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    La violenza



    I temi negati dell’educazione /1

    Mario Pollo

    (NPG 2010-03-46)


    La violenza è l’ombra, oscura e minacciosa, che copre con un velo di angoscia la vita dell’uomo, in particolare quella che si svolge nei luoghi dove l’aggregazione umana si fa particolarmente densa e vasta come nelle città. Nonostante il suo volto oscuro e indecifrabile la violenza appare, paradossalmente, familiare come se appartenesse alle più profonde fibre dell’umano.
    Spesso si tenta di esorcizzare questo senso di familiarità collocando la violenza all’esterno dell’umano e attribuendone la presenza agli errori dell’educazione, allo sviluppo anomalo di alcune culture e tradizioni locali, a problemi di natura socioeconomica, politica e religiosa oppure, come avviene di questi tempi, a patologie psichiche che affliggerebbero le persone che la agiscono. Anche se rassicurante, questo esorcismo non offre una spiegazione convincente dell’origine della violenza nella vita umana e del perché essa, nei recessi più profondi della coscienza, è sentita come familiare e in qualche modo appartenente all’orizzonte della vita.
    La ricerca della spiegazione deve muovere dalla premessa del riconoscimento che il radicamento della violenza nell’uomo dimora nella sua parte più profonda, addirittura nel livello biologico, perché come rileva Girard:

    «studi recenti suggeriscono che i meccanismi fisiologici della violenza variano ben poco da un individuo all’altro, perfino da una cultura all’altra. Secondo Anthony Storr, in Human Aggression, niente assomiglia maggiormente a un gatto o ad un uomo adirato di un altro gatto o di un altro uomo adirato».[1]

    Sempre a riguardo della profondità del radicamento della violenza nell’umano, passando dal livello biologico a quello culturale, non si può non constatare «che tutti gli ordinamenti e le forme di potere della società umana si fondano su una violenza istituzionalizzata»[2] e che in qualche modo la violenza nutre la vita umana.
    Questa constatazione fa dire che la consapevolezza della «necessità» e dell’ineludibilità della violenza è presente, anche se negata, nell’orizzonte esistenziale dell’uomo, così come la percezione confusa che la rinuncia al suo esercizio avrebbe come conseguenza l’impossibilità della sopravvivenza. E tutto questo produce un ineliminabile senso di colpa.

