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    La comunità pratica



    Apprendere dall’esperienza /7

    Michele Pellerey

    (NPG 2010-08-41)


    Tra le forme di apprendimento basate sull’esperienza la partecipazione a una comunità è certamente una delle più incisive sia dal punto di vista dell’interiorizzazione di valori e significati, sia da quello dello sviluppo di competenze personali e sociali. In essa si attuano le due forme di apprendimento fondamentali precedentemente esaminate: l’apprendere dall’esperienza diretta e l’apprendere dall’esperienza vicaria o mediata. D’altra parte lo sviluppo di una comunità umana ed ecclesiale valida e feconda è una dimensione fondamentale della pratica educativa come della pratica pastorale. In essa è possibile promuovere l’accoglienza prima e la condivisione di significati e prospettive esistenziali poi. In ambito educativo si prende in considerazione sia il clima generale attivato dal sistema di relazioni presente tra educatori ed educandi, tra educatori e tra educandi, sia l’insieme dei valori e delle attese esistente e percepito. In ambito ecclesiale una comunità è segnata dal comune riferimento di fede e dalla fraternità contraddistinta da amore reciproco.
    Nella ricerca pedagogica attuale, riferita in particolare al mondo degli adulti, Etienne Wenger e collaboratori hanno evidenziato alcune caratteristiche fondamentali di una comunità di pratica (E. Wenger, Comunità di pratica. Apprendimento, significato, identità, Milano, Cortina, 2006). Ciò che nelle loro analisi è riferito alle imprese di produzione di beni e servizi può ben essere trasposto con le dovute attenzioni agli ambienti educativi e pastorali. Per questo è bene iniziare con una riflessione sull’idea stessa di pratica educativa e pastorale.

    Sul concetto di pratica in ambito educativo e pastorale

    Il concetto di pratica, secondo E. Wenger, si riferisce a un agire «in un contesto storico e sociale che dà struttura e significato alla nostra attività». E precisa che tale concetto

    «include sia l’esplicito sia il tacito, […] il linguaggio, gli strumenti, i documenti, le immagini, i simboli, i ruoli ben definiti, i criteri specifici, le procedure codificate, le normative interne e i contratti che le varie pratiche rendono espliciti per tutta una serie di finalità. Ma include anche tutte le relazioni implicite, le convenzioni tacite, le allusioni sottili, le regole empiriche inespresse, le intuizioni riconoscibili, le percezioni specifiche, le sensibilità consolidate, le intese implicite, gli assunti sottostanti, e le visioni comuni del mondo».

    Se applichiamo questo concetto al caso di una istituzione educativa o di un’attività pastorale, possiamo parlare della pratica ivi presente e degli elementi che la caratterizzano. Le attività che si svolgono in tale contesto, siano di insegnamento o di apprendimento o di interscambio tra i soggetti presenti, coinvolgono «sempre la persona nella sua totalità, in quanto soggetto che agisce e conosce nello stesso tempo» (Ibidem, 60).
    D’altra parte, tali pratiche, secondo J. Bruner, si attuano nel contesto della cultura propria della istituzione considerata, in quanto «l’apprendimento e il pensiero sono sempre situati in un contesto culturale e dipendono sempre dall’utilizzo di risorse culturali» ((J. Bruner, La cultura dell’educazione, Milano, Feltri­nel­li, 1997, 17). Ogni comunità educativa o pastorale è segnata nel bene e nel male da una sua particolare cultura e da sue specifiche pratiche, che trovano senso e giustificazione nell’atmosfera culturale che le ispira e le sostiene.
    Aladsair McIntyre afferma inoltre che una qualsiasi pratica umana deve essere riletta come una «forma coerente e complessa di attività umana cooperativa socialmente stabilita» (A.MacIntyre, Dopo la virtù, Feltrinelli, 1988, 225). Nel caso delle istituzioni educative o pastorali le pratiche che in esse si attuano dovrebbero mirare alla realizzazione dei valori e dei significati che le caratterizzano.
    Le competenze dei singoli partecipanti alle attività che si svolgono in tale contesto possono essere definite allora come tentativi di rispondere alle attese che la comunità educativa o pastorale ha nei loro confronti ai vari livelli: da quelli più generali riguardanti l’intera istituzione, a quelli più particolari e propri dei singoli considerati sia come gruppo, sia come individui. Uno studio antropologico delle singole istituzioni metterebbe in luce l’esistenza di comunità segnate da un quadro di senso e di prospettiva esistenziale continuamente rinegoziato tra tutti suoi membri.

