchio abbassò il capo, si prese il mento tra l'indice e il pollice d'una mano; poi, rassegnatamente alzò le spalle.
    «Andiamo dal notaio, eccellenza!», conchiuse con un fil di voce.
    (Cap. 2, pp.. 16-17)

    Egli, marchese di Roccaverdina, godeva forse delle ricchezze ereditate? I suoi massai, i suoi fittaiuoli godevano meglio di lui. Da più di dieci anni si era ridotto un selvaggio, schivando il commercio delle persone, arrozzendosi, chiuso in quella spelonca d'onde usciva soltanto per fare quattro passi su la spianata del Castello, o per vivere in campagna, tra contadini che lo temevano e non gli volevano bene perché li trattava peggio di schiavi, senza trovar mai una buona parola per essi. (Cap. VII, p. 47)

    Si può comprare la salvezza?

    Il tema della salvezza a buon mercato è centrale per comprendere la personalità del marchese di Roccaverdina e il suo rapporto con la fede, con Dio, con gli uomini. L’argomento è sviluppato in vari capitoli del romanzo, emergendo da pensieri e parole di Antonio, ma è soprattutto nel nono capitolo che balza in maniera evidente - e per la prima volta - agli occhi del lettore. Ecco perché tale capitolo viene riportato quasi integralmente. Interessante è anche il simbolismo della tempesta, che non solo diviene simbolo del tormento interiore del protagonista e della lotta tra bene e male, ma richiama anche la “tormentata” passione provata per Agrippina. Inoltre il capitolo consente di delineare la figura di don Silvio La Ciura e di comprendere il dramma spirituale del ministro di Dio che non può assolvere colui che gli si presenta senza nutrire un vero pentimento. È il “dramma” – per così dire – di Dio stesso, che non impone la misericordia, ma la offre all’uomo.

     Gelosia2
    Antonio e don Silvio in una scena del film "Gelosia" del 1942,
    diretto da F. M. Poggioli.
    © Studio Bibliografico - Stampe antiche Sergio Trippini 

    Quella sera sembrava che i venti di levante e di tramontana si fossero dati la posta a Ràbbato per una sfida di gara; e soffiavano, fischiavano, stridevano, urlavano, strisciando lungo i muri delle case, scotendo le imposte, sconvolgendo le tegole sui tetti, azzuffandosi agli svolti delle cantonate, pei vicoli, nelle piazze con gridi rabbiosi, con ululi prolungati, ora vicini, ora lontani, che davano i brividi al povero prete.
    Ai ripetuti assalti, l'imposta poco solida del balconcino della sua cameretta avea minacciato di cedere, di spalancarsi, di lasciar invadere la casa da quel che sembrava un nemico assediante, inasprito sempre più della resistenza che trovava. Don Silvio, interrompendo la recita dell'ufficio, era stato costretto a puntellarla con un pezzo di tavola e con una stanghetta. Ma quantunque rassicurato, si arrestava spesso a metà d'un versetto di salmo, e si sentiva diventare piccino piccino a quegli ululi, a quegli impeti fischianti che facevano fin tintinnare, a intervalli, la piccola campana del vicino monastero di Santa Colomba, o buttavano, di tratto in tratto, sul selciato della via qualche tegola o qualche vaso da fiori che vi si fracassavano con pauroso rumore. Tutti gli usci delle stanze si agitavano e i vetri delle finestre e del balconcino trabalzavano, e sul tetto era un continuo acciottolio di tegole, quasi vi spasseggiasse a salti un grosso animale. Don Silvio levava gli occhi dal breviario, tendeva le mani giunte alla Madonna Addolorata appesa al capezzale del lettino, invocandola, o si rivolgeva al Crocifisso di ottone che aveva davanti sul tavolino: «Sia fatta la vostra santa volontà, Signore! Abbiate pietà di noi, Signore!». E si sarebbe detto che i venti, indispettiti di quella preghiera, assalissero allora con maggior violenza la casetta, e urlassero con più forza dietro la porta, dietro le finestre e il balconcino. Per ciò don Silvio rimaneva un po' incerto se quei colpi che gli era parso di udire alla porta di casa provenissero dal rabbioso furore del vento o da qualche persona che veniva a chiedere per un moribondo la sua opera spirituale. Di là, la vecchia sua sorella lo chiamava: «Silvio! Silvio! Non senti? Picchiano». Scesi con un lume in mano gli scalini di gesso della scaletta, egli avea domandato da dietro la porta: «Chi siete? Che volete?».
    «Aprite, don Silvio! Sono io.»
    «Oh, signor marchese!», egli esclamò stupito, riconoscendolo alla voce. E posato il lume su uno scalino, toglieva la stanghetta di sorbo che sbarrava trasversalmente la porta di entrata. Una folata di vento spense il lume.
    «Lasciate fare a me», disse il marchese, richiudendo subito la porta e puntellandola forte con una mano, mentre con l'altra cercava tastoni la stanghetta che don Silvio aveva appoggiato in un angolo. «Ho i cerini», soggiunse, dopo di averla rimessa trasversalmente a posto, introducendone i capi nelle due buche laterali che dovevano tenerla fissa. E riaccese il lume. «Signor marchese! Che accade?... A quest'ora?... Con questo inferno scatenato?»
    Alto, robusto, con la cappotta di panno scuro il cui cappuccio gli nascondeva metà della faccia, il marchese di Roccaverdina sembrava un gigante di fronte al magro corpicino del prete. «Permettete», disse il marchese sbarazzandosi della cappotta che buttò su la seggiola più vicina.
    Il marchese si passò più volte le mani su la faccia, si tolse di capo il berretto di martora, posandolo su la cappotta; poi, quasi facesse uno sforzo, disse: «Voglio confessarmi!». E scorgendo l'occhiata di stupore di don Silvio, soggiunse: «Ho anche fretta».
    «Eccomi», rispose il prete. «Un momento, e vengo subito.»
    Andò di là, rassicurò sua sorella mezza cieca e malaticcia, senza dirle chi fosse venuto a trovarlo, e tornando nella cameretta chiudeva dietro a sé gli usci delle altre poche stanze. Il marchese era rimasto in piedi, e l'ombra della sua persona proiettata dal lume si disegnava nera e ingrandita su la parete bianca, ingombrandola con la larghezza delle spalle e del torace, toccando la volta del soffitto con la testa attorno a cui si sparpagliavano, enormi come tentacoli di polipo, i ciuffi di capelli che egli aveva arruffati con rapido atto delle dita irrequiete. Don Silvio intanto, cavata dalla cassetta del tavolino una stola di stoffa scura con due crocette di gallone di argento nelle estremità, se la passava dietro il collo, facendone ricadere i lembi sul petto. Tolse dal tavolino il lume, posandolo per terra nella stanza accanto, vicino all'uscio, in modo che la cameretta restasse in penombra; e sedutosi su la seggiola davanti al tavolino e fattosi il segno della croce, ripeté: «Eccomi!», invitando nello stesso tempo, col gesto, il marchese a inginocchiarsi.
    Il marchese esitò un istante. Volgendosi inquieto verso il balconcino contro cui il vento faceva impeto, tendeva l'orecchio all'urlo selvaggio che, imboccato il vicolo, passava rapidamente oltre, seguito da altri ululi, da altri fischi, da altri stridi quasi umani che passavano pure rapidamente oltre in sinistra rincorsa, lasciandosi dietro un intervallo di morto silenzio più sinistro di loro. Così, durante uno di questi intervalli, egli poté udire benissimo le gravi parole che il confessore gli rivolgeva a bassa voce, dopo di averlo aiutato a recitare il confiteor. «Dimenticate ora la mia povera persona e il misero luogo dove vi trovate. Al cospetto di quel Dio che vi legge nel cuore, e che è Padre di misericordia e di perdono, confessate umilmente le vostre debolezze, i vostri falli, giacché la sua santa grazia vi ha spinto a questo atto per la vostra eterna salute.» La voce di don Silvio aveva preso un accento solenne; e il marchese che, quantunque ginocchioni, si trovava con la fronte all'altezza della testa del prete sorretta da un braccio appoggiato al tavolino, rimase stupito della severa dignità di quel viso pallido, emaciato dai digiuni e dalle penitenze, che nelle circostanze ordinarie aveva un'umile espressione di sorridente dolcezza e di bontà quasi femminile. Per vincere quest'impressione che lo aveva assai turbato, il marchese aspettò che il vento riprendesse a soffiare e a urlare; e giusto nel momento in cui parve che esso volesse trascinar via nella sua furia tutte le case del vicolo, balbettò: «Padre, ho ammazzato io Rocco Criscione!».
    «Voi! Voi!», esclamò don Silvio con voce tremante, sollevandosi a metà da sedere, tanto gli era sembrato enorme quel che aveva udito.
    «Meritava di essere ammazzato!», soggiunse il marchese.
    «Dunque non siete pentito del fallo, figlio mio!», esclamò il prete riprendendo alquanto la sua calma.
    «Sono qui, ai piedi vostri, per ottenere il perdono.»
    «E avete permesso», riprese quegli severamente, «che l'umana giustizia condannasse un innocente?»
    «L'accusa non è venuta da parte mia.»
    «Voi però non avete fatto niente per impedire quest'infamia!»
    «È colpa dei giurati e dei giudici, se lo han condannato a torto, quasi senza prove.» «E perché, perché avete ammazzato Rocco Criscione?»
    «Se lo meritava!»
    «Chi vi ha dato il diritto di farvi arbitro della vita e della morte d'una creatura di Dio?» «Giacché Dio lo ha permesso...»
    «Oh! Non bestemmiate a questa maniera per scusarvi e giustificarvi.»
    «Il Signore ci toglie il senno in certe circostanze.»
    «Quando meritiamo tale castigo!»
    «Ero pazzo, forse... certamente... in quella terribile notte!»
    «Ma dopo? Non avete riflettuto, non avete sentito rimorsi?»
    «Oh, padre! Che giornate e che nottate per lunghi mesi!»
    «Ebbene; era la voce di Dio che vi premeva, vi consigliava, vi chiamava...»
    «E sono venuto!... Lasciatemi parlare; non mi togliete con la vostra severità la forza di dirvi tutto. Aiutatemi anzi, siate misericorde!»
    «Dite, dite, figliuolo mio! Vi assisteranno la Beata Vergine e i santi da voi invocati col confiteor.»
    Ah! Perché il vento taceva in quel momento? Il marchese aveva paura della sua stessa voce, davanti a quel sant'uomo, nella penombra della nuda cameretta. Ma già egli aveva pronunciato le fatali parole: «Ho ammazzato io Rocco Criscione!». Quel segreto, da cui era stato torturato tanti e tanti mesi, gli era finalmente sfuggito di bocca! Ed ora egli sentiva bisogno, più che di accusarsi, di difendersi, di scolparsi anche! Dopo che la giustizia umana non poteva più colpirlo, si sentiva oppresso dal terrore della giustizia divina. Gli sguardi semispenti di quel gran Crocifisso lo inseguivano fin là, dal mezzanino; e ora, quasi le avesse sotto gli occhi, egli vedeva agitarsi quelle livide labbra che gli era parso volessero pronunziare la parola: Assassino! E gridarla forte perché tutti la udissero e tutti apprendessero!
    Invano egli aveva tentato di persuadersi che tutto questo era opera della sua immaginazione esaltata. I sentimenti religiosi con i quali era stato educato dalla madre, attutiti dall'età, dai casi della vita, dalla poca frequenza con cui li aveva praticati specialmente in questi ultimi anni, suscitati quel giorno dalla vivissima impressione dell'inattesa vista del Crocifisso, gli erano rifioriti, da una settimana, nel cuore con la stessa semplicità, con la stessa sincerità di quand'era fanciullo. Egli vi aveva opposto, sì, una specie di resistenza, quasi per istinto di conservazione, di difesa personale; ma quella notte, nello sconvolgimento della natura, il suo coraggio, il suo orgoglio avevano vacillato, avevano ceduto. Ed era uscito di casa, spinto pure dalla certezza che nessuno, durante la tempesta scatenatasi su Ràbbato, lo avrebbe visto entrare dal prete, nessuno avrebbe potuto sospettare niente dell'atto ch'egli andava a compire. Per questo non era umile davanti al confessore, per questo si ostinava a ripetere: «Se lo meritava!», parlando dell'ucciso. Visto che il marchese intendeva di diffondersi nella narrazione, e comprendendo che avrebbe sofferto stando lungamente in ginocchio, don Silvio lo interruppe: «Per le facoltà accordatemi, vi dispenso di continuare a confessarvi ginocchioni. Sedete; potrete parlare più liberamente».
    Il marchese obbedì grato di quel che gli pareva un giusto riguardo alla sua persona; e riprese:
    «Mia zia diceva bene: non dovevo sposare quella donna, per l'onore della nostra famiglia dove non è mai avvenuto nessun incrociamento con sangue basso... Ma io non sapevo staccarmene. Convivevo da quasi dieci anni con lei...».
    «In peccato mortale», suggerì il prete.
    «Come tanti altri», replicò il marchese. «La società non è un convento di frati che hanno fatto voto di castità. La carne ha le sue imposizioni; e i pregiudizi sociali sono talvolta più potenti delle stesse leggi umane e divine. Ho fatto male, come tanti altri; non mi accorgevo di far male. Eppure volevo impedirmi di arrivare fino all'eccesso paventato da mia zia e dagli altri miei parenti. Ci sarei arrivato più tardi, se non avessi preso la risoluzione... Fu un patto, fra noi tre. Una sera, chiamai Rocco e gli dissi: "Devi sposare Agrippina Solmo...". Contavo su la devozione di lui, su la sua fedeltà. Rispose: "Come vuole voscenza". "Dovrai però essere suo marito soltanto di nome!..." Non esitò; rispose: "Come vuole voscenza". "Giuralo!" Giurò... Poteva rifiutarsi...»
    «Ma è stato un gran sacrilegio!», esclamò il prete.
    «Allora, chiamai lei. Ero sicuro della sua risposta. Per quasi dieci anni, l'avevo vista davanti a me umile, obbediente come una schiava, senza ambizioni di sorta alcuna. Questo formava la sua forza, il suo potere sul mio cuore. Le dissi: "Devi sposare Rocco!..." Mi guardò supplicante, ma rispose anche lei: "Come vuole voscenza!". "Sarai però sua moglie soltanto di nome, per l'occhio della gente; giuralo!" E giurò... Poteva rifiutarsi...»
    «È stato un gran sacrilegio! Al concubinato avete sostituito l'adulterio!», lo interruppe con accento di grande tristezza don Silvio.
    «Non dovevo, non potevo sposarla io, e la volevo sempre mia. Non badai ad altro. Nel mio cuore c'era allora una tempesta assai più tremenda di questa che sconvolge l'aria fuori... Voi siete un santo... non potete intendere...» Le parole gli morirono su le labbra. I due venti in contrasto riprendevano in quell'istante i loro ululati, i loro stridi; urtavano alle imposte, strisciavano lungo i muri, pel vicolo, come una masnada in rivolta, inseguentisi, e la campanella di Santa Colomba tintinnava, quasi annunziasse lamentosamente un prossimo disastro. «Avrei voluto subito prevedere che esponevo quei due a un gran cimento!», continuò il marchese coprendosi il viso con le mani. «Ma la provata devozione di Rocco mi affidava; ma la gratitudine e l'affezione, non meno provate, di essa mi affidavano ancora più! E l'ostacolo apparente metteva un sapore nuovo nella mia vita; non godevo di altro! Per compensare Rocco del suo sacrificio, gli lasciavo mano libera. A Margitello, a Casalicchio, a Poggiogrande, il padrone era lui. Spendeva e spandeva con le donne; tanto meglio. Mi pareva rassicurante segno di fedeltà al giuramento. A lei avevo regalato, in dote, anche quella casa vicino a casa mia. Essa veniva da me tutti i giorni, con la scusa di aiutare nelle faccende mamma Grazia, che non ha mai sospettato niente, e che la soffriva malvolentieri. E davanti a tutti, io conservavo con gran scrupolo le apparenze. Mi son divagato con questo giuoco... fino all'istante che cominciò a infiltrarmisi nell'animo il bieco sospetto. Per quali indizi? Non saprei dirlo precisamente. Perdei la pace. Ella se n'accorse subito; e il suo contegno più non fu schietto e sincero come prima. Ah, che fiera trafittura pel mio cuore! La gelosia mi faceva spalancare gli occhi su ogni minimo atto di Rocco e di lei, ma mi dava insieme forza di dissimulare. Ora egli non correva più dietro alle donne. Aveva perseguitato con le sue insistenze la bella moglie di Neli Casaccio... Poi, si era chetato; lo ha confermato pure essa, nella sua deposizione davanti al giudice istruttore... Perché? Come mai?... Avrei dovuto prevederlo!... Erano sposi davanti alla Chiesa e alla legge; erano giovani e costretti a vivere nella stessa casa, a vedersi quasi tutti i giorni... Ma... non avevano accettato il patto? Non avevano giurato? Se si fossero presentati a me e mi avessero confessato: "Non vogliamo, non possiamo più!" io... non so che cosa avrei risposto, che cosa avrei fatto. Avrei perdonato forse, li avrei sciolti dal giuramento... Invece...» «E della legge di Dio non vi ricordate mai?»
    «Voi siete un santo; non potete intendere! Ella giunse fino a non nascondermi che colui le faceva pena; fino a pretendere che le apparenze fossero conservate anche davanti a lui!... Me la sentivo sfuggire di mano; perdevo la testa pensando all'infame tradimento che quei due mi avevano fatto o stavano per farmi. Ingrati! Spergiuri! Dissimulavo tuttavia. Volevo essere certo... O tutta mia, o né mia né di altri! Pensiero fisso che mi ribolliva nel cervello, e mi offuscava la ragione... E quando mi parve di non poter più dubitare... È avvenuto così!... L'ho ammazzato per questo!... Se lo meritava!» E la durezza dell'accento con cui il marchese aveva pronunziato queste ultime parole vibrò in quell'intervallo di calma come uno scoppio di frusta e parve riempire la cameretta. Pallidissimo, con la testa china, gli occhi socchiusi pieno di terrore e di compassione, il prete aveva ascoltato il penitente, quasi dimenticando la sua funzione di confessore. Quella gran miseria umana, di cui egli ignorava i bassi avvolgimenti e le angosce, gli faceva stillare dalle palpebre cocenti gocce di lagrime che gli cascavano su una mano. Mai, da confessore, gli era accaduto un caso che avesse avuto almeno qualche lontana somiglianza con questo. E quel che più gli stringeva il cuore non era tanto il delitto confessato, quanto lo stato d'animo di colui che sembrava non avesse una chiara idea del gran sacramento di penitenza a cui era venuto a ricorrere. Mentre il marchese parlava, egli levava la mente a Dio, pregando per la contrizione del peccatore, invocando lumi perché i suoi consigli giungessero a serenare quell'anima sconvolta e rabbuiata. «Prostratevi di nuovo davanti a Dio», disse con voce lenta.
    Il marchese si lasciò cascare pesantemente sui ginocchi, affranto; e si coprì un'altra volta la faccia con le mani convulse.
    «Dio perdona soltanto a chi è pentito, a chi è pronto a riparare il male commesso. Sentite voi un profondo sentimento di contrizione dell'assassinio commesso e dei gravi peccati che lo hanno preceduto e preparato?»
    «Sì, padre», rispose il marchese.
    «Siete voi pronto a riparare i danni prodotti alla persona e alla reputazione altrui, unica positiva assicurazione del vostro pentimento?»
    «Sì, padre!... Se è possibile», quegli aggiunse esitando.
    «C'è un innocente che soffre per colpa vostra. Bisogna giustificarlo, salvarlo.»
    «In che modo?»
    «Nel modo più semplice e più diretto.»
    «Non capisco...»
    «Egli sconta immeritatamente una pena che avrebbe dovuto ricadere sul vostro capo...» «Aiuterò, soccorrerò sua moglie e i suoi figli, in ogni maniera...»
    «Non basta.»
    «Che altro potrei fare?»
    «Liberarlo, prendendo il suo posto. Soltanto a questo patto...»
    «Padre, imponetemi qualunque gran penitenza...»
    «Questo vi dice il Signore per bocca del suo umile ministro; ne dipendono la vostra pace in questa vita, la vostra salvezza eterna nell'altra.»
    «Ho sentito dire che c'è un mezzo di riscatto dei peccati, beneficando chiese, istituzioni religiose, opere pie...»
    «Dio non mercanteggia il suo perdono. Egli che vi ha concesso la ricchezza può togliervela in un momento, se vuole. È stato immensamente misericordioso ispirandovi di accorrere al suo santo tribunale.»
    «Dovrei disonorare il nome dei Roccaverdina?»
    «Un misero orgoglio vi fa parlare così. Badate! Dio è giusto, ma inesorabile! Egli saprà vendicare l'innocente. Le sue vie sono infinite.»
    Il marchese abbassò il capo e non rispose.
    «Pentirsi, quando il male da noi fatto è irreparabile, basta alla misericordia del Signore. Ma se la riparazione è possibile, urgentissima, il pentimento non vale niente. Io non potrei alzare la mano in nome di Dio ed assolvervi. Qualunque più grave penitenza sapessi imporvi sarebbe insufficiente, irrisoria. Riflettete bene!»
    «Rifletterò!», disse il marchese con cupa irritazione nella voce.
    «Badate intanto; io vi ho rivelato la mia colpa sotto il sigillo della confessione. Voi non potete denunciarmi alla giustizia...»
    «Denunciarvi? Che vi passa pel capo? Pensate piuttosto che in questo momento voi rifiutate la grazia del Signore...»
    «Assolvetemi!... Farò penitenza!», supplicò il marchese.
    «Riparerò in qualunque altro modo! Tutto si compensa nel mondo!»
    «Sentite?», rispose il confessore. «Dio ci parla anche coi venti, coi terremoti, con la fame, con la peste, e ci palesa l'ira sua e ci ammonisce...»
    «Tornerò un'altra volta!» E il marchese si rizzò in piedi.
    «Il Signore vi aiuti!», esclamò il prete.
    E mentre il marchese si rimetteva in testa il berretto di martora e indossava la cappotta, egli andò a riprendere il lume; e su quel viso pallido ed emaciato riapparve l'abituale dolce sorriso di bontà quasi femminile.
    «Voi non potrete denunciarmi!», replicò il marchese. E sembrava minacciasse.
    «Ho dimenticato», rispose don Silvio. «Ah, signor marchese! Ah, signor marchese!» (Cap IX, pp. 47-66)