    VIOLENZA E STORIA DELL’UOMO

    Ora, se si vogliono veramente educare i giovani al rifiuto della violenza o perlomeno al suo controllo attraverso le istituzioni sociali, è necessario ricercare una spiegazione più vera e autentica di quella proposta dall’esorcismo relativamente alla sua presenza nella vita umana. Una spiegazione che dia anche ragione di questa consapevolezza oscura.
    La via che si può percorrere nella ricerca di questa spiegazione richiede un viaggio nel tempo verso il luogo chiamato preistoria. È in questo luogo che si può scoprire che la violenza si è sedimentata nella vita dell’uomo e nelle sue culture durante un percorso evolutivo di quasi due milioni e mezzo di anni. È in questo periodo dell’evoluzione umana, che copre circa il 95-99% dell’intera storia dell’uomo sulla terra e che coincide con il Paleolitico inferiore, che la necessità della violenza è emersa.
    Quando si riflette sulla natura e sulla condizione umana, solitamente questa enorme parte della storia dell’uomo sulla terra viene rimossa, dimenticando che è in quel periodo preistorico che si è compiuta la quasi totalità dell’evoluzione umana. Si preferisce, invece, ricordare esclusivamente i diecimila anni che dall’inizio del neolitico, in cui avviene il passaggio dalla raccolta e dalla caccia all’agricoltura, conducono ai giorni nostri.
    Si dimentica, cioè, che questi ultimi diecimila anni sono solo un piccolo tratto del cammino evolutivo che l’uomo ha compiuto dopo la sua comparsa sulla terra. L’esperienza accumulata dall’uomo durante il Paleolitico inferiore è comunque inscritta, come è stato acclarato dalla psicologia del profondo, nelle profondità psichiche dell’uomo e nella area inconscia delle sue culture.
    L’uomo preistorico, non particolarmente dotato a livello di organismo biologico di organi tali da consentirgli un comportamento predatorio nei confronti degli altri animali e non potendo sopravvivere semplicemente come raccoglitore, ha dovuto superare le proprie carenze biologiche per mezzo della creazione di strumenti artificiali e di istituzioni.
    Ciò è stato reso possibile dalla posizione verticale del suo corpo e, quindi, dalle mani libere, la cui attività ha stimolato l’ulteriore sviluppo quantitativo e qualitativo del cervello.
    Con altre parole sì può dire che la scimmia nuda ha superato i propri limiti fisiologici con la creazione di una cultura, cosa che ha fatto sì che la selezione della specie si spostasse dal piano biologico a quello culturale.
    I cardini di questa cultura erano due: l’invenzione e l’utilizzazione delle armi e degli utensili; l’ordinamento sociale, di cui una parte importante è stata costituita dalla differenziazione dei ruoli sociali sulla base del sesso.
    La differenziazione dei ruoli sociali sulla base del sesso è stata talmente estesa nel tempo da entrare a far parte del programma biologico ereditario degli esseri umani.
    Il maschio, ad esempio, possiede cosce lunghe e affusolate, che gli consentono una maggior velocità, così come spalle larghe e braccia muscolose perché l’esercizio della caccia richiede oltre alla velocità la forza.
    Le donne, invece, dovendo partorire bambini il cui cranio diveniva sempre più grosso, possedevano un corpo le cui forme erano rotonde e morbide.
    La neotenia dell’uomo, ovvero la lunga durata del periodo giovanile che ne rende possibile lo sviluppo spirituale attraverso l’inculturazione, richiede lunghi anni di protezione che erano assicurati dal focolare materno, mentre il padre svolgeva il ruolo di sostentatore della famiglia.
    Un altro carattere dell’ordinamento sociale arcaico, oltre a quello della differenziazione sessuale, è stato costituito dalla formazione della comunità di caccia, perché il successo della caccia dipendeva dalla capacità di cooperare all’interno di un gruppo organizzato. L’uomo preistorico apparteneva, quindi, a due comunità che si intersecavano: la lega maschile e la famiglia.
    Il suo mondo è scisso in due ambiti, spazio interno e spazio esterno, sicurezza e avventura, cosa femminile e cosa maschile, amore e morte. Infatti, al centro del nuovo tipo di comunità, il cui equivalente biologico è il branco di lupi, sta l’atto di uccidere e mangiare. L’uomo deve continuamente realizzare il passaggio tra i due ambiti.[3]
    Il mantenimento dell’ordinamento sociale ha prodotto la nascita dell’educazione, perché il maschio doveva prendersi cura dei figli maschi e istruirli affinché fossero in grado di lasciare il mondo protetto del focolare materno ed entrare in quello dei cacciatori. L’ingresso nel mondo dei maschi cacciatori comportava per il giovane l’incontro con la morte e il superamento dell’inibizione ad uccidere. Questo aspetto dell’educazione era quello più delicato, perché era aperto al rischio che il perseguimento della sopravvivenza attraverso l’uccisione di animali introducesse i germi di distruttività nella vita umana.
    Questo rischio è stato affrontato trasferendo l’inibizione ad uccidere dal piano degli istinti a quello della cultura, con le sue norme, i suoi valori e i suoi principi regolatori. Ciò ha fatto sì che l’uso delle armi fosse sottoposto a regole rigide, fissando gli ambiti in cui esso era legittimo o, addirittura, auspicabile e quelli in cui era vietato. A questo corrispondeva poi il fatto che una stessa azione compiuta in una determinata situazione fosse considerata buona e in un’altra criminale.
    In questo passaggio dall’istinto alla cultura nel controllo della violenza è stato fondamentale il costituirsi di una tradizione educativa forte in grado di vincolare le persone in un modo analogo a quello dell’impronta biologica istintuale.