    Verso una comunità di pratica educativa e pastorale

    È in tale contesto che vengono definiti i compiti specifici che i vari attori dovrebbero portare a termine a livelli soddisfacenti di qualità. In una comunità nella quale partecipano soggetti con diversa competenza e responsabilità dal punto di vista dell’apprendimento entrano in gioco aspetti propri dell’apprendistato pratico e dei processi di apprendimento da modelli, come la valorizzazione del concetto di zona di sviluppo prossimale dovuto a L. S. Vygotskji.[1] È chiaro il ruolo formativo di una realtà viva di pratica educativa se si considera come accanto ai soggetti in formazione, che, differendo tra loro per livello di sviluppo delle conoscenze, abilità e competenze, possono costituire già un sistema di reciproco aiuto e sostegno, ci sono formatori a loro volta diversamente competenti nell’esplicare le loro incombenze. L’intero sistema comunitario viene così a costituirsi con un sistema di relazioni di aiuto e sostegno nell’apprendimento, in quanto si moltiplicano le possibilità di aiuto, stimolo e modello, secondo livelli molteplici di maturità e competenza.
    Analogamente una comunità pastorale dovrebbe essere il luogo nel quale i nuovi membri sia giovani, sia adulti, sperimentano una vita di cristiana intrisa di valori cristiani attraverso la partecipazione alle sue pratiche, sia liturgiche, sia di catechesi, sia di carità e di assistenza. I più anziani e impegnati nella vita comunitaria dovrebbero costituire il riferimento per un apprendimento di comportamenti, discorsi, forme di operare, sistemi di relazione che incarnano tali valori nel vivere quotidiano.
    Il tentativo ora è quello di valorizzare dal punto di vista educativo e pastorale le proposte di Wenger e collaboratori nel caratterizzare le comunità di pratica e nel prospettare una loro possibile coltivazione.
    Naturalmente tale operazione ha alcuni limiti intrinseci, in particolare nel caso delle comunità pastorali, limiti che derivano dalla natura stessa dello stare insieme e dell’operare comunitariamente. Basti pensare alle celebrazioni liturgiche, all’amministrazione dei sacramenti, all’azione pastorale verso i malati, gli anziani, i giovani. Ma anche alle forme specifiche di carità educativa che devono caratterizzare i contesti formativi. Tuttavia molte delle suggestioni proposte possono aiutare anche questi contesti a crescere nella loro qualità e significatività.

    L’impegno reciproco

    Nell’esaminare le caratteristiche di una comunità di pratica, Wenger evidenzia tre elementi fondamentali da considerare con attenzione: l’impegno reciproco, l’impresa comune, il repertorio comune.

    «La prima caratteristica della pratica come fonte di coerenza di una comunità è l’impegno reciproco dei partecipanti. La pratica non esiste in astratto. Esiste perché le persone sono impegnate in azioni di cui negoziano reciprocamente il significato. In questo senso, la pratica non risiede nei libri o negli strumenti, anche se può coinvolgere tutti i tipi di oggetti. Non risiede in una struttura preesistente, anche se non nasce in un vuoto storico. La pratica risiede in una comunità di persone e nelle relazioni di impegno reciproco attraverso le quali esse fanno tutto ciò che fanno. L’appartenenza a una comunità di pratica è dunque un patto di impegno reciproco. È ciò che definisce la comunità».

