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    Dare un po’ del mio: le tasse, le imposte, la solidarietà sociale



    Educare alla Costituzione /13

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2012-01-74)


    Qualche anno fa un ragazzo di 18 anni mi chiese che cosa fosse l’INAIL. Lavorava come operaio: gli spiegai che si trattava di una cassa che lo Stato allestiva con il denaro trattenuto dalla retribuzione per poter rimborsare le spese che gli infortuni causavano ai lavoratori. Lui mi chiese se, arrivato alla pensione, nel caso in cui non si fosse mai infortunato, avrebbe potuto riavere il denaro che gli era stato trattenuto negli anni; gli riposi di no, perché quel denaro sarebbe servito per pagare l’infortunio di un suo ipotetico collega. Allora, con candore, il giovane esclamò: «Ma perché lo devo pagare con i miei soldi? Non se lo può pagare lui?».
    Ci sembra che la reazione spontanea del giovane operaio sia altamente significativa, ed evidenzi la crisi dell’idea di solidarietà sociale sulla quale si era costruito non solo il discorso di tanto operaismo e sindacalismo, ma anche l’intero edificio della Costituzione.
    Che cosa resta oggi, in un paese nel quale l’evasione fiscale annua corrisponde a ¤ 200.000.000,[1] in una società che rappresenta sempre più l’egoismo eretto a sistema, dell’idea secondo la quale occorre che le ricchezze vengano redistribuite, e chiunque deve essere chiamato a concorrere alle spese dello Stato soprattutto quando queste vanno nella direzione dell’aiuto alle fasce più deboli?
    Cosa resta dell’idea che le ricchezze accumulate all’interno di un contesto sociale hanno a loro volta una dimensione sociale e non solo egoistica? Cosa resta dell’art. 53 della Costituzione? «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività»?
    Ci torna in mente una splendida poesia di Bertolt Brecht. Carbone per Mike:

    Ho sentito dire che all’inizio di questo secolo a Bidwell nell’Ohio viveva in povertà una donna, Mary McCoy vedova di un guarda binari di nome Mike McCoy.
    Ma ogni notte dai treni tonanti della Wheeling Railroad i frenatori gettavano un pezzo di carbone oltre lo steccato, nel campo di patate, gridando in fretta con voce rauca: Per Mike!
    Ed ogni notte, quando il pezzo di carbone per Mike colpiva il retro della capanna, la vecchia si alzava, si trascinava fuori ubriaca di sonno avvolta nella sua vestaglia e metteva da parte il pezzo di carbone, regalo dei frenatori a Mike, scomparso sì, ma non dimenticato.
    Sempre, prima dell’alba, la donna faceva scomparire il loro regalo dagli occhi del mondo affinché i frenatori non venissero a trovarsi in difficoltà con la Wheeling Railroad.
    Questa poesia è dedicata ai compagni del frenatore Mike McCoy (morto per insufficienza polmonare, lavorando sui treni a carbone dell’Ohio)
    Per fratellanza.

    Sembrano passati secoli da questa idea di solidarietà e di reale fratellanza, sostituita sempre più dalla competitività orizzontale che ci sembra dominare i rapporti sociali, non solo lavorativi: se è vero ormai che la controparte del lavoratore della Pepsi-Cola non è il Direttore Generale ma il lavoratore della Coca-Cola, la controparte del lavoratore giovane è il lavoratore anziano, la controparte del lavoratore italiano è il lavoratore immigrato, la cosa ancora più tragica è che a scuola la controparte dell’alunno è l’altro alunno, da superare in una lotta darwiniana per la conquista della cultura.
    La lotta di tutti contro tutti, il bellum omnium contra omnes che Hobbes aveva pensato come motivo per l’origine dello Stato, inteso come meccanismo per evitare il cannibalismo sociale, è diventata oggi il segreto meccanismo della perpetuazione di un modello sociale.

    Un egoismo eretto a sistema

    L’egoismo eretto a sistema causa danni non solo materiali nel campo fiscale; l’idea ormai consolidata secondo la quale le tasse e le imposte sono qualcosa di oppressivo, di negativo, qualcosa da evitare a tutti i costi, ha effetti pedagogici deleteri sulle giovani generazioni, minando alla base la stessa idea di Stato: non ci sembra esagerato definirla una idea eversiva. È davvero incredibile trovare evasori fiscali che si lamentano per il cattivo stato delle opere pubbliche senza riflettere che proprio i soldi che essi hanno sottratto all’erario sono responsabili di tale abbandono. Attenzione: queste persone non si lamentano perché i soldi delle loro tasse non vengono investiti in opere pubbliche (lamentela più che legittima), ma semplicemente non vogliono privarsi del «loro», della «roba» verghiana che è sempre più l’unica unità di misura di un essere umano:

    Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule – egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.[2]