    Visto che il confessore si era rifiutato di assolverlo, perché non si sarebbe rivolto a chi sta più in su di qualunque confessore, a chi ha piena facoltà di sciogliere da tutti i peccati, al Papa in persona? Il Papa è Dio in terra. Col pretesto di un viaggio nel continente, egli sarebbe andato a Roma per buttarsi ai piedi di Sua Santità. – Doveva fondare un altare con messa perpetua? Dotare un orfanotrofio? Regalare un calice di oro con brillanti a San Pietro? – Purché il nome e l'onore dei marchesi di Roccaverdina non fosse macchiato!... Oh! Pio IX avrebbe capito subito le buone intenzioni di lui; non era povero di mente come don Silvio! E si era addormentato in ginocchio davanti a Pio IX che alzava la mano per assolverlo. Così si rimetteva alla solita vita con vivissima eccitazione di occuparsi, di stordirsi, quasi le energie del suo organismo volessero prendersi la rivincita dell'inerzia in cui le aveva lasciate per tanti mesi.
    (Cap. X, p. 68)

    Pensava soltanto che la giustizia umana si era legate le mani da sé, condannando Neli Casaccio; e che la giustizia divina doveva essere, in parte, già appagata dalla confessione spontaneamente e sinceramente fatta un'ora fa. Se il confessore non avea voluto imporgli una penitenza, se si era rifiutato di assolverlo, non era colpa sua. Forse, scegliendo un altro sacerdote... Si era lusingato che don Silvio La Ciura, tenuto per santo dal popolino – gli attribuivano anche parecchi miracoli – avesse dovuto giudicare meglio di tutti le circostanze per le quali un marchese di Roccaverdina era potuto diventare assassino. E spogliandosi per andare a letto, esaminava freddamente il suo stato d'animo di quei giorni. Se Dio intanto aveva permesso che costui fosse condannato, voleva dire probabilmente che gli pesava addosso qualche altro grave delitto rimasto occulto. (Cap. X, pp. 67-68)

    Sotto lo sguardo del Misericordioso o del Giudice?

    Si arrestò con un senso di puerile paura, appena passata la soglia dell'altra stanza. La stessa angosciosa impressione di una volta, di molti e molti anni addietro! Allora aveva otto o nove anni. Ma allora il lenzuolo che avvolgeva il corpo di Cristo in croce, di grandezza naturale, appeso alla parete di sinistra, non era ridotto a brandelli dalle tignuole; e non si affacciavano dagli strappi quasi intera la testa coronata di spine e inchinata su una spalla, né le mani rattrappite, né i ginocchi piegati e sanguinolenti, né i piedi sovrapposti e squarciati dal grosso chiodo che li configgeva nel legno. La vista di quel corpo umano, che il lenzuolo modellava avvolgendolo, lo aveva talmente impaurito da bambino, ch'egli si era aggrappato al nonno, al marchese grande, da cui era stato condotto là, ora non si rammentava più perché; e i suoi strilli avevano fatto accorrere mamma Grazia e la marchesa nuova non ancora assalita dalla paralisi. Il nonno aveva tentato di convincerlo che quello era Gesù Crocifisso, e che non ne doveva aver paura; ed era salito sulla cassapanca sottostante per togliere gli spilli dal lenzuolo e fargli vedere il Signore messo in croce dai Giudei, del quale la mamma gli aveva raccontato la storia della passione e morte, un venerdì santo, prima di farlo assistere nella chiesa di Sant'Isidoro alla sacra cerimonia della Deposizione. Anche quella volta egli aveva strillato dalla paura, come altri bimbi suoi pari; e mamma Grazia era stata costretta a portarlo via in collo facendosi largo a stento tra la folla delle donne accalcate nella chiesa quasi buia, e singhiozzanti e piangenti, mentre un prete picchiava con un martello sul legno della croce per sconficcare i chiodi del Crocifisso, e una tromba squillava così malinconicamente che sembrava piangesse anch'essa. Questi ricordi gli eran passati, come un baleno, davanti agli occhi della mente; e intanto la paura di bambino si riproduceva in lui ugualmente intensa, anzi raddoppiata dalla circostanza che il vecchio lenzuolo, ridotto in brandelli, rendeva più terrificante quella figura di grandezza naturale, che sembrava lo guardasse con gli occhi semispenti e volesse muovere le livide labbra contratte dalla suprema convulsione dell'agonia. Quanti minuti non aveva avuto forza e coraggio d'inoltrarsi né di tornare addietro? Quando poté vincersi e dominarsi, aveva le mani diacce e il cuore che gli batteva forte. E non riusciva a formarsi un'esatta idea del tempo trascorso. S'impose però, facendosi violenza, di fissare il Crocifisso, anzi di accostarsi ad esso. E soltanto dopo che si sentì un po' tranquillo, uscì dallo stanzone, indugiò un istante nell'altro, e chiuse l'uscio a chiave. Ma nel salire le scale gli sembrava che quegli occhi semispenti continuassero a guardarlo a traverso la spessezza dei muri, e che quelle livide labbra contratte dalla suprema convulsione dell'agonia si agitassero, forse, per gridargli dietro qualche terribile parola! (Cap. VIII, pp. 55-56)