    La natura di una comunità educativa e pastorale si viene così a configurare come una comunità in cui si alimenta e si coltiva un impegno educativo e di animazione reciproca a vari livelli e secondo le differenti responsabilità e competenze, in un intenso contesto di relazioni interpersonali. È quello che può essere anche definito il luogo ideale della conversazione educativa e pastorale, cioè di un complesso dialogo che permane nel tempo e che favorisce lo scambio di significati e di apporti fra tutti gli attori presenti. È in questo luogo che si possono assimilare quelle conoscenze definite tacite o personali in quanto non trasmissibili attraverso norme o principi, bensì solo per sistematica interazione tra soggetti portatori di tali conoscenze, interazione che di solito assume sia le forme apprenditive dell’apprendistato, sia modalità narrative di vario genere. Le forme pedagogiche basate sull’interazione tra principianti ed esperti e sulle varie modalità narrative sono le strade ordinarie della sensibilizzazione e dell’assimilazione delle conoscenze e competenze di natura tacita (M. Polanyi, La conoscenza inespressa, Roma, Armando, 1983). D’altro canto anche la possibilità di sperimentare valori e di interiorizzarli implica il fatto che essi pervadano e caratterizzino l’ambiente di vita della comunità.

    «Far parte di ciò che conta è una condizione necessaria per essere coinvolti nella pratica di una comunità, così come l’impegno è ciò che definisce l’appartenenza. Ciò che necessita a una comunità di pratica per realizzare una coerenza sufficiente a funzionare può essere molto sottile e delicato. Il tipo di coerenza che trasforma l’impegno reciproco in una comunità di pratica richiede del lavoro. Il lavoro di ‘mantenimento della comunità’ è dunque una parte intrinseca di qualunque pratica.

    Può tuttavia risultare meno visibile di altri aspetti, più strumentali, di quella pratica. Di conseguenza, viene facilmente sottovalutato o addirittura totalmente ignorato. Anche quando c’è molto in comune nei rispettivi background dei partecipanti, il coordinamento specifico che è necessario per fare insieme le cose richiede una costante attenzione».
    In questa condizione emergono alcune ulteriori caratterizzazioni.
    In primo luogo la consapevolezza delle differenze esistenti tra i membri della comunità, oltre che per le qualità delle persone, anche per il livello di competenza raggiunto e la diversa responsabilità di ciascuno. L’impegno reciproco implica non solo la nostra competenza e la nostra responsabilità, ma anche la competenza e la responsabilità degli altri. L’esistenza in particolare di ruoli diversi deve portare a contributi complementari e ciò è possibile tramite l’impegno reciproco. Questo crea d’altra parte relazioni tra persone e la possibilità di attingere a ciò che facciamo e a ciò che sappiamo, nonché la capacità di connetterci significativamente a ciò che non facciamo e a ciò che non sappiamo, ossia ai contributi e alle conoscenze degli altri.

    Un’impresa comune e un repertorio condiviso

    La seconda e la terza caratteristica della pratica come fonte di coerenza per la comunità è la condivisione di un’impresa comune e di un repertorio di simboli, parole, storie, gesti, modi di operare, azioni e concetti. Nel caso educativo l’impresa comune è la ricerca del bene degli educandi attraverso pratiche che aiutino ciascuno a crescere dal punto di vista personale, sociale, culturale e professionale. Nel caso pastorale il senso di tutto questo è legato a una prospettiva di fede in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo e di amore reciproco. Il repertorio condiviso ne è segnato profondamente, in quanto esso si innesta in una millenaria tradizione radicata nel Vangelo e sempre rinnovata nell’incontro con la storia e le culture diverse del pianeta.
    Il riferimento comune tuttavia deve essere continuamente rinegoziato a livello di discorsi e di azioni che segnano la vita comunitaria. L’impresa comune, infatti, non è mai pienamente determinata da un mandato esterno.