    Nonostante questo però nell’uomo, una volta superata la barriera istintuale che negli animali tiene nettamente separata l’aggressione intraspecifica dal comportamento nella caccia e nel pasto, questi due comportamenti si sono spesso sovrapposti. La sovrapposizione è stata prodotta dal fatto che per l’uomo il «passaggio alla caccia fu uno straordinario autosuperamento, per il quale dovettero essere impiegate tutte le riserve spirituali; e proprio in quanto divenne il comportamento specifico di un sesso, cioè una ‘cosa da uomini’, tanto più facilmente potè entrarvi l’aggressione intraspecifica programmata per la lotta per l’accoppiamento, insieme con impulsi di frustrazione sessuale».[4]
    Occorre poi ricordare che nell’uomo la sessualità ha subito un incremento al di là di ogni misura, perché essa doveva garantire non solo la riproduzione ma anche il legame tra l’uomo e la donna e, quindi, la stabilità della famiglia e il suo sostentamento.
    L’aumento di aggressività indotto dallo straordinario sviluppo della sessualità è divenuta un elemento fondante della comunità perché essa, attraverso una ristrutturazione, viene rivolta all’esterno, ed è questo che consente la nascita per la prima volta di una comunità di persone. In tal modo, la lega maschile diventa un gruppo chiuso, vincolato dal giuramento proprio in virtù della pericolosità della carica esplosiva accumulata all’interno, che si sprigiona all’esterno nella pericolosa e sanguinaria caccia. L’effetto interno e quello esterno dell’aggressività, di cui viene investita la caccia, si condizionano e si incrementano vicendevolmente: la comunità è definita dalla partecipazione alla cruenta opera maschile; presto il mondo fu sottomesso al cacciatore primitivo.[5]
    Ora il fatto che a differenza delle altre specie animali la caccia nell’uomo non è governata dalla correlazione geneticamente fissata tra predatore e preda, ma da un «comportamento orientato su un antagonista umano, e insomma dall’aggressione intraspecifica, ha una conseguenza sorprendente: l’animale preda diventa così a sua volta un antagonista quasi umano, viene vissuto come un uomo e trattato a questa stregua».[6]
    Questo valeva soprattutto nei confronti dei grossi mammiferi che erano la preda privilegiata dei cacciatori. I mammiferi, oltre a quella nella struttura corporea e nella locomozione, hanno con l’uomo somiglianze nello sguardo degli occhi, nel respiro, nella fuga e nell’attacco, nella paura e nella furia. Il momento dell’uccisione, della morte dell’animale, era quello in cui questa somiglianza era percepita in modo forte.
    Questa percezione è alla base del sentimento quasi fraterno che i cacciatori sperimentavano nei confronti dell’animale, e che è alla base non solo di miti ma anche della possibilità di sostituire l’uomo con un animale nella celebrazione di un sacrificio di sangue. Ma non solo. Nell’ideologia delle tribù dei cacciatori l’animale non era mai considerato un essere inferiore, ma un essere equivalente di aspetto diverso che si offriva spontaneamente all’uomo per essere ucciso, consapevole del fatto che verrà ucciso con riconoscenza e che ci sarà una cerimonia affinché la sua vita possa ritornare al luogo di origine e lì rinascere l’anno successivo.
    Tra l’altro questa ideologia rappresenta un tentativo di superamento del senso di colpa, dell’angoscia prodotta dalla vista del sangue che scorre, nonostante l’educazione abbia cercato di sradicare nel cacciatore l’inibizione biologica che mira alla conservazione della vita.
    Nelle culture umane sin dall’inizio si è stabilito quel delicato equilibrio tra il rispetto della vita e la forza omicida, tra la pace e l’ordine che deve regnare all’interno della propria comunità e l’esercizio della violenza al suo esterno.
    La religione con i suoi riti sacrificali aveva, tra l’altro, il compito di mantenere questo equilibrio e di esorcizzare l’angoscia e la colpa offrendo all’uomo la possibilità di una riparazione e di una restituzione.
    Il rapporto tra condizione umana e violenza si è svolto, come detto all’inizio, in un percorso durato più di due milioni di anni in cui si è compiuta l’evoluzione umana. Questo fa dire agli studiosi che «l’uomo diventò uomo attraverso la caccia, attraverso l’atto dell’uccisione» e che «l’umanità è la discendenza di Caino».[7]
    Questa rapida incursione nella preistoria, oltre ad aver consentito la presa di coscienza del ruolo che la violenza ha esercitato nell’evoluzione umana, ha fatto emergere come l’educazione sia stata lo strumento attraverso cui i cacciatori hanno tentato di sradicare nell’uomo l’inibizione biologica del versamento del sangue. Ciò significa che l’educazione sin dalle epoche primordiali ha cercato di sradicare l’uomo dalla natura per radicarlo nella cultura. E come si è visto, questo passaggio è fortemente rischioso, perché eliminare nell’uomo l’inibizione biologica alla violenza intraspecifica significa che questa è solo più soggetta alla libera scelta dell’individuo. Questo perché la cultura non è in grado di garantire che tutte le persone che la abitano rispettino i suoi ordinamenti e, quindi, le sue proibizioni.
    Se a questo si aggiunge che per milioni di anni l’uomo ha esercitato la violenza sia verso gli animali che verso altri esseri umani non appartenenti alla sua comunità, ma qualche volta anche appartenenti alla sua comunità, esorcizzando il senso di colpa, si comprende perché la violenza produca nella coscienza umana quell’ambivalenza.