    Soltanto allorché, allo stesso modo, egli rivedeva il gran Crocifisso che lo guardava, lo guardava con gli occhi velati dallo spasimo dell'agonia, agitando le labbra tumide e pavonazze per pronunziare parole che non prendevano suono, soltanto allora egli si sentiva rimescolare da terrore quasi puerile, e chiamava subito: «Mamma Grazia!». In quel momento voleva qualcuno che gli stesse vicino e lo aiutasse a vincere quell'impressione. Mamma Grazia accorreva. «Che vuoi, figlio mio?» Ed egli la intratteneva con un pretesto qualunque, fino a che la interna visione non si affievoliva, non si scancellava e non lo lasciava di nuovo tranquillo. (Cap. XI, p.74)

    Crisà filmAntonio davanti al Crocifisso nel film del 1953

    Ospite incomodo quel Crocifisso che, di tanto in tanto, pareva si svegliasse per turbare con la sua importuna visione la coscienza del marchese! Egli non avrebbe dovuto badargli più, dopo che il cugino Pergola gli aveva sbarazzato il cervello di tutte le superstizioni dei preti. Intanto, che cosa poteva farci? la figura di quel Cristo agonizzante su la croce, abbandonato laggiù nello stanzone del mezzanino, con la testa, le mani e le ginocchia fuori dai brandelli del lenzuolo roso dalle tignuole, come egli lo aveva inattesamente visto quel giorno... che cosa poteva farci?... quella figura gli dava un senso di inquietudine, di malessere ogni volta che gli invadeva l'immaginazione. E meno male se, col fantasma di essa, altri ed ugualmente tetri, non gli si fossero ripresentati davanti, altri che egli già credeva scacciati lontano e da parecchio tempo! E così ora ecco Rocco Criscione, a cavallo della mula, nell'oscurità, tra le siepi di fichi d'India di Margitello, che veniva avanti, canticchiando sotto voce – gli era rimasto nell'orecchio! – Quannu passu di ccà, passu cantannu e non aveva avuto tempo di dire: Gesù! Maria!... con quella palla ben assestata che gli avea fracassato la testa! E il tonfo del corpo!... E lo scalpito della mula che fuggiva spaventata!... E il gran silenzio nell'oscurità, terribile, seguito allo scoppio della fucilata!... E così, ora ecco Neli Casaccio che dal gabbione delle Assise, alzando la mano destra e piangendo, gridava: «Sono innocente! Sono innocente!». E tanto forte, che il suo giuramento sembrava si trasformasse in urlo, in quegli urli del vento, la nottata della confessione, e ch'egli assumesse le sembianze di don Silvio, pallido, con la stola, e inesorabile: «Bisogna riparare il mal fatto! Ah, marchese!». Nervi! Immaginazione esaltata!... Se lo ripeteva cento volte, n'era persuasissimo. Ma che cosa poteva farci? «Ho un gran Crocifisso. Ve lo regalo per la vostra chiesa, padre Anastasio. E farete la processione trasportandolo da casa mia.» L'idea gli era balenata in mente tutt'a un tratto. Il marchese si stupiva di non averci pensato prima.
    «Quando il Crocifisso non sarà più laggiù nel mezzanino, col lenzuolo roso dalle tignuole», egli rifletteva, «i miei nervi rimarranno certamente tranquilli, e tutto il resto si cheterà anch'esso. Che diamine!». (Cap. XIV, pp. 100-102)

    Il marchese avea dovuto andare dalla zia baronessa per trovarsi colà con la famiglia Mugnos che voleva assistere da un terrazzino al passaggio della processione. Dovette affacciarsi anche lui. Nervoso, irrequieto, rispondeva spesso fuori tono alle domande della zia e della signora Mugnos. Si affacciava, rientrava, tornava ad affacciarsi; e la processione sfilava, sfilava, interminabile, tra la folla enorme. Si attendeva di riceverne un'impressione violenta e avrebbe voluto evitarla. Invece, alla luce diffusa, nello spazio della via, il suo Crocifisso gli parve rimpicciolito di proporzioni e meno doloroso di aspetto. Egli stentava a persuadersi che fosse proprio quello stesso che laggiù, alla parete del mezzanino, gli era sembrato quasi colossale e così terrificante con quegli occhi semispenti e quelle sanguinolenti piaghe che spuntavano dagli strappi del lenzuolo! Intanto, padre Anastasio se lo portava via, in coda alla processione, a dispetto dei canonici di Sant'Isidoro... Solo don Silvio non avea voluto mancare, e, confuso coi più umili, con la corona di spine in testa, a piedi scalzi, si sbatteva forte la disciplina su le magrissime spalle. E quel giorno, a quella vista, il marchese si confermò nel sospetto che don Silvio avesse suggerito al prevosto le parole: «Vi dava noia in casa Gesù Crocifisso?». Non intendeva di ripetergliele in quel momento col prender parte, lui solo della parrocchia di Sant'Isidoro, alla processione promossa da padre Anastasio? Il marchese aggrottò le sopracciglia e si ritrasse indietro. Quando la via tornò deserta e silenziosa, traversata soltanto da qualche povera donna che infilava frettolosamente un vicolo per arrivare in tempo alla chiesa di Sant'Antonio e ricevere la benedizione dal Crocifisso nuovo, come dicevano, quantunque fosse vecchissimo di qualche centinaio di anni, il marchese era già tranquillo, col gran sollievo della liberazione finalmente ottenuta, che gli traspariva dagli sguardi e da tutto l'aspetto. (Cap. XV, pp.104-105)

    Crocifisso53

    Una mattina aveva dovuto scendere, con Titta e un falegname, nei mezzanini per vedere se certe vecchie tavole ammonticchiate nella prima stanza fossero ancora adoperabili. Vi era sceso calmo, senza nessun timore che il ricordo del Crocifisso regalato alla chiesa del convento di Sant'Antonio potesse turbarlo. Ed era risalito su più sconvolto che se gli fosse accaduto di ritrovare di nuovo al suo posto la sanguinante figura inchiodata su la gran croce nera e avvolta nel lenzuolo sbrandellato. Su la parete ingiallita dal tempo, lo spazio coperto dalla croce e dal Cristo avvolto nel lenzuolo aveva conservato intatto il colore primitivo, e la impronta dei tre bracci della croce e del corpo del Cristo era rimasta così netta, così precisa, da sembrare segnata a contorni sul giallo della parete da l'abile mano di un pittore che non aveva potuto svilupparla e dipingerla. Il marchese si era poi dato piena spiegazione del fatto; ma l'impressione improvvisa era stata così forte che egli aveva potuto vincerla a stento durante la giornata. (Cap. XX, pp. 140-141)

    Il peccato, la coscienza, il rimorso

    Incontrandolo, è vero, il sant'uomo lo salutava umilmente, al suo solito, con quel soave sorriso che gli illuminava il volto pallido e scarno. Il saluto: «Buon giorno, marchese!», «Servo suo, marchese!», aveva però, o gli sembrava, la stessa intonazione delle ultime sue parole in quella notte, miste di compianto e di rimprovero: «Ho dimenticato!... Ah, signor marchese! Ah, signor marchese!». Ma la convinzione che i confessori, per speciale grazia divina, non potessero rivelare i peccati dei penitenti, lo rassicurava. Infine, che prove avrebbe potuto dare don Silvio? La sola sua affermazione non era sufficiente!(Cap. XI, p. 74)

    Quel lutto di tutto il paese lo irritava. Lo irritava anche il pensiero della morte, che ora gli ronzava alla mente con insolita vivacità e strana insistenza. Gli sembrava che qualcuno gli sussurrasse dentro il cervello: «Oggi a me, domani a te!». E quel qualcuno, a poco a poco, prendeva le sembianze di don Silvio. Avrebbe voluto esser sordo per non udire le campane di tutte le chiese che suonavano a mortorio, tacevano un po', riprendevano a suonare! Sarebbe scappato per Margitello, se non avesse riflettuto che le avrebbe udite ugualmente e più incupite dalla distanza. Eppure non si sentiva ancora rassicurato! Volle vedere il trasporto dalla terrazza davanti al Casino. (Cap. XVI, pp. 115)

    Il passato? Bisognava annullarlo dentro di sé, poiché non si poteva più fare che quel che era avvenuto non fosse avvenuto. Riparare, fin dove era possibile, sì; ma non scoraggiarsi, non avvilirsi, non disperare; e, soprattutto, prendere il mondo qual è, fare come gli altri. «Dio... se c'è... C'è!... Dev'esservi!...», soggiunse. «Dio sarà certamente più misericordioso degli uomini. Egli solo può valutare con esattezza le nostre azioni, egli che può leggerci nell'intimo anche meglio di noi stessi. Sappiamo forse, spesso, perché ci siamo risoluti ad agire in una maniera piuttosto che in un'altra? Siamo fragili steli che il vento fa piegare di qua o di là secondo la parte da cui soffia...» (Cap. XXIV, pp. 178-179)

    Il marchese era ricaduto in quello stato di intermittenza di pensiero da cui si era destato un istante poco prima; solamente gli risuonavano negli orecchi fioche, quasi indistinte, la parole del cugino: «A quegli insinua: ammazza! A questi insinua: ammazza!». Sì! Sì! Il diavolo gliel'aveva soffiata, ohimè! un'intera settimana la terribile parola... Ed egli aveva ammazzato!... Così, dopo, il diavolo aveva suggerito a compare Santi Dimauro: «Impiccati! Impiccati!». E quegli si era impiccato!... Non si sarebbe dunque mai sbarazzato di questi incubi? Non dormiva, come diceva in quel punto don Aquilante. E dormiva poco da parecchie settimane, nel letto, a fianco della marchesa; giacché non poteva dirsi sonno quel chiudere gli occhi per qualche quarto d'ora e destarsi di soprassalto col terrore che ella, accorgendosene, gli domandasse: che cosa avete? C'era già una incessante interrogazione negli occhi di lei, in quella chiusa rassegnazione, in quelle brevi risposte, che sembravano insignificanti e che significavano tanto, quantunque egli fingesse di non prestarvi attenzione.(Cap. XXX, p. 221)

    E riprendeva a pensare al progettato viaggio in Roma, per farsi assolvere dal papa. Nel dubbio, non era meglio mettersi in salvo? (Cap. XI, p. 79)

    Il cugino diceva benissimo: «Il paradiso è quaggiù, se sappiamo godercelo!». E, ora, il marchese voleva goderselo, largamente; convinto ormai che appena morti si è morti per sempre. Non se ne sa niente di certo, per lo meno; e poteva darsi, in ogni caso, che nel mondo di là fossero più di manica larga dei confessori di quaggiù. (Cap. XII, p. 83)

    Autogiustificarsi

    In quanto a Neli Casaccio... Soccorrendone sotto mano, per mezzo di mamma Grazia, la famiglia, il marchese si era già messo l'animo in pace. (Cap. XII, p. 83)