    In questo senso può essere educativo riflettere sullo sciopero fiscale e sulle altre forme di disobbedienza civile: troppo spesso in questi anni si è citata la rivolta fiscale a Boston contro la Tea Tax come esempio da seguire: a parte il fatto che occorrerebbe parlare di rivolta contro il Townshend Acts del 1767, che aveva solamente un aspetto di tipo fiscale ed era sostanzialmente politico (il distacco delle colonie dalla madrepatria), anche quando si parla della ribellione contro il Tea Act che aumentava le tasse sul tè, avvenuta il 16 dicembre 1773 occorre essere precisi: il Boston Tea Party, ovvero la distruzione di merci avvenuta ad opera di coloni travestiti da indiani, oltre ad essere un’azione non propriamente coraggiosa (vedi il tentativo di scaricare su una minoranza – i pellerosse – la responsabilità dell’azione) portò a una sanguinosa guerra; e inoltre non era solamente sostenuto da egoismi economici ma da un progetto di società che portò, alla fine di anni di conflitto armato, alla creazione degli Stati Uniti.
    Dunque, occorre maggiore cautela quando si propone questo evento come paradigma per la ribellione fiscale; che per fortuna può essere fatta in modo nonviolento ma soprattutto in modo responsabile. Altro è non pagare una tassa autodenunciandosi e prendendo una posizione pubblica, accettandone le conseguenze; altro invece è andare di nascosto dal commercialista chiedendo se non sia possibile evadere qualche euro, tremando per anni al pensiero di un possibile controllo. Non c’è proprio nulla di nobile in questa seconda azione; c’è semmai molto di egoistico e anche qualche tratto di pavidità. Diverso ovviamente è chiedersi che fine fa il denaro raccolto con le tasse e le imposte, e proporre rivolte fiscali laddove questi soldi vengano utilizzati a fini poco solidali se non addirittura sottratti per veri e propri furti personali.

    Una sana indignazione

    La cosa che sconcerta e che ha addentellati pedagogici oltre che politici è la fine dell’indignazione di fronte a chi si arricchisce alle spalle e ai danni della cosa pubblica. L’indignazione popolare ai tempi di Tangentopoli, che certamente aveva anche caratteristiche populiste e demagogiche, ha lasciato il campo a una specie di torbida rassegnazione che al massimo arriva a dire «speriamo che non rubino proprio tutto e lascino qualcosa anche a noi».
    Ma proprio nel campo delle tasse e delle imposte occorre impostare la lotta pedagogica per ricostruire una morale (e non un moralismo) della politica, ricordando ad esempio che l’art. 54 della Costituzione afferma: «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore».
    Le due cose, moralità della politica e dovere da parte dei cittadini di contribuire al progresso economico dello Stato, non possono essere separate. In uno straordinario trattato appartenente al genere degli «Specula», ovvero dei testi che servivano alla formazione dei principi, Erasmo da Rotterdam afferma a proposito delle tasse:

    Sui beni che vengono abitualmente utilizzati dalla gente comune, il buon principe farebbe bene a imporre tasse minime: frumento, pane, vino, birra, stoffa e tutti gli altri materiali senza i quali non si può vivere giorno dopo giorno (…) si tassino le merci che provengono dai paesi stranieri e lontani, che certo non hanno a che fare con le necessità quotidiane, quanto piuttosto con il lusso e piaceri e che sono utilizzate prevalentemente dai benestanti.[3]

    Ma su quale sia la caratteristica principale del principe che ha il diritto di imporre queste tasse eque e razionali, Erasmo non ha dubbi:

    Chi si incarica di governare deve prima valutare con attenzione cosa imponga il ruolo di principe (…) si deve garantire la massima integrità di costumi, mentre nelle persone comuni può risultare sufficiente il fatto che non siano delinquenti. Bisogna svestire l’animo dalle passioni private (…) fare il bene anche agli ingrati (…) Se tutto questo non ti garba, chi te lo fa fare di ambire al potere? O perché non lo cedi a qualcun altro?[4]

    Quando lo storico Federico Caffè, misteriosamente scomparso, tenne la sua ultima lezione accademica, i suoi allievi gli regalarono un orologio d’oro. Inizialmente lui lo rifiutò, poi visto che i ragazzi c’erano rimasti male, lo portò a casa, entrò in un negozio di orologi, chiese quanto costasse, poi mise i soldi in una busta e la portò agli studenti dicendo: «Io ho già il mio stipendio dallo Stato».[5] Funzionari di questo tipo sono l’anima dello Stato democratico. Laddove essi mancano e proliferano invece i pavidi evasori fiscali, la democrazia ha il fiato corto oltre che le risorse necessariamente ridotte al lumicino: soprattutto, non ha alcuna possibilità di vedere il proprio futuro.


    NOTE

    [1] https://www.camera.it/_dati/leg16/lavori/stenbic/31/2009/0218/s020.htm (fine di pag. 5; inizio di pag. 12);
    https://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20080618_00/testointegrale20080618.pdf (tabella 1).
    [2] Giovanni Verga, La Roba, in Novelle Rusticane. Milano, Mondadori, 2000, pag. 201.
    [3] Erasmo da Rotterdam. L'educazione del principe cristiano, Edizioni di Pagina, pag. 219.
    [4] Ivi, pag. 125.
    [5] Cit. in Ermanno Rea, L'ultimo caffè, Torino, Einaudi, 2000.


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