    «Anche quando una comunità di pratica nasce in risposta a un mandato esterno, la pratica evolve nella risposta della comunità a quel mandato. Anche quando determinati membri hanno più potere di altri, la pratica evolve in una risposta comunitaria a quella situazione. Anche quando la risposta è una rigida sottomissione, la sua forma e la sua interpretazione nella pratica vanno considerate una creazione collettiva locale della comunità».

    Più si sviluppano rapporti di autonomia e responsabilizzazione più si sollecita un processo generativo e vincolante; ciò sprona l’azione e le dà orientamento; coinvolge le nostre motivazioni e i nostri sentimenti; invita a nuove idee, oltre a verificarne la validità.

    «L’impresa comune è una risorsa di coordinamento, di interpretazione, di impegno reciproco; è come il ritmo per la musica. Il ritmo non è casuale, ma non è neppure un vincolo. Fa parte, piuttosto, del dinamismo della musica, in quanto coordina il processo stes­so con cui viene a esistenza. Estrapolato dall’esecuzione, diventa fisso, sterile e privo di significato; ma nell’esecuzione rende la musica interpretabile, partecípativa e condivisibile. È una risorsa costruttiva, insita nella natura stessa della musica come esperienza condivisa».

    Coltivare le comunità di pratica pastorale

    In un’opera tradotta in italiano nel 2007 E.Wenger-R.McDermott-W.M. Snyder forniscono alcuni principi per Coltivare comunità di pratica (Milano, Guerini, 2007). Qualche consiglio può essere qui sintetizzato. In particolare possono essere ricordati: favorire differenti livelli di partecipazione; sviluppare spazi di comunità sia pubblici che privati; concentrarsi sul valore; combinare esperienze familiari ed eventi inconsueti; dare ritmo alla comunità.
    Quanto ai diversi livelli di partecipazione alla comunità, gli Autori ne segnalano tre principali. Il primo è costituito dal nucleo centrale, un gruppo di persone che partecipano attivamente alla vita della comunità.

    «Avviano spesso progetti, identificano le tematiche su cui orientare la comunità e le sue specifiche traiettorie di apprendimento. Questo gruppo si colloca al centro della comunità. Quando la comunità cresce e matura, questo nucleo assume gran parte della leadership nella comunità e i suoi membri svolgono un ruolo molto vicino a quello del coordinatore della comunità. Il nucleo centrale è solitamente piuttosto ristretto e non supera il 15% dei membri dell’intera comunità».

    Il secondo livello comprende il grup­po di coloro che frequentano regolarmente gli incontri e occasionalmente partecipano alle iniziative più impegnative e alla progettazione delle stesse. Ciò però non è fatto con la regolarità o l’intensità del nucleo centrale. Anche il gruppo dei partecipanti attivi ha dimensioni abbastanza limitate e costituisce un altro 15-20% della comunità.
    Più numeroso in genere è l’insieme dei membri della comunità che si impegnano solo in una partecipazione periferica e raramente prendono parte alle attività. Questi membri preferiscono tenersi ai margini osservando l’interazione del gruppo centrale e dei membri attivi. Alcuni rimangono in posizione periferica perché avvertono che le loro osservazioni non sono utili all’insieme dei partecipanti o perché sentono di non avere sufficiente autorità. Altri, semplicemente, non hanno tempo di contribuire più attivamente.

    «Le persone ai margini […] spesso non sono così passive come sembrano. Come le persone che siedono in un caffè guardando ciò che avviene sulla strada, questi partecipanti acquisiscono nuove idee dalle discussioni degli altri e cercano di farne buon uso. Possono anche avere conversazioni private sulle questioni discusse sul forum pubblico. A modo loro, dunque, apprendono molto».

    Infine, esternamente a questi tre livelli di partecipazione, si situano le persone che gravitano attorno alla comunità e che, pur non essendone membri, hanno interesse per le sue attività.