    Un'inesorabile lucidità di coscienza lo faceva irrompere contro se stesso: «Eh? Ti sarebbe piaciuto che Dio non esistesse! Ti sarebbe piaciuto che l'anima non fosse immortale! Hai tolto la vita a una creatura umana, hai fatto morire in carcere un innocente, e volevi goderti in pace la vita quasi non avessi operato niente di male! Ma lo hai visto: c'è stato sempre qualcuno che ha tenuto sveglio in fondo al tuo cuore il rimorso, non ostante tutto quel che tu hai fatto per turarti gli orecchi e non sentirne la voce. E questo qualcuno non si arresterà, non si stancherà, finché tu non abbia pagato il tuo debito, finché tu non abbia espiato anche quaggiù!...». Parlava e aveva paura della sua voce, che gli sembrava la voce di un altro; parlava e abbassava la testa, quasi quel qualcuno gli giganteggiasse di fronte, senza forma, senza nome, simile a un terribile misterioso fantasma, facendogli sentire la stessa prepotente forza da cui, la notte che il vento urlava per le vie, era stato trascinato in casa di don Silvio per confessarsi e sgravarsi la coscienza dell'orrido incubo che l'opprimeva. Ed ora, che doveva egli fare? Accusarsi, come gli aveva imposto don Silvio? Gli sembrava inutile ormai. Neli Casaccio era morto in carcere. Nessuno, all'infuori di lui, pensava più a Rocco Criscione! Che doveva egli fare? Andare a buttarsi ai piè del papa per ottenere l'assoluzione, per farsi imporre una penitenza? Oh! Non poteva più vivere così... E tornava ad irrompere contro se stesso: «L'orgoglio ti acceca!... Non vuoi macchiare il nome dei Roccaverdina!... Dei Maluomini! Ah! Ah! E vorresti continuare ad ingannare il mondo, come hai ingannato la giustizia umana!... Hai scacciato di casa tua il Cristo, che t'importunava col rimprovero della sua presenza!... Ed ecco dove ora ti trovi! Egli, sì, egli ti è stato addosso, non ti ha dato tregua... E ti perseguiterà, fino all'estremo, e smaschererà la tua ipocrisia, inesorabilmente!... Che potrai tu contro di lui?». Con un manrovescio fece volar via dal tavolino quei libri che più non riuscivano a convincerlo, e già gli sembravano balorda mistificazione; e stette a lungo, con la testa tra le mani, con gli occhi sbarrati, guardando verso il letto, dov'egli aveva dormito, facendo brutti sogni, la notte avanti e dove non avrebbe più potuto trovar sonno fino a che non avesse ottenuto, espiando, la divina grazia del perdono! Si stupiva di vedersi ridotto in questo stato, come travolto da un turbine improvviso. Gli sembrava che il tempo fosse trascorso con incredibile celerità, e ch'egli fosse, in poche ore, invecchiato di vent'anni. Eppure niente era mutato attorno a lui. Ogni oggetto della sua stanza era al posto di prima, li scorreva con gli occhi, li numerava... No, niente era mutato. Egli soltanto era diventato un altro. Perché? Perché? Suo cugino, sentendosi in pericolo di morte, aveva rinnegato le sue convinzioni? Che doveva importargli di lui? E non poteva essere stata una debolezza piuttosto fisica che intellettuale? Raccolto da terra uno dei volumi, sfogliò parecchie pagine, si rimise a leggere, irritandosi di non ritrovare in quei ragionamenti l'evidenza persuasiva e convincente che lo aveva prima turbato un po' e poi consolato e confortato, facendogli vedere il mondo e la vita sotto un aspetto positivo, affatto nuovo per lui. Forza e materia, nient'altro... E le cose che scaturivano per propria virtù dal seno della materia cosmica, dall'atomo all'uomo, via via con lunga serie di lente evoluzioni... E gli organismi che si perfezionavano per continuo e interminabile movimento, dalla coesione minerale alla germinazione vegetativa, dalla sensazione all'istinto e alla ragione umana... E tutto senza soprannaturale, senza miracoli, senza Dio!... La materia che si disgregava assumeva nuove forme, sviluppava nuove forze... Ah! Si era lasciato convincere facilmente, perché gli accomodava di credere che le cose andassero così! E non era mai rimasto proprio convinto. No! No! Come espiare? Era inutile illudersi; doveva espiare! Gli sembrava impossibile che quella parola fosse potuta uscire dalla sua bocca. Ma si sentiva vinto; non ne poteva più! La sua volontà, il suo orgoglio, la sua fierezza erano cascati giù tutt'a un tratto, come vele abbattute da un tremendo colpo di vento. C'era, da un pezzo, dentro di lui qualcosa che lavorava a logorarlo, se n'era già accorto... Aveva tentato di opporvisi, di contrastarlo... Non era riuscito!... Bisognava espiare! Bisognava espiare! Il silenzio gli faceva paura. Un gatto cominciò a lamentarsi nella via con voce quasi umana ora di bambino piangente, ora di uomo ferito a morte; e il lamento si allontanava, si avvicinava, elevandosi, abbassandosi di tono, prolungatamente; grido di malaugurio, sembrava al marchese, quantunque lo sapesse richiamo di amore. Non poté fare a meno di stare in ascolto, distraendosi, o piuttosto confondendo con quel grido l'intima voce che gli si lamentava nel cuore, mentre gli sfilavano quasi davanti agli occhi a intervalli o confusamente Rocco Criscione, Agrippina Solmo, don Silvio La Ciura, Zòsima, Neli Casaccio, dolorose figure di vittime sacrificate alla sua gelosia, al suo orgoglio, alla sua impenitenza. Rocco, bruno, con neri capelli folti, con occhi nerissimi, penetranti, con impeto di virilità che scattava nella parola e nei gesti, eppure devoto a lui, altero di sentirsi chiamare Rocco del marchese, e in atto di ripetergli le parole di quel giorno. «Come vuole voscenza!». Agrippina Solmo, chiusa nella mantellina di panno scuro, che andava via singhiozzando, ma con un cupo rimprovero, quasi minaccia, nello sguardo. Don Silvio La Ciura, steso sul cataletto, col naso affilato, con gli occhi affondati nelle occhiaie illividite dalla morte, la bocca sigillata per sempre, come egli si era rallegrato di vederlo, davanti a la cancellata del Casino, tra la folla. Zòsima, con quella bianchezza smorta, con quel sorriso di tristezza rassegnata, che non osava ancora credere alla sua prossima felicità, con quel diffidente «Ormai!» su le labbra, che in quel punto gli sembrava profetico: «Ormai! Ormai!...». Come avrebbe potuto avere il coraggio di associarla alla sua vita, ora che egli si sentiva alla mercé di una vindice forza, avverso alla quale non poteva nulla?... No, no! Doveva espiare, solo solo, non procurarsi un nuovo rimorso travolgendo quella buona creatura nella inevitabile ruina! Inevitabile!... Non sapeva da che parte, né da parte di chi, né come, né quando; ma non poteva più dubitare che una parola rivelatrice sarebbe pronunciata, che un castigo gli sarebbe piombato addosso presto o tardi, se non si fosse volontariamente imposta una penitenza, un'espiazione, fino a che non si sentisse purificato e perdonato. Don Silvio gli aveva detto: «Badate! Dio è giusto, ma inesorabile! Egli saprà vendicare l'innocente. Le sue vie sono infinite!». E con l'accento di queste parole gli risuonava nell'orecchio anche il ricordo del vento che scoteva le imposte della cameretta, e passava e ripassava via pel vicolo, urlando e fischiando. Non osava più alzarsi dalla seggiola, con la strana sensazione che la sua camera fosse diventata una prigione murata da ogni parte, dove lo avrebbero lasciato morire di terrore e di sfinimento, com'era morto Neli Casaccio, immeritatamente, in scambio di lui. Si era lusingato di sfuggire alla giustizia umana e alla divina, dopo che i giurati avevano emesso il loro verdetto; dopo che don Silvio era stato reso muto prima dal suo dovere di confessore, poi dalla morte; dopo ch'egli si era illuso di essersi sbarazzato di Dio, della vita futura e di avere acquistato la pace con le dottrine e con l'esempio del cugino Pergola... E, tutt'a un tratto!... O aveva sognato?... O continuava a sognare a occhi aperti? Sentì il primo cinguettio dei passeri sui tetti, vide infiltrarsi a traverso gli scuri mal chiusi del balcone il chiarore dell'aurora, e gli parve di destarsi davvero da un orribile sogno. Spalancò l'imposta, respirò a larghi polmoni la frescura mattutina, e sentì invadersi da un dolce senso di benessere di mano in mano che la luce del giorno aumentava. I passeri saltellavano, si inseguivano sui tetti, cinguettando allegramente; le rondini gorgheggiavano su la grondaia, dove avevano appesi i loro nidi; pel vicolo, per le case riprendeva il rumore, l'affaccendamento della vita ordinaria. E il sole, che già dorava la cima dei campanili e delle cupole, scendeva lentamente, gloriosamente sui tetti, faceva venire avanti, quasi le ravvicinasse, le colline lontane, le montagne che formavano una lieta curva di orizzonte attorno alle colline che digradavano e si perdevano nella vasta pianura verde, coi seminati qua e là luccicanti di rugiada, nell'ombra. Con la crescente luminosità del giorno, i tristi fantasmi che lo avevano contristato durante la nottata si erano già dileguati. E appena gli tornò davanti agli occhi la figura del cugino Pergola, col berretto bianco, di cotone, calcato fin su le orecchie, il collo circondato d'empiastri sorretti dalla grigia fascia di lana, seduto sul letto, appoggiato al mucchio dei guanciali, col viso congestionato e gli occhi rigonfi, quella risata che colà, nella camera, tra le candele ardenti sui candelabri di legno dorato attorno alle teche delle reliquie e al cordone di argento del Cristo alla Colonna, quella risata che gli era stata soffocata in gola, più che dal turbamento, dalla presenza dell'afflitta signora e dei bambini, gli scoppiò ora irrefrenabile in faccia al cielo azzurro, luminoso, in faccia alle cupole, ai campanili, alle case di Ràbbato, alla campagna, alle colline; e senza nessuna amarezza di delusione, quasi finalmente comprendesse di aver ecceduto, di essersi lasciato vigliaccamente impressionare anche lui! E apriva soddisfatto i polmoni a lunghi respiri di soddisfazione! (Cap. XXIII, pp. 168-172) 

    Il passato? Bisognava annullarlo dentro di sé, poiché non si poteva più fare che quel che era avvenuto non fosse avvenuto. Riparare, fin dove era possibile, sì; ma non scoraggiarsi, non avvilirsi, non disperare; e, soprattutto, prendere il mondo qual è, fare come gli altri. «Dio... se c'è... C'è!... Dev'esservi!...», soggiunse. «Dio sarà certamente più misericordioso degli uomini. Egli solo può valutare con esattezza le nostre azioni, egli che può leggerci nell'intimo anche meglio di noi stessi. Sappiamo forse, spesso, perché ci siamo risoluti ad agire in una maniera piuttosto che in un'altra? Siamo fragili steli che il vento fa piegare di qua o di là secondo la parte da cui soffia...» (Cap. XXIV, pp..175)

    La follia

    Ella non sapeva che cosa dirgli, un po' impaurita da quelle parole di delirio che il marchese tornava a ripetere; e gli riaggiustava le coperte, cercando di impedire così gli scomposti movimenti di smania con cui egli accompagnava le parole. «È andato via! Va, viene... Don Aquilante dovrebbe scacciarlo...» «Glielo dirò... Lo scaccerà», rispose la marchesa per secondarlo ed acchetarlo. Tacque, senza però levarle i sospettosi sguardi di addosso, e a bassa voce, cautamente, riprendeva:
    «Nessuno mi ha visto... Con quel gran vento!... Non c'era anima viva per le vie... E, infine... un confessore ha la bocca sigillata... È vero!». «Senza dubbio.» «E, infine... i morti non parlano... È vero? Era giallo nel cataletto, con gli occhi chiusi, la bocca chiusa, le mani incrociate. Come si chiamava!... Ah! Don Silvio...» (Cap. XXXII, pp. 228)

    DON SILVIO LA CIURA

    Achille Millo2
    Don Silvio La Ciura nell'interpretazione di Achille Millo (1972)

    Le opere di carità

    Il prete fece un profondo inchino, si accostò a baciarle la mano appena ella, messasi a sedere, gli ebbe accennato una poltrona; poi, con umile atteggiamento ed esile voce, incominciò:
    «Mi manda Gesù Cristo...».
    «Gesù Cristo vi manda da me troppo spesso!», lo interruppe la baronessa, sorridendo benignamente.
    «Si rivolge alle persone che possono fare e fanno volentieri la carità», rispose don Silvio.
    E così dicendo, parve volesse rendere più piccola la sua personcina bassa, magra, che nelle occhiaie e nelle pallide gote infossate mostrava i segni dei digiuni e delle penitenze con cui macerava il misero corpo.
    «Gesù Cristo però», riprese la baronessa crollando la testa, «si ricorda dei poveri che non hanno come sfamarsi, e dimentica che ricchi e poveri abbiamo già bisogno della pioggia pei seminati, per le vigne, per gli ulivi!»
    «Pioverà, a suo tempo, se i nostri peccati non vi mettono ostacolo.»
    «Voi fate penitenza per tutti, voi», soggiunse la baronessa.
    «Io sono più peccatore degli altri!»
    «Diteglielo, diteglielo a Gesù Cristo. Ci vuole la pioggia, Signore! Ci vuole la pioggia!»
    «Glielo dirò», rispose con semplicità il buon prete.
    «Intanto vengo a raccomandarle di nuovo quella povera donna, la moglie di Neli Casaccio. Ora che suo marito è in carcere, perisce di stenti la poveretta, con quattro figli che non possono darle nessun aiuto. Ella giura, al cospetto di Dio e dei santi, che suo marito è innocente.»
    «Se è così, non potranno condannarlo.»
    «Quando era in libertà, provvedeva lui alla famigliuola col suo mestiere di cacciatore.»
    «Manderò un sacco di grano, anzi di farina; sarà meglio.»
    «Dio glielo renda, tra cent'anni, in paradiso.»
    (CAP. 3, PP. 19.-20)
    Don Silvio La Ciura dopo messa, via, di casa in casa, a chiedere l'elemosina per gli affamati, riempiendosi le tasche coi tozzi di pane che gli davano, portandone in un fazzoletto, fin nella falda del mantello; e due tozzi qua, tre tozzi là, uscio per uscio in quelle sudice catapecchie dove i malati di tifo guarivano per miracolo, senza assistenza di medici, senza medicine... E avrebbero preferito di morire! Sembrava una larva anche lui; e intanto saliva e scendeva scale, correva da un quartiere all'altro, con quei suoi brevi passi da perniciotto, rasentando il muro dei vicoli, quasi non volesse farsi scorgere; portando dappertutto, oltre il soccorso materiale, il conforto di una buona parola, di un sorriso, d'una benedizione... E pane e pane e pane, che non si capiva d'onde potesse cavarlo; talché la gente credeva che gli si moltiplicasse tra le mani, come una volta a Gesù Cristo. (Cap. XIV, pp. 98-99)

    Egli si sentiva trafiggere l'anima pensando a quel peccatore che non era più tornato a confessarsi! E ogni sera, nella nuda cameretta dove lo aveva visto inginocchiato ai suoi piedi, pregava intensamente perché il Signore gli spietrasse il cuore e lo inducesse ad aver compassione dell'innocente che scontava la pena del delitto altrui. (Cap. XIV, p.99)

    IL CAVALIER PERGOLA

    In bilico tra fede e ragione: quale Paradiso?