    VIOLENZA E DIFFERENZA

    Girard osserva che

    nella religione primitiva e nella tragedia opera uno stesso principio fondamentale. L’ordine, la pace e la fecondità riposano sulle differenze culturali. Non sono le differenze ma la loro perdita a provocare la rivalità pazza, la lotta ad oltranza tra gli uomini di una stessa famiglia o di una stessa società.[8]

    E più avanti:

    non è la differenza bensì la sua perdita a causare la confusione violenta […] La fine della differenza è la forza che domina la debolezza, il figlio che colpisce a morte suo padre, è dunque la fine di ogni giustizia umana, la quale si definisce anch’essa in modo logico quanto inaspettato in termini di differenza. Se l’equilibrio è la violenza, come nella tragedia greca, bisogna pure che la non violenza relativa garantita dalla giustizia umana si definisca come squilibrio, come una differenza tra il «bene» e il «male», parallela alla differenza sacrificale tra il puro e l’impuro. Perciò niente è più estraneo a questo pensiero dell’idea della giustizia come bilancia sempre uguale, imparzialità mai turbata. La giustizia umana ha le sue radici nell’ordine differenziale e soccombe con esso.[9]

    Questo significa, secondo Girard, che l’abolizione delle gerarchie e delle differenze culturali, non solo tra le persone ma, ad esempio, tra i valori le ideologie e le visioni del mondo, anziché favorire l’armonia e la pace tra gli uomini, è foriera di violenza, mentre, al contrario,
    Il mondo moderno aspira all’uguaglianza tra gli uomini e tende istintivamente a vedere nelle differenze, anche se queste non hanno nulla a che vedere con la condizione economica e sociale degli individui, altrettanti ostacoli all’armonia tra gli uomini[10].
    Da un altro punto di vista, seguendo Durkheim, si potrebbe dire che l’indebolimento della dialettica tra identità e alterità produce violenza.
    Questo principio così chiaro e lineare, che induce a pensare che per esorcizzare la violenza sia sufficiente tutelare la differenza, deve essere però relativizzato, perché nella vita umana accade sovente che sia l’esistenza della differenza a produrre la violenza. O perlomeno a giustificarla.
    Questo è un altro dei frutti della transizione della gestione della violenza dalla natura alla cultura, ovvero, come si è visto, dello sradicamento, attraverso l’educazione, del divieto del sangue dal livello biologico e del suo trasferimento a quello culturale.
    In molte popolazioni arcaiche i membri di tribù rivali erano ritenuti non umani e, quindi, potevano essere uccisi senza incorrere nel divieto del sangue. Un’altra differenza che garantiva in alcuni popoli l’aggiramento di questo divieto nei confronti dei neonati, era la credenza che i bambini sino a che non ricevevano un nome non erano persone e appartenevano perciò al non umano.
    La differenza all’interno dello stesso gruppo sociale più nota, che consentiva l’esercizio della violenza omicida, era comunque quella in uso anche tra i popoli con una civiltà sviluppata, come ad esempio tra i romani, e che riguardava i bambini che nascevano con qualche deformità o con alcune caratteristiche particolari. Questo indica che la violenza contro i nemici e alcune forme di diversità che sono presenti nella realtà sociale contemporanea sono in linea di continuità con quegli aspetti primordiali presenti nelle culture arcaiche che consentivano la neutralizzazione del divieto del sangue.
    Questo significa che se la differenza da un lato garantisce dall’esplosione della violenza tra i membri di uno stesso gruppo sociale, dall’altro lato giustifica l’uso della violenza contro membri di altri gruppi sociali o verso i membri «devianti» del proprio gruppo.
    Ma non solo. Vi è, infatti, un’altra differenza alla base della violenza all’interno dello stesso gruppo sociale, ed è quella prodotta dalla trasformazione del desiderio mimetico in rivalità mimetica. Il desiderio mimetico è quello che spinge le persone a imitare un modello, a cercare di essere e di avere ciò che il modello è o ha. Come si può ben comprendere, questa forma del desiderio è quella che consente all’uomo di emanciparsi dalle costrizioni dell’istinto e di elaborare un progetto di vita che, imitando i desideri, le preferenze, i comportamenti, gli atteggiamenti, le conoscenze e i pregiudizi di coloro che si è scelto come modelli, si colloca nel territorio umanizzato della cultura.
    Come afferma Girard,