    «I membri della comunità si muovono attraverso questi livelli di partecipazione. I membri del nucleo centrale spesso si spostano ai margini quando cambia il tema della comunità. I membri attivi possono essere profondamente coinvolti per un mese o due e poi allentare il loro impegno e coinvolgimento. I membri periferici si spostano verso il centro quando sono mobilitati i loro interessi. Dato che i confini di una comunità sono fluidi, anche coloro che si trovano fuori dalla comunità possono diventare piuttosto coinvolti per un certo tempo quando il focus di una comunità si sposta verso le loro aree di interesse e di esperienza professionale».

    La chiave per favorire una buona partecipazione alla comunità e una certa intensità di movimento tra i vari livelli è la progettazione di attività che permettano ai partecipanti di ciascun livello di sentirsi membri a pieno titolo. Ciò può essere favorito da iniziative che coinvolgono in maniera pubblica e comune i membri della comunità, ma anche dallo sviluppo di spazi privati, nei quali gli scambi tra le persone avvengono secondo relazioni e interazioni più personali. Accanto a incontri collettivi vanno messi in conto incontri individuali e o di piccolo gruppo.

    «Le dimensioni pubblica e privata della comunità sono interrelate. Quando le relazioni individuali tra i membri della comunità sono forti, gli eventi risultano più ricchi. Infatti, dato che i partecipanti si conoscono bene tra loro, giungono spesso agli eventi della comunità con una molteplicità di attività in agenda: completare un piccolo lavoro di gruppo, ringraziare un collega per un’idea, trovare la persona giusta che possa essere d’aiuto su un problema specifico».

    Nella progettazione delle attività vanno poi intrecciati esperienze famigliari ed eventi inconsueti. Tuttavia un’attenzione particolare va data al ritmo secondo il quale la vita comunitaria si sviluppa. Al centro della comunità vi è una rete di relazioni durevoli tra i membri, ma la loro cadenza è influenzata in misura rilevante dal ritmo degli eventi della comunità. Le riunioni periodiche, le conferenze, l’attività che avviene sul sito web, i pranzi informali scandiscono il tempo della comunità. Quando il ritmo è sostenuto, la comunità avverte un senso di movimento e di vitalità. Ma, se questo ritmo è troppo veloce, la comunità è affaticata e le persone smettono di partecipare perché si sentono sovraccariche. Quando il ritmo è troppo basso, invece, la comunità prova stanchezza e un senso di debolezza. A volte i progetti strategici e gli eventi speciali prevedono delle tappe importanti per la comunità che rompono il suo ritmo regolare.
    Il ritmo della comunità rappresenta l’indicatore più forte della sua vitalità. All’interno di una stessa comunità esistono molti ritmi: l’alternarsi di eventi familiari e di rottura, la frequenza di interazioni private, l’andare e venire delle persone dalle posizioni periferiche alla partecipazione attiva e lo stesso ritmo dell’evoluzione complessiva della comunità. Una combinazione degli incontri che coinvolgono l’insieme della comunità e di quelli che riuniscono piccoli gruppi, crea un equilibrio tra il brivido dell’esporsi a molte idee differenti e il comfort di relazioni più raccolte. La miscela di forum per la condivisione delle idee e di progetti per lo sviluppo di strumenti specifici, favorisce sia le connessioni casuali che la progettualità della comunità. Non esiste un ritmo ideale valido per tutte le comunità e questo tende a cambiare con l’evoluzione della comunità. Tuttavia, identificare il giusto ritmo per ogni fase della vita della comunità è fondamentale per il suo sviluppo.

    NOTE

    [1] La zona di sviluppo prossimale in ambito educativo può essere così descritta: «l’insieme delle conoscenze, capacità e competenze che l’educando può manifestare solo con l’aiuto di chi già le possiede». Cf Lev Vygotskij, Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, Roma-Bari, Laterza, 1990.


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