    «Avete gli occhi chiusi, caro cugino. Se credete di guadagnarvi il paradiso!... Il paradiso è quaggiù, mentre respiriamo e viviamo. Dopo, si diventa un pugno di cenere e tutto è finito.» «E l'anima?» «Ma che anima! L'anima è il corpo che funziona; morto il corpo, morta l'anima. Chi ha mai visto un'anima? Soltanto don Aquilante e i pochi pazzi suoi pari si illudono di parlare con gli Spiriti.» «Che ci assicura che sia come dite voi?» «La scienza, l'esperienza. Nessuno è mai tornato dall'altro mondo... Ma già, per voi, le fandonie dei preti sono verità sacrosante.» «Le ha rivelate Dio.» «A chi? Se riflettete un momento, vi avvedreste di qual ammasso di contraddizioni è composta la Fede. E i preti, che la sanno lunga, dicono: "Fate quel che vi diciamo noi, non quel che facciamo noi!".» «Sono uomini anche loro...» «Siamo uomini pure noi; ci lascino tranquilli!» «Perché Dio ci ha dunque creati?» «Non ci ha creato nessuno! La Natura ha prodotto un primo animale e da esso, per trasformazioni e perfezionamenti, siamo venuti fuori noi. Siamo figli di scimmia, animali come gli altri animali.» «Oh, questo poi!...» «Animalissimi! Solamente, invece dell'istinto, abbiamo la ragione; ed è la stessa cosa. Con la scusa della ragione, facciamo però tante cose irragionevoli. Abbiamo inventato l'anima immortale, il paradiso, l'inferno... I cani, gli uccelli hanno l'anima anch'essi. Dove vanno le anime loro dopo la morte? C'è il paradiso dei cani? C'è l'inferno degli uccelli? Sciocchezze! Fantasticherie! Tutte invenzioni dei preti. E quando si avvedono che una loro balordaggine non si regge più, ne inventano subito un'altra. I sacerdoti pagani: Giove, Giunone, cento mila divinità. I preti cattolici hanno preso Dio agli ebrei e hanno inventato Gesù Cristo.» «State zitto! Inventato?» «Gesù Cristo era un uomo come voi e come me, bravo, caritatevole, che odiava i sacerdoti, che non voleva templi... Che ne hanno fatto i preti? Un Dio, col papa, coi cardinali, con chiese piene di fantocci, di madonne e di santi...» «State zitto! State zitto!» Il cavalier Pergola scoppiò a ridere. «Che? Temete che ci si sprofondi il pavimento sotto i piedi? Ecco; non si sprofonda niente!... Ah! Ah! Ah! Voglio portarvi certi libri. Dovete leggerli; tanto, non avete nulla da fare.» «Sono proibiti.» «Figuratevi! I preti vorrebbero impedire il trionfo della verità...» E mentre il cavalier Pergola, parlando, agitava i quattro peli della barbetta che gli orlava il mento, il marchese si meravigliava di stare ad ascoltarlo con grande interesse. Se fosse così, come diceva il cugino? Si sentiva rimescolato, quasi una mano crudele tentasse di strappargli dalle viscere qualcosa di vivo e di tenace. (Cap. XI, pp. 75-77) 

    Giunti vicino al Casino, essi deponevano a terra il cataletto, e la gente faceva ressa attorno al cadavere per baciargli le mani. Quattro carabinieri erano pronti, dai lati, a impedire che strappassero in brandelli gli abiti del morto per tenerli come reliquie. E così il marchese poté osservar bene quella bocca chiusa per sempre, che non avrebbe potuto mai più, mai più, ridire a nessuno il segreto da lui rivelato in confessione! Allora si sentì forte, vittorioso, quasi la fine di quell'uomo fosse stata opera sua. E soltanto per decenza non sorrise, quando il cugino Pergola gli disse all'orecchio: «Dev'essere rimasto male don Silvio, non trovando di là il Paradiso!». (Cap. XVI, pp. 115-116)

    Il finto pentimento

    La mattina dopo egli andava dal cugino. Cecilia, figlia dello zio don Tindaro, gli venne incontro nell'anticamera, tenendo i suoi due bambini per mano. «Grazie, marchese!» singhiozzava. «Fategli coraggio.» «Ma è dunque vero? Io credevo che si trattasse di un'esagerazione di mamma Grazia.» «Questa volta è grave assai; può rimanere soffocato da un istante all'altro... Per fortuna il Signore gli ha toccato il cuore... C'è di là il prevosto Montoro... Lo ha voluto lui, per confessarsi.» «Per confessarsi?», domandò il marchese, sospettando di aver capito male. Cecilia non badò a rispondergli vedendo uscire il prevosto dalla camera del malato. «Vado e torno subito», disse questi, avvicinandosi senza salutare il marchese a cui teneva ancora broncio pel crocifisso regalato alla chiesa di Sant'Antonio. «Precauzione e nient'altro signora. Il cavaliere può essere fuori di pericolo in un baleno; è caso ovvio in questo genere di malattie. Non bisogna disperare.» La signora Pergola si asciugò le lagrime, si ricompose e disse al marchese: «Venite, venite!». Ma egli si era arrestato su la soglia della camera; non credeva ai suoi occhi. Sul cassettone, parato con tovaglia da altare, tra candelabri di legno dorato con candele di cera accese a già consumate a metà, aveva subito riconosciuto le teche d'argento delle reliquie vedute esposte nella sacrestia di Sant'Isidoro nell'occasione dell'ultima vista diocesana del vescovo. La piccola, con le falangi di un dito di san Biagio, protettore contro il mal di gola, l'altra, con un avambraccio in cera che serviva da astuccio a un osso dell'avambraccio di sant'Anastasia. Di rimpetto al cassettone, sul tavolino parato egualmente con tovaglia da altare, tra due candelabri con candele accese e sgocciolanti, in un vassoio di cristallo stava il cordone di argento del Cristo alla Colonna, della chiesa di San Paolo, che si concedeva soltanto in casi estremi e a fedeli di riguardo. Poteva mai aspettarselo? E guardò, sbalordito, il cugino che, con cenni del capo e mugolando stentate e quasi incomprensibili parole, lo invitava ad accostarsi. Seduto sul letto, appoggiato a un mucchio di guanciali, con in testa un berretto bianco di cotone, a maglia, che gli nascondeva anche le orecchie, coi sacchetti degli empiastri applicati alla gola e tenutivi aderenti da una larga fascia di lana grigia, col viso congestionato, con gli occhi rigonfi, coperto da un mantello di panno verdebottiglia dai cui lembi uscivano le mani che stringevano un piccolo Cristo di ottone su croce di ebano, il cavalier Pergola, così infagottato, era quasi irriconoscibile. E soltanto la presenza dell'afflitta signora e dei bambini poté trattenere il marchese dal prorompere in una lunga e sonora risata. La risata però gli fremeva dentro ed era anche qualche cosa di amaro, di profondamente triste, convulsione nervosa e sgomento prodotti dall'immensa delusione che lo inchiodava là, imbalordendolo, su la soglia. «Ma... dunque?... Ma... dunque?», pensava ansiosamente, accostandosi al letto del malato. «Perdonatemi!... Vi ho... dato... scandalo!» «Zitto! Non vi sforzate!», egli lo interruppe. Quelle parole, che uscivano strascicanti dalla gola quasi senza aiuto della lingua, facevano soffrire anche lui. «Vi ho dato... scandalo... con quei libri...! Bruciateli!» Il marchese si sentiva già preso da vertigini, come su l'orlo di un abisso senza fondo. «Ma... dunque?... Ma... dunque?» Faccia a faccia con la morte l'ateo, il baldo bestemmiatore, il feroce odiatore d'ogni religione e dei preti, rinnegava tutt'a un tratto i suoi convincimenti, diventava una femminuccia, si circondava di reliquie, chiamava il confessore, voleva benedetto il suo matrimonio! Ed era stato il suo iniziatore, il suo maestro quasi! Oh!... A chi doveva egli credere ormai? All'uomo sano, nel pieno possesso di tutte le sue facoltà intellettuali, o a questo qui, infiacchito dal male, atterrito dalle rinascenti paure del mondo di là, ma che forse intravvedeva con lucido sguardo verità nascoste alle menti troppo annebbiate dai sensi, o sviate dagli interessi e dalle passioni mondane?... E la risata che tornava a fremergli dentro, amara, profondamente triste e sarcastica, gli dava un'acuta sensazione di dolor fisico all'epigastro, mentre il cavalier Pergola riprendeva a strascicare le parole, stralunando gli occhi nei momenti che fin il respirare gli riusciva difficile. «Perdonatemi!... Pregate... che Dio mi conceda... almeno la salute dell'anima... se non quella del corpo!» «Eh, via! Non mi sembrate neppur voi!», gli disse il marchese, simulando tranquillità. E guardava attorno, non riuscendo ancora a convincersi che lo spettacolo che gli stava sotto gli occhi fosse cosa reale. Un senso di smarrimento e di gran vuoto gli faceva correre rapidi brividi di freddo per la schiena, quasi tutto stesse per crollare e miseramente inabissarsi attorno a lui. E, questa volta, senza nessuna speranza di prossimo aiuto, senza nessuna lusinga di lontana salvezza! Così egli assisté, da quarto testimone, alla celebrazione del matrimonio religioso, che il prevosto Montoro venne a sbrigare alla lesta, accompagnato da don Giuseppe e da due conoscenti, raccolti per strada, giacché non era il caso di perdere tempo nella scelta. Indossate la cotta, la mozzetta e la stola, prima di aprire il rituale che don Giuseppe gli porgeva, il prevosto, cavata dalla tasca della sottana una carta, la presentava, spiegata, al cavaliere. «È indispensabile!... Anche per mia giustificazione. Bisogna firmarla.» Fu portato il calamaio; e, mentre il malato firmava, il prevosto invitava gli astanti a ringraziare Dio per quella spontanea ritrattazione di tutte le eresie, di tutti gli errori, di tutte le empie dottrine professate con scandalo di tante anime, con corruzione di tanti cuori. La commovente cerimonia in articulo mortis durava pochi minuti; e il sole, che inondava la camera dalla vetrata del balcone di faccia al letto, la rendeva più triste con la sua luminosa letizia. Tra i ceri ardenti sui candelabri davanti alle sacre reliquie, nel raccolto silenzio dei pochi astanti inginocchiati attorno alla povera signora che non poteva frenare le lagrime, i due sì parvero singhiozzati, e le due mani stese, una per porgere, l'altra a ricevere in dito l'anello benedetto, furono viste tremare. «Ego conjungo vos in matrimonio!», pronunciò il prevosto con voce robusta e solenne, benedicendo gli sposi. Al marchese tornarono in mente in quel punto le parole del cugino, di un anno addietro, quando si lagnava che i parenti di sua moglie fossero indignati contro di lui perché non aveva voluto farsi buttare addosso da un prete sudicio due gocce di acqua salata! E si levò in piedi, senza avere la forza di dire una sola parola di rallegramento e di augurio, con quella convulsione di riso amaro e sarcastico che la compiuta delusione tornava a fargli fremere internamente. (Cap. XXII, pp.162-165)

    Una mattina quel demonio tentatore era andato insolitamente a fargli una visita. «Vedete, caro cugino! Sono più cristiano di tutti voialtri; dimentico le offese. Non vi dispiacerà, spero, che sia venuto a trovarvi. Io sono indulgente. Capisco le debolezze umane, come le chiamano i preti. Quando tutti vi biasimavano perché tenevate in casa la Solmo, vi difendevo, solo contro tutti i parenti. Mio suocero, vostro zio, buttava fuoco e fiamme dalla bocca e dagli occhi; la zia baronessa, peggio. Credete che fosse per la morale? Per vanità, per interesse. Avevano paura che la sposaste... Oh, io l'avrei sposata per dispetto. Belloccia, giovane, onesta, via, più di parecchie maritate... Siete stato troppo buono! Basta; avete fatto il comodo vostro; ve ne siete sbarazzato. Potrete ricominciare con un'altra.» «Ah, no!», esclamò il marchese. «Perché? Per quel che direbbe la gente? Lasciatela strillare! Voi fate una vita impossibile. Siete il marchese di Roccaverdina e non contate per niente. Se fossi nei vostri panni, non si dovrebbe muovere foglia in paese senza il mio consenso; e anche per fare un po' di bene. Vi siete imprigionato qui, come se il mondo non esistesse.» «Bado agli affari miei.» «Potreste badarvi egualmente. Accumulate quattrini? A che scopo? Quando il danaro non serve a far godere la vita, è cosa senza valore.» «La godo a modo mio.»
    «Secondo voi», disse, «ognuno potrebbe commettere qualunque delitto e scialarsela, giacché non c'è inferno né paradiso.» «C'è la legge, fin dove può; c'è la coscienza umana che ci dice: Non fare agli altri quel che non vuoi fatto a te stesso!» (Cap. XI, p. 77)

    Cristiani solo a parole

    «Pur troppo è così! Siamo ancora mezzi barbari!... Ecco: per parlare di noi, giacché l'occasione è capitata, noi ci guardiamo da un bel pezzo in cagnesco. Perché? Per un pregiudizio. Non ho sposato in chiesa! È il mio gran delitto. Vostro zio non vuol vedere in viso, nemmeno da lontano, sua figlia! Voi avete fatto lo stesso con me». «Il torto è vostro, cugino! Siete scomunicato, non lo sapete? E fate vivere in peccato mortale anche quella poveretta!» «Perché un prete sudicio non ci ha buttato addosso due gocce di acqua salata?» «Benedetta, cugino! Dio vuole così!» «Quale Dio? Chi lo ha visto cotesto Dio?»
    (Cap. X, p. 71)

    Il cavalier don Tindaro, la mattina, apprendendo dal genero l'arrivo della Solmo, gli aveva detto: «Hai fatto male a farla entrare». «Per dispetto della marchesa!... E poi, dove trovare in questo momento una persona più fidata? Lo ha vegliato, sola, tutta la nottata.» «La marchesa può mandare a scacciarla. È lei la padrona.» «Ha perduto ogni suo diritto, abbandonando casa e marito. Io ammiro immensamente questa povera donna che ha fatto due giorni di strada, a cavallo, quasi senza fermarsi, soltanto per vederlo. Ieri sera, quando si è presentata e si è buttata ginocchioni, supplicante, io... che non sono di cuore tenero... io e il dottore... eravamo commossi come due ragazzi. Non abbiamo saputo dirle: "Tornatevene donde siete venuta". Sarebbe stata una gran crudeltà.» «Ma ora...» «Ora, la lasceremo qui, fino a che non vengano a scacciarla via, se ne avranno il coraggio. È stata l'amante? E voi avete tali scrupoli?» «Non li chiamare scrupoli... Il marchese di Roccaverdina non deve morire con quella donna al capezzale... Sarebbe uno scandalo!» «Deve morire come un cane, alle mani di gente prezzolata, di Titta e di mastro Vito!... Questo, ah! non vi sembra uno scandalo! E poi dite che io sono uno scomunicato!... Ma c'è da rinnegare cento Cristi vedendo simili cose!...» (Cap. XXXIV, pp. 249-250)

    Lo zio don Tindaro, per la sua età, non resisteva alla tortura del miserando spettacolo; e il cavalier Pergola, rimasto in casa Roccaverdina, dopo quindici giorni non ne poteva più, anche perché doveva badare ai proprii affari, e per quelli del cugino non sapeva come regolarsi. La imperdonabile risoluzione della marchesa lo faceva uscire in escandescenze: «E si dicono cristiane! E si confessano e ingoiano particole! E...! E...! E...!». La sfilata degli improperi non finiva più se qualcuno, venuto ad informarsi dello stato del marchese, tentava di scusare la povera signora che avea dovuto mettersi a letto appena giunta a casa, con febbre che durava ancora e faceva temere per la sua vita. «Qui, qui era il suo posto!... E quel che ho detto a voi glielo direi in faccia!... Voglio che lo sappia!» (Cap. XXXIII, p. 246) 

    Don Tindaro si trasse indietro, imbronciato. «Mi è stato detto», riprese, quasi masticando le parole, «che vi siete riconciliati, come se la offesa fosse stata fatta a me solo e non alla parentela tutta. Una Roccaverdina... concubina! È sua concubina», incalzò, «non moglie mia figlia! Per la Chiesa, il matrimonio... come lo chiamate?» «Civile.»
    «Incivile dovrebbe esser detto!... Matrimonio da bestie!... Per la Chiesa, non ha nessun valore...» «Coi pregiudizi che avete in testa!» «Pregiudizi? Pregiudizio uno dei sette Sacramenti? Sei dunque diventato protestante come lui? E tu pure, giacché sposi – so che sposi, dagli altri l'ho saputo, per caso. Non vuol dire! – tu pure non sposerai in chiesa?» «Io... io farò come fanno tutti.» Il marchese arrossì. Aveva dovuto arrossire e sentirsi imbarazzato parecchie altre volte, con la zia baronessa e con Zòsima specialmente, per la mancanza di sincerità riguardo ai mutati suoi sentimenti religiosi. Ma in quel punto, aveva anche arrossito per l'improvvisa coscienza che, da più di un anno, la sua vita era una continua ipocrisia, una continua menzogna fin con se stesso. Un attimo era bastato per fargli comprendere che la smania di distrarsi, di stordirsi da cui si sentiva travolgere era un inconsapevole mezzo di addormentare, di far tacere l'intima voce che minacciava di elevarsi tanto più forte, quanto più egli cercava di soffocarla. «Come fanno tutti?», riprese don Tindaro? «Com'è dovere, ti faccio osservare io. Sei cristiano cattolico apostolico romano?» «Non mi son fatto sbattezzare!» «Neppure quell'empio si è fatto sbattezzare!» «Pensate che il Vangelo comanda di perdonare le offese. E poi certe persone bisogna prenderle pel loro verso. Con le buone si ottengono tante cose che non si riesce a ottenere con le cattive.»
    «Perdoneresti tu nel caso mio? Ah, tu non sei padre; tu non puoi intendere che cosa voglia dire vedersi strappare di casa una figlia unica! Era maggiorenne? Che importa? Il padre è sempre padre; la sua autorità dura fino alla morte, oltre la morte! E mia figlia (una Roccaverdina!) si è ribellata, si è avvilita fino al punto...! Avrei voluto vederti, se qualcuno fosse venuto a portarti via Agrippina Solmo quando era con te!... E si sarebbe trattato di un'amante. Lo avresti ammazzato, per semplice gelosia, se le volevi bene davvero!... Ma una figlia è ben altro. Carne della nostra carne, sangue del nostro sangue!... Non so come mai, allora, io non abbia commesso un eccidio!» «Avete ragione, zio. Quando però il male è fatto, dobbiamo cercarvi il rimedio». (Cap. XVIII, pp. 127-128) 

    ZÒSIMA

    Zareschi Gelosia2
    Elenza Zareschi è Zòsima Mugnos nel film del 1942

    Misericordia per gli ultimi

    Ah, Madonna santa! Salto giù di cassetta, scende di carrozza anche il marchese, tutti e due più pallidi del morto. Non lo dimenticherò finché campo!... Pavonazzo, con gli occhi e la lingua di fuori... Lo tocco; era freddo!... Allora siamo tornati a Margitello... Il marchese, sturbato, non poteva parlare... Ha dovuto buttarsi sul letto. Ora sta meglio... E mi ha mandato per avvertire voscenza. Devo andare dal pretore e dai carabinieri... Il morto è là, che spenzola ancora... Ha voluto dannarsi!» La marchesa era stata ad ascoltare senza interromperlo, corsa da brividi per tutta la persona, quasi avesse davanti il corpo del vecchio contadino col viso pavonazzo, con gli occhi e la lingua di fuori, che dondolava dal ramo dell'albero a cui disperatamente era andato a impiccarsi. «Il Signore lo avrà perdonato!», ella disse commossa. «Ma il marchese però non è tornato? Ditemi la verità, Titta: sta male?» «Eccellenza, no! Aspetta la giustizia coi carabinieri e i manovali che dovranno portar via il morto... Mi ha mandato a posta... E se voscenza permette...»

    La marchesa quella notte ebbe paura di dormire sola in camera sua. Disse a mamma Grazia: «Recitiamo un rosario in suffragio del disgraziato». (Cap. XXVII, pp. 201)

    «Perché dovrei parlarvi di una poveretta venuta l'altro giorno da noi...» «È vero», disse la signora Mugnos. «Voleva la signora marchesa. "Ma qui non c'è nessuna marchesa, figlia mia! .... Eccellenza sì, la marchesa di Roccaverdina!" "Non ancora, figlia mia." "Eccellenza sì, la marchesa di Roccaverdina; debbo gettarmele ai piedi, per questa creatura qui, per quest'orfanello... Il signor marchese ha fatto tanto! Gli dobbiamo la vita. Senza di lui, saremmo morti tutti di fame anche prima della disgrazia di mio marito..." E bisognò farla parlare», la signora Mugnos sorrideva, «con la marchesa di Roccaverdina!» «Per quel figliuolo di dieci anni», riprese Zòsima. «Che cosa voleva?... Chi era costei?» «La povera vedova di Neli Casaccio.» «Ma...», fece il marchese. «E insisteva: "Per niente, pel solo pane e vestiti; con quattro cenci lo ricopre... O pure, se lo prenda voscenza, per ragazzo da mandare qua e là. È svelto di mente e lesto di gamba". Che potevo risponderle? Non ha voluto persuadersi che non sono marchesa di Roccaverdina!» «E su questo punto ha fatto bene», egli rispose. «In quanto al ragazzo, no, non è possibile che lo prendiamo in casa nostra. La sua presenza mi rammenterebbe continuamente troppe cose tristi; no, no!» «Povera donna!», esclamò la baronessa. «Zia mia, se si dovesse beneficare tutte le persone nel modo che esse richiedono!... Ognuno fa quel che può.» «Osservo solamente», riprese la baronessa, «che gli uomini di una volta erano più cortesi di quelli del giorno d'oggi. Alla prima preghiera di una signorina», e calcò su le parole prima e signorina, «non avrebbero mai risposto con una negativa. Per lo meno, avrebbero promesso; e poi... Si sa, le circostanze...» (Cap.XVIII, pp.131-132)

    immagini film2130Scena dal film "Gelosia" del 1942

    Una settimana dopo, era tornata da lei la povera vedova di Neli Casaccio a implorare di nuovo che prendessero il maggiore dei suoi figliuoli a servizio. «Eccolo: ho voluto condurlo con me perché voscenza e il marchese si persuadano che è forte e svelto, quantunque abbia appena dieci anni. Ne facciano quel che vogliono; in città, in campagna, purché io sappia che non gli manca un boccone di pane. Non so più dove dare la testa. Non mi resta che andare attorno a chiedere l'elemosina per me e pei miei poveri figliuolini!... Ma il Signore dovrà farmi morire avanti che io arrivi a quest'estremo, e portarseli tutti in paradiso prima di me.» La marchesa non avea potuto risponderle in modo evasivo come l'altra volta; e alla vista del bambino scalzo, coperto di stracci, pallido e macilento, ma che dimostrava nella faccia e specialmente negli occhi intelligenza precoce, si era sentita commuovere. «Vuoi restare qua?», gli domandò. «Eccellenza, sì!» «O vuoi andare in campagna?» «Eccellenza, sì!» La marchesa sorrise. La povera mamma ravviava con le dita i capelli arruffati del bambino, sorridendo anch'essa, e le ciglia le palpitavano lasciandole cascare qualche lagrima su le gote scarnite. Da qualche tempo in qua il marchese non si era più ricordato di lei; mamma Grazia non era più ricomparsa a portarle quel piccolo soccorso che aveva tenuto in vita mamma e figliuoli durante i terribili giorni della mal'annata. Ella, povera donna, non se ne lagnava. Si era ingegnata, come tanti altri, andando a raccogliere cicoria, amarella, tutte le erbe mangiabili che la pioggia aveva fatto ripullulare per le campagne, nutrendo sé e i bambini con esse appena condite con un po' di sale e con qualche stilla di olio, spesso senza neppur questo; benedicendo la divina Provvidenza che con tal mezzo aveva impedito che tanta misera gente perisse di fame. «Ora m'industrio alla meglio», soggiungeva la vedova. «Cucio, filo. Andrò anche a raccogliere ulive, raccomandando i bambini alla carità di una vicina. Ma siamo cinque bocche, eccellenza!» «Prendo il ragazzo», risolse la marchesa tutto a un tratto. «Bisogna rivestirlo, provvederlo di scarpe. Pel vestito, comprate la roba e portatela da mastro Biagio, il sarto... Lo conoscete? Le scarpe bisognerà ordinarle a posta, credo. Vi do il denaro occorrente per tutto. Quel che rimarrà lo terrete per voi.» E le lagrime della povera donna le avevano bagnato la mano, voluta baciare per forza. (Cap. XXVI, pp. 191-192)

    Dalla misericordia all'orgoglio

    Quando la serva ebbe portato via cesta e lettera, la marchesa ripensò lungamente quella domanda che le pareva insidiosa quanto il regalo e la lettera. E per tutta la mattinata non poté distrarsi, con dinanzi gli occhi la figura di Agrippina Solmo come l'aveva veduta di sfuggita due o tre volte, anni addietro. L'aveva invidiata allora, sentendosi inferiore a lei per giovinezza e bellezza, ma senza sdegno e senz'odio, perché allora stimava che non era colpa di colei se il marchese l'aveva voluta e se l'era tenuta in casa. Ne aveva avuto anzi compassione, povera giovane! La miseria, le insistenze del marchese... Come non cadere in peccato? E talvolta l'aveva ammirata per la devozione, per la sottomissione assoluta, pel quasi incredibile disinteresse; lo dicevano tutti. Ma dopo? Zòsima rammentava il sospetto della baronessa intorno alla Solmo per l'uccisione di suo marito. Rammentava il respiro di soddisfazione della vecchia signora quando la Solmo era andata via da Ràbbato col secondo marito. «Non mi par vero, figlia mia!», aveva esclamato. «Ti si è levata di torno una gran nemica!» Ma ella era piena di illusioni e di fiducia in quei giorni, e le parole della baronessa le erano parse esagerazioni. Invece... Invece oggi le riconosceva molto minori del vero. La sua gran nemica ella l'aveva subito ritrovata, invisibile, ma presente in quella casa dove si era lusingata di regnare sola e senza contrasti; l'aveva ritrovata su la soglia del cuore del marchese, e non aveva permesso che la moglie vi penetrasse... Ed eccola ora; arrivata da lontano, col regalo e con la lettera, per rafforzare il suo potere, forse creduto in punto di diminuire: eccola, arrivata forse per mettere in opera una mortale malìa, contro di lei certamente! (Cap. XXXi, p. 228)

    E mentre, non ostante la terribile rivelazione che faceva compiangere il povero Neli Casaccio condannato a torto e morto in carcere, la gente da due giorni s'impietosiva in vario modo della pazzia del marchese, soltanto Zòsima rimaneva inesorabile, inflessibile, sorda a ogni ragione. «No, mamma, non posso perdonare!... È stata un'infamia, una grande infamia!... Non capisci, dunque? L'ha amata fino a diventare assassino per essa!... Te lo dicevo! Io non sono mai stata niente, oh niente! per lui.» «Ma che si dirà di te?» «Che m'importa di quel che si dirà? Voglio andar via! Non voglio restare un altro solo giorno in questa sua casa... Mi fa orrore!» «Anche questa è pazzia! Sei la moglie. Ora egli è un infelice, un malato...»

    «Ha tanti parenti, ci pensino loro! Qui c'è la maledizione! Mi sento morire! Mi vuoi morta dunque?» «Oh, Zòsima!... Gesù Cristo ci comanda di perdonare ai nostri nemici.» «Sta' zitta tu!... Non puoi intendere tu!», aveva risposto sdegnosamente alla sorella. «Se non mi volete in casa vostra...» «Figlia mia, che dici mai?» «Fino a diventare assassino... per quella!» Non sapeva darsene pace. Il suo cuore traboccava di odio, quanto aveva traboccato di amore fino a pochi giorni addietro. Il sangue le si era cangiato in fiele. Ah! ora ella doveva, con più ragione, invidiare colei che poteva insuperbirsi apprendendo di essere stata amata tanto! Si sentiva umiliata, ferita mortalmente nella più delicata parte di se stessa, in quel legittimo orgoglio di donna che si era formata un culto della sua prima ed unica passione, e aveva sofferto in silenzio, nascostamente, senza illusioni e senza speranze, tanti anni! Perché non aveva dato ascolto all'ammonimento delle sue esitanze? Perché si era lasciata indurre dalla baronessa e dalla madre? Non sarebbe stata, com'era stata, marchesa di Roccaverdina di nome soltanto! Nulla, nulla poteva più compensarla, consolarla! E doveva fingere, per l'occhio della gente? Sentirsi compassionare? Oh, chi sa quante in quel momento ridevano di lei! Tutte coloro che avrebbero voluto essere al posto di lei; parecchie, lo sapeva! No, no! Ormai era finita! Se il marchese fosse guarito, non guarirebbe egualmente l'atroce piaga che le si era aperta nel cuore! Giorni fa, poteva confortarsi, lasciarsi lusingare dalle buone parole, dalle apparenze; ora, impossibile! Doveva stimarsi un'estranea in quella casa che neppure la sua presenza di moglie legittima aveva potuto ribenedire... Mamma Grazia, povera vecchia, s'era ingannata! E, ferma nella risoluzione di andar via, rispondeva: «Questa sera, tardi, quando nessuno potrà accorgersene, con le sole vesti che ho indosso!... È inutile, mamma, non potrai persuadermi!». «Se tu lo vedessi, ne avresti pietà!» «Dio è giusto! È la mano di Dio che lo punisce!» «Castigherà anche te che non avrai fatto il tuo dovere... Non ti riconosco, Zòsima! Tu, così buona!» «Mi ha resa cattiva lui; mi ha pervertita lui! Mi ha fatto diventare una creatura senza cuore! Peggio per lui!» La signora Mugnos, addoloratissima di quest'altra pazzia (tornava a qualificare per tale l'ostinazione della figlia), aveva voluto parlarne allo zio don Tindaro e al cavalier Pergola. Il vecchio rispose crudamente: «Lo ringrazia così del bene che le ha fatto?». Il cavalier Pergola alzò le spalle, borbottò una bestemmia e domandò: «La casa, in mano di chi l'abbandona la casa?».

    «N'esce come vi è entrata!», replicò fieramente la signora, che in quel punto sentì ribollirsi in petto tutto l'orgoglio delle nobili famiglie Mugnos e De Marco – ella era una De Marco da ragazza – delle quali portava il nome. Ciò non ostante, tornò ad insistere presso la figlia: «Rifletti bene! Hai tante responsabilità!». «Ho riflettuto abbastanza!», rispose Zòsima. «Consigliati col tuo confessore!» «In questo momento non posso ascoltar altro che il mio cuore. Non voglio essere un'ipocrita; sarebbe un'indegnità... Oh, mamma!» E vestita di scuro, quasi da vedova, sotto lo scialle nero che le copriva la fronte, a sera avanzata ella scendeva assieme con la mamma sorretta al braccio della sorella, la vecchia scala dell'atrio, e usciva nel vicolo buio sotto il palazzo Roccaverdina. Aveva voluto evitare di attraversare il corridoio e di passare davanti a l'uscio dello studio dove il marchese urlava giorno e notte da quattro giorni – assistito da Titta e da mastro Vito che si davano lo scambio – agitandosi su la sedia a bracciuoli, senza che mai il nome di Zòsima gli fosse venuto alle labbra. (Cap. XXXIII, pp. 242-244)  

    «Capriccio di gran signore!... A voi e a me non sarebbe passato per la testa quel patto. E n'è andato di mezzo un innocente! La marchesa non sa che la Solmo è qui. Verrebbe a cavarle gli occhi. Maria mi ha raccontato di averle sentito dire alla madre: "Non lo posso perdonare! È diventato assassino per quella donna!". Ed ha voluto andarsene.» (Cap. XXXIV, p. 252)

    AGRIPPINA

    Marisa Belli 53
    Marisa Belli nei panni di Agrippina Solmo (1953)

    La schiavitù del peccato

    «L'ho adorato come si adora Gesù sacramentato!... Mi ha preso dalla strada, mi ha colmata di benefici, lo so!... Nessuno saprà mai quel che ho sofferto dal giorno che voscenza... Quasi fossi stata uno straccio da buttar via! Oh! Era padrone di fare quel che le pareva e piaceva. Mi disse: "Devi giurare!". Ed io giurai, davanti al Crocifisso. Mi sarei fatta polvere per essere calpestata dai suoi piedi! Crede forse voscenza che non sentissi repugnanza?... Che la coscienza non mi rimordesse?... Che importava? Ero nel peccato (quando è destino, una che può farci?) e restavo nel peccato come prima. Per questo avevo giurato, alzando la mano dritta davanti al Crocifisso!... (cap IV, p. 30)

    Agrippina Solmo, incrociate desolatamente le mani e scotendo con atto di compassione la testa, riprendeva a lamentarsi con voce più fioca: «Non diceva così voscenza quando io le ripetevo: "Mi lasci stare! Mi lasci stare!". E mia madre piangeva, poveretta: "È la tua disgrazia, figlia mia!". È stato vero! Che m'importa se ora non mi manca niente? Casa, oro, roba, voscenza può riprendersi tutto... Un'altra non parlerebbe così! E intanto la baronessa, il Signore la perdoni!, dice che io vengo qui per tornare di nuovo con voscenza, per... Mi vergogno di ripetere quel che mi ha rinfacciato!... Quando mai? Quando mai?... Neppure allora che voscenza, ogni giorno: "Sei la padrona qui, sarai sempre la padrona!"... Oh, non si arrabbi!... Me ne vado!... Tutto avrei potuto credere, non questo di vedermi trattata così! "È la tua disgrazia, figlia mia!" Mia madre aveva ragione!». «Zitta! Zitta!», urlò il marchese. Ella uscì, più turbata e più smarrita che non fosse venendo, e con qualche cosa nel cuore che somigliava a un rimorso. Quei torbidi sguardi del marchese le erano penetrati nelle carni come lama ghiaccia, l'avevano frugata ne le più intime profondità della coscienza dove ella stessa non osava di guardare; e le sembrava che vi avessero già scoperto la infedeltà che stava per commettere e che avrebbe certamente commesso, se il fucile dell'assassino non avesse colpito Rocco Criscione tra le siepi di fichi d'India di Margitello, mentr'ella lo attendeva alla finestra, al buio, come si attende un amante! (Cap. IV, p. 31)

    Un giorno gli risposi: "Femine ne avete quante volete... Chi v'impedisce?... Non vi bastano?". Si mise a piangere; come un bambino piangeva, imprecando: "Sangue... qua! Sangue... là!
    Dobbiamo finirla questa storia! Non reggo più!... Che cuore avete dunque?". Che cuore? Non glielo davo a vedere, ma piangevo, di nascosto, pel peccato mortale in cui vivevo...» (Cap. XII, p. 94)

    Con viscere di misericordia

    Il dottore si era lusingato che la vista di quella donna avesse potuto produrre qualche crisi nello stato del demente; ma aveva dovuto disingannarsi. Il marchese, fissatala con quegli sguardi smarriti dove la pupilla sembrava già coperta da un leggero strato di polvere, era stato zitto alcuni istanti, concentrato, quasi frugasse in fondo alla memoria per trovarvi un lontano ricordo; poi, indifferente, aveva ripreso il triste ritmo dei suoi gridi: «Ah! Ah! Oh! Oh!», agitando la testa, lasciando colare dagli angoli della bocca la bava che Agrippina Solmo, pallida come una morta, coi neri capelli in disordine, buttata per terra la mantellina, si era messa ad asciugargli, senza una parola, senza una lagrima, con un pietoso stupore negli occhi che non si staccavano dal viso sfigurato del suo benefattore; non lo chiamava altrimenti. Aveva pregato di restare là l'intera nottata. E lo aveva vegliato ripulendogli le labbra, in piedi davanti al letto, non sentendo stanchezza, con un groppo di pianto che la soffocava e in certi momenti le annebbiava la vista, ma non giungeva a prorompere; con le mani dolorosamente incrociate, e il petto ansante di angoscia a quel continuo agitare della testa con cui il marchese accompagnava gli «Ah! Ah! Oh! Oh!» quando le allucinazioni gli concedevano qualche ora di tregua. «Andate a riposarvi; noi abbiamo dormito a bastanza», le disse Titta rientrando nella camera verso l'alba.
    «Ah, comare Pina! Chi lo avrebbe mai sospettato!», esclamò mastro Vito, ancora un po' imbarazzato dal sonno. «No! Lasciatemi stare qui!...», ella rispondeva senza neppure voltarsi. «E a voi, chi è venuto a dirvelo fino a Modica?», domandò Titta. «Un signore di Spaccaforno... Gliel'aveva scritto un amico di qui. Die' la notizia a mio marito... E sono accorsa, con la morte nel cuore... Due giorni di viaggio, con un garzone. Mi pareva di non arrivar mai!» «Andate a riposarvi... C'è un letto nell'altra stanza...» «Lasciatemi stare qui, mastro Vito.» (Cap. XXXIV, pp. 248-249)

    «Comare», egli disse, esitante, «ora è inutile fingere... Voi già lo sapevate... di Rocco!...» «Ve lo giuro, mastro Vito! Niente!... Neppure un sospetto!... Avevo anzi voluto andarmene da Ràbbato, per levarmegli di mezzo. Il marchese non voleva più vedermi, mi trattava male... Che colpa ne avevo io? Era stato lui... Io avrei voluto morire qui, da serva, per gratitudine... E sua zia pretendeva che avessi fatto ammazzare io Rocco Criscione... per tornare col marchese e farmi sposare!... Il Signore non gliene chieda conto là dove si trova! La colpa è dei suoi parenti, della baronessa soprattutto... Ora non sarebbe in questo stato!... Che strazio, mastro Vito!» (Cap. XXXIV, p. 249)

    «Sono io; Agrippina Solmo!... Faccia uno sforzo, voscenza! Si ricordi, si ricordi!... Mi guardi in viso!» Lo sollevava pel mento su cui la barba era già cresciuta ispida, pungente; gli scansava dalla fronte i capelli cascatigli giù nel tenere sempre abbassata la testa come appesantita per la malattia del cervello; e all'ultimo, rizzatasi con scatto disperato, nascondeva la faccia tra le mani convulse, balbettando:
    «Che castigo, Signore! Che castigo!». E intendeva di dire pure per sé, quasi gran parte della colpa fosse stata sua, se il marchese aveva ammazzato Rocco Criscione.(Cap. XXXIV p. 251)

    «Ah dottore! Non vuole mangiare più! Serra i denti, si volta di là; come fare?» «Ci siamo!» Il dottore non die' altra risposta; e Agrippina Solmo, che ne comprese il significato, si buttò su una seggiola, con le mani nei capelli, singhiozzando: «Figlio, figlio mio!». La desolata tenerezza di queste parole non commosse il vecchio zio del marchese, che le si avvicinò e la prese per un braccio, riguardosamente ma severo: «Dovete capirlo», le disse, «non potete restare più qui. Mastro Vito, pensateci voi... Poveretta!». Ella gli sfuggì per baciare e ribaciare quelle mani quasi inerti che avevano ammazzato per gelosia di lei; e pareva volesse lasciarvi tutta l'anima sua grata e orgogliosa di essere stata amata fino a quel punto dal marchese di Roccaverdina. «Figlio! figlio mio!» (Cap. XXXIV, pp. 252-253) 

    LE OPERE DI CARITÀ

    Dar da mangiare agli affamati

    Questa volta era ben diverso dalle terribili cattive annate di cui parecchi avevano memoria! Nel '46, mancava il grano; non se ne trovava neppure a pagarlo a peso d'oro! Il nuovo governo, sì, aveva fatto venire grano da ogni parte; ma i quattrini dove erano? Dissanguati dalle tasse e dalla mal'annata dell'anno avanti, i proprietari non sapevano più a qual santo votarsi. Ogni lavoro era arrestato. Lo stesso marchese non osava di avventurarsi a intraprendere niente nelle campagne, con quella persistente siccità! Non era nato un fil di erba da tutta la semenza prodigata sperando che finalmente, dopo quasi un anno, il cielo si sarebbe sciolto in pioggia feconda! Dietro la gran vetrata del Casino, larve di vecchi, di donne, di fanciulli si affacciavano, mute, senza gesti, con lo stupore dello sfinimento negli occhi, attendendo che il cameriere apportasse loro qualche soldo, o che venisse a cacciarle via perché nessuno là dentro aveva più niente da dare. E, poco dopo ecco altre larve, mute, senza gesti, con lo stesso stupore di sfinimento negli occhi, che attendevano, che non mormoravano vedendosi scacciate, e riprendevano a trascinare di porta in porta i corpi ischeletriti, reggendosi a mala pena su le gambe, senza un fil di voce per invocare la carità. Si vedevano oggi, domani, e poi certi visi non comparivano più. «È morto il tale, di fame! È morto il tal altro, di fame!» E davanti la porta del convento di Sant'Antonio, dove il municipio distribuiva, a mezzogiorno, minestre di riso bollito nell'acqua, condite con un po' di lardo, e grosse fette di pane nero, i carabinieri, la guardia forestale e gli inservienti del municipio stentavano molto a trattenere la ressa! Nessuno aveva vergogna di accorrere là. «Anche il tale!» «Anche il tal altro!» Li nominavano con triste maraviglia. Persone che mai si sarebbe sospettato potessero arrivare al punto di dover stendere la mano, e che senza quella misera minestra e quella fetta di pane nero, sarebbero morte forse anch'esse di fame! (Cap. XIV, pp. 96-98)

    La baronessa di Lagomorto gli aveva detto: «Faccio fare, ogni tre giorni, una fornata di pagnotte da due soldi; pensate a distribuirle voi». «Dio la rimeriti, buona signora!» «O perché non andate pure da mio nipote?» «So che ha dato molto grano e molti quattrini al Municipio.» «Darà dei soldi anche a voi, non dubitate.» E si era risoluto a seguire il consiglio, quantunque si fosse già accorto che il marchese di Roccaverdina, da qualche tempo in qua, lo salutasse a denti stretti ogni volta che lo incontrava. (Cap. XIV, p.99)

    Una santa la nonna, vecchietta grassa e piccola, che negli ultimi anni di sua vita andava a messa col bastone, quasi strascinando le gambe, e intonava il rosario dal banco di famiglia posto sotto il pulpito; banco nel quale non doveva mai sedere nessun estraneo, e per ciò fatto col piano che si rilevava e veniva chiuso a chiave terminata la messa. Ogni venerdì mattina la buona vecchietta attendeva nel portone i suoi poveri, seduta su un seggiolone coperto di cuoio, con ai lati due cofani ricolmi di grosse fette di pane infornato a posta, che distribuiva ella stessa, facendo sfilare i poveri a uno a uno, dicendo una buona parola a questo, dando doppia razione a quelli che sapeva carichi di famiglia, domandando notizie di qualcuno che non si presentava, se mai fosse malato. Santa la mamma, nonna del marchese Antonio. Ne aveva visto di tutti i colori con le scapataggini del marito. Era padre della baronessa, ma ella soleva dire: «La verità innanzi tutto!». E poi, chi non sapeva che la povera sua mamma era stata una martire? Tra bracchi, levrieri, segugi, cani di ogni razza e campai armati fino ai denti e con certe facce da metter paura – arrivavano, sparivano, ricercati dai gendarmi, e riapparivano poco dopo, senza barba, con altri nomi, sotto altre spoglie, e dovevano accompagnare il padrone dovunque, come guardie del corpo – la santa donna tremava davanti al marito; e doveva fare la carità di nascosto perché al marchese non piaceva di vedere la casa assediata dalla poveraglia, come avveniva quando la nonna era ancora in vita e non le si poteva impedire di fare a modo suo. (Cap. XXV, p. 181)

    Pregare per i vivi e per i morti

    «Che ti cuoce, figlio mio? Dimmelo. Pregherò il Signore e la Vergine Santissima del Rosario. Ho fatto dire una messa alle anime sante del Purgatorio perché ti diano la pace dell'animo...». (Cap VII, p. 49)

    Quel mucchio di sassi indicava il posto dove era stato trovato il cadavere di Rocco Criscione, con la testa fracassata dalla palla tiratagli quasi a bruciapelo dalla siepe accanto. Chi era passato di là in quei giorni vi avea buttato un sasso, recitando un requiem, perché tutti si rammentassero del cristiano colà ammazzato e dicessero una preghiera in suffragio di quell'anima andata all'altro mondo senza confessione e senza sacramenti. Così il mucchio era diventato alto e largo in forma di piccola piramide. (Cap. VIII, p. 51)

    E due giorni dopo, don Silvio era davvero in via di andarsene in Paradiso, dove il marchese lo voleva. Davanti la porta della sua abitazione, gruppi di gente costernata, con gli occhi al balconcino della cameretta del malato. Il dottore aveva dovuto ordinare di tener chiusa la porta perché la cameretta non fosse invasa. Di tratto in tratto, qualcuno dei pochi ammessi in casa veniva fuori asciugandosi le lagrime, ed era subito circondato. Lo interrogavano con gli sguardi, con una lieve mossa del capo, quasi il suono delle parole potesse disturbare l'agonizzante. «Si è confessato!» «Udite? Gli portano il viatico e l'estrema unzione!». Altra gente accorreva: popolane, contadini, tutti i poverelli da lui beneficiati, magri, squallidi, che dimenticavano in quel momento la mal'annata e la fame, con occhi gonfi di lagrime, con visi sbalorditi. Ah, il Signore avrebbe dovuto prendersi, invece, qualcuno di loro! Ed ecco il viatico! Si udiva il campanello che precedeva il prete con la pisside e l'olio santo. Il canonico Cipolla, sotto il baldacchino, circondato dai fedeli che portavano le lanterne di scorta e seguito da un centinaio di persone recitanti il rosario, passava a stento tra la folla inginocchiata che ingombrava il vicolo da un capo all'altro. La porta fu spalancata; il campanello cessò di suonare. (Cap. XVI, pp.112-113)

    NON GIUDICARE PER NON ESSERE GIUDICATI

    Il vecchio servitore che faceva da maestro di casa, da cameriere e da cuoco in casa della baronessa, affacciava la testa da uno degli usci, annunciando che quella donna attendeva nell'anticamera:
    «Posso farla entrare?».
    «Subito», rispose la baronessa.
    Agrippina Solmo salutò, con un cenno del capo, prima lei, poi don Silvio e, chiusa nella mantellina, eretta, quasi altera, gettando sguardi diffidenti e scrutatori ora su l'una, ora su l'altro, si avvicinò lentamente verso il canapè.
    «Che comanda, voscenza?» Il tono della voce era umile, l'atteggiamento no.
    «Non comando niente; sedete.»
    E rivolgendosi a don Silvio, la baronessa soggiunse: «Ho piacere che voi siate testimone. Sedete», replicò, vedendo che la Solmo restava ancora in piedi. Poi, dopo alcuni istanti di paura, con aria severa e accento duro, disse:
    «Figlia mia, parliamoci chiaro. Se avete fatto ammazzare vostro marito...».
    «Io?... Io?»
    La baronessa, senza lasciarsi intimidire dall'energica protesta, né dall'occhiata divampante di indignazione che l'aveva accompagnata, continuò:
    «C'è chi lo sospetta e lo farà sapere anche alla giustizia!».
    «E perché, perché lo avrei fatto ammazzare? Io? Oh,
    Vergine santissima!»
    «Chi sa che vi è passato per la testa! Tentazioni del demonio, certamente. Vi eravate messa in grazia di Dio prendendo marito... Non vi accuso per quel che è accaduto prima; vi compatisco anzi... La miseria, i cattivi consigli, la giovinezza... Forse neppure comprendevate il male che vi si faceva commettere. Infatti, vi siete comportata quasi da donna onesta... Mio nipote, dall'altra parte, ha fatto il suo dovere. Si è tolto ogni scrupolo di coscienza. Siete ricca, si può dire, con la dote ch'egli vi ha dato... Perché dunque non lo lasciate in pace? Che vi passa per la testa? Fingete di non capire quel che vi dico, eh?»
    «Ma... signora baronessa!»
    «Sbagliate, figlia mia, se v'immaginate che possa riuscirvi ora quel che non vi è riuscito l'altra volta!»
    «Che cosa, signora baronessa?»
    «Segnatevelo qui, su la fronte. C'è chi tiene bene aperti gli occhi e vi sorveglia! Se avete fatto ammazzare vostro marito per...»
    Agrippina Solmo scattò dalla seggiola, lasciò cascare su le spalle la mantellina, e levando in alto le braccia, imprecava: «Fulmini del cielo, Signore! Fuoco in questa e nell'altra vita a chi mi vuol male!». E coprendosi il volto con le mani, scoppiava in pianto dirotto.
    «Calmatevi!», intervenne don Silvio. «La baronessa parla pel vostro bene...»
    «Voi che siete un santo servo di Dio!», singhiozzava la vedova, asciugandosi le lagrime e facendo sforzi per frenarle. «Parlo a un confessore, come se fossi in punto di morte. L'hanno ammazzato... mio marito... a tradimento! Oh!... Farlo ammazzare io!... Chi lo dice?... Venga in faccia a me!... Giuri su l'ostia consacrata!... Se c'è Dio in cielo...»
    «C'è, c'è, figliuola mia!», esclamò don Silvio, stendendo le mani, quasi volesse chiuderle la bocca e impedirle di bestemmiare.
    «Per quale scopo dunque andate così spesso da mio nipote?», strillò la baronessa. «Non vi cerca lui; non vi manda a chiamare lui!»
    «Pel processo, pei testimoni.»
    «Il processo? L'ha istruito il giudice. I testimoni? Deve forse scovarli mio nipote? Pretesti! Pretesti! Ormai dovreste averla capita. Se vi lusingate di ricominciare da capo, se vi siete messa in testa... di salire alto dalla vostra condizione... Ecco perché la gente sospetta: l'ha fatto ammazzare essa il marito!» (Cap. 3, pp,. 21-22)

    «Ora questa casa è ribenedetta! Ora v'è entrata la grazia del Signore!». E nei giorni appresso la povera vecchia un po' istolidita aveva ripetuto tante volte quelle esclamazioni, da spingere la marchesa a domandarle: «Perché? Che intendete di dire?». Mamma Grazia si era sfogata, raccontando tutto quel che aveva dovuto soffrire in silenzio per non dar dispiacere al figlio marchese, allorché era stata costretta a servire quell'intrusa venuta a far da padrona là dove non era degna neppure di spazzare le stanze! «Non posso però dirne male», aveva soggiunto: «mi ha sempre rispettata. E Dio mi castigherebbe, se affermassi che era cattiva, interessata, vanitosa; no, no!... Ma il suo posto non era qui. E glielo dicevo: "Come hai fatto? Lo hai stregato?". Ed ora ho qui la mia bella padroncina! Ho la mia bella figlia, che mi permette di chiamarla così perché è sposa di colui che è quasi figlio per me... Ora questa casa è ribenedetta. Il peccato mortale è andato via! Ora vi è entrata davvero la grazia del Signore!» (Cap. XXV, pp. 183-184)

     

    NOTE

    [1] Luigi Capuana «scrittore italiano (Mineo 1839 - Catania 1915), prof. nell'Istituto superiore di magistero in Roma e poi (1902) nell'univ. di Catania. Esordì come poeta, ma la sua attività si volse ben presto alla critica letteraria e alla narrativa. In quella egli occupa un posto notevole non solo per l'acutezza e sensibilità del gusto che, formatosi sul De Sanctis, giovò a scrittori come Verga e Pirandello nel trovare la loro via, ma per il vigore con cui propugnò, primo in Italia, il romanzo naturalista (Studi sulla letteratura contemporanea, prima serie, 1880; seconda serie, 1882; Gli "ismi" contemporanei, 1898; ecc.). Come narratore, nelle sue numerose novelle (Le paesane, 1894; Nuove paesane, 1898; ecc.), e nei romanzi (Giacinta, 1879; Profumo, 1890; Il Marchese di Roccaverdina, 1902, il migliore), lo studio di psicologia e di casi d'eccezione lo fa spesso rimanere sul piano della curiosità scientifica, ma un'arguzia, poi, tutta paesana lo porta a una felice caratterizzazione di figure e ambienti di provincia. Il C. è anche autore di favole e racconti per ragazzi (C'era una volta, 1882; Scurpiddu, 1898; Cardello, 1907; ecc.)» (Sito Internet dell'Enciclopedia Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/luigi-capuana/).

    [2] La liaison del protagonista del romanzo si riallaccia a una vicenda realmente vissuta dallo scrittore, ossia la relazione con Giuseppina Sansone, domestica di casa Capuana. Rapporto durato dal 1875 al 1892 e dal quale nacquero anche diversi figli, poi mandati all'ospizio dei trovatelli di Caltagirone. Una storia intensa, a giudicare dalle lettere che lo scrittore inviò alla sua analfabeta amante. Eppure, a dispetto della non superficialità della relazione, la donna fu "sistemata" dallo stesso Capuana, attraverso un matrimonio di convenienza. «Può stupire, in un uomo di sensibilità e moralità moderne come lui, un simile residuo di vassallaggio di tipo feudale, ove il sentimento si scontra con le durezze delle differenze di classe. Ma nell'episodio biografico si rispecchia efficacemente lo scenario sociale cupo e drammatico che è il naturale orizzonte di tanta narrativa siciliana dell'epoca del verismo, uno scenario di ardenti passioni e di penosi segreti, di grida del cuore e di silenzi; inoltre vi è racchiusa in nuce la traccia della vicenda che sarà sviluppata nel romanzo: la vibrazione poetica che tocca la figura dolente di Agrippina nasce dunque da una radice autobiografica. Il marchese di Roccaverdina è un romanzo emblematico della narrativa verista; pubblicato vent'anni dopo I Malavoglia, che è del 1881, si può dire che concluda e sigilli l'esperienza della narrativa verista in via di esaurimento. Ma se il romanzo del Capuana è per molti aspetti il romanzo-tipo del verismo, in esso confluiscono anche elementi di torbida consistenza del romanzo psicologico. Una delle caratteristiche peculiari e più evidenti del narratore Capuana è infatti l'ambizione di far coesistere il modello naturalistico con inserti di più moderna e tormentata psicologia» (Geno Pampaloni, Il marchese di Roccaverdina in Il marchese di Roccaverdina, Istituto Geografico De Agostini, 1982, pp. IV-V).

    [3] Luigi Capuana, Il marchese di Roccaverdina, Istituto Geografico De Agostini, 1982, cap. IV, p. 29.

    [4] Ibiidem, p. 77.

    [5] Ibidem, cap. XXXIV, p. 250.

    [6] Ibidem, cap. XXX, p. 246.

    [7] Ibidem, cap. XXXIV, p. 253.

    [8] Ibidem, cap. IX, p. 65.

    [9] la confessione di Antonio sembra essere espressione di una concezione della grazia quale «grazia a buon mercato» - per usare una definizione di Bonhoeffer, svendita della remissione, del conforto, del sacramento; grazia come riserva inesauribile della chiesa, a cui attingere a piene mani, senza problemi e senza limiti; grazia senza un prezzo e senza un costo. Poiché la grazia fa tutto da sola, tutto può restare come prima. La grazia a buon mercato è grazia senza sequela, grazia senza croce, grazia senza Gesù Cristo vivo, incarnato» (Dietrich Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, 2004, pp.26-29).

    [10] Geno Pampaloni, Ult. cit, p. VI.

    [11] Luigi Capuana, Il marchese di Roccaverdina, Istituto Geografico De Agostini, 1982, cap. XXXIV, p. 252.

    [12] Ibidem.

    [13] Benedetto XVI, Omelia, 19 giugno 2009.

     

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