    se i bambini non avessero il desiderio mimetico, se non scegliessero per forza di cose come modelli gli esseri umani che li circondano, l’umanità non possederebbe né linguaggio né cultura».[11]

    Tuttavia, il desiderio mimetico se da un lato consente all’uomo di sfuggire all’animalità, dall’altro lato può abbassarlo al di sotto della stessa animalità.
    E questo accade quando il desiderio innesca quella che può essere definita una rivalità mimetica. La rivalità va qui intesa nella sua accezione di forma di competizione degenerata, in cui l’oggetto dell’azione dei competitori non è più la meta, ma il rivale, la sua sconfitta e la sua distruzione metaforica o reale.
    A questo proposito, occorre ricordare che:

    la fonte principale della violenza tra gli uomini è la rivalità mimetica. Essa non è accidentale, ma non è neppure il frutto di un «istinto di aggressione» o di una «pulsione aggressiva». Le rivalità mimetiche possono diventare talmente forti da far sì che due individui si screditino a vicenda, si derubino di ciò che possiedono, si seducano le rispettive mogli, e alla fine non indietreggino nemmeno davanti all’assassinio.[12]

    La differenza manifesta il proprio volto ambiguo, bifronte, rivelando in ciò la sua integrale appartenenza all’umano che, come è noto, è caratterizzato dall’ essere sempre aperto, sin dalle origini, sia al bene che al male, sia alla costruzione che alla distruzione.

    ANIMARE ALLA NONVIOLENZA

    La fiducia che, nonostante la profondità delle radici della violenza nell’uomo, l’animazione può affrontare l’educazione alla nonviolenza, nasce dal riconoscimento che Gesù ha reso possibile la liberazione dell’uomo da queste radici perché Egli, divenendo vittima, ha espiato il passato violento della storia umana e con la sua resurrezione ha rinnovato la condizione umana, aprendola alla pienezza dell’amore.
    L’uomo può perciò, se si pone nella sequela di Gesù, volgere finalmente il suo sguardo al cielo con la consapevolezza della presenza del Regno nella vita che abita, dell’avvento di un mondo nuovo in cui la violenza non solo non è più necessaria alla sopravvivenza dell’uomo ma, anzi, è un impedimento alla sua piena realizzazione umana.
    L’educazione, per partecipare al processo di costruzione di questo nuovo mondo liberato dalla violenza, deve proporre Gesù come modello del desiderio mimetico. Perché:

    Ciò che Gesù ci invita a imitare è il suo desiderio, è lo slancio che lo dirige verso la meta che si è fissato: assomigliare il più possibile al Padre. [...] All’opposto di ciò che facciamo noi, egli non ha la pretesa di «essere se stesso», non si vanta di «non obbedire che al proprio desiderio». Il suo unico scopo è di divenire l’immagine perfetta di Dio. Cristo si impegna quindi con il massimo zelo a imitare questo Dio che è suo Padre. Invitandoci a imitarlo a nostra volta, egli ci invita a imitare la sua stessa imitazione. [...] Perché mai Gesù considera il Padre e se stesso come i migliori modelli per tutti gli uomini? Perché né il Padre né il figlio desiderano in modo egoistico, avido. Dio «fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni». Egli dà agli uomini senza calcolare, senza stabilire fra loro la minima differenza e lascia crescere la zizzania con il grano fino al tempo della mietitura. Se noi imitiamo questo disinteresse divino, non cadremo mai nella trappola delle rivalità mimetiche.[13]

    Gesù annulla il versante distruttivo del desiderio mimetico offrendo ad esso uno sbocco costruttivo, invece di limitarsi a proibirlo. È in questo senso che si può comprendere il significato dell’affermazione di Gesù di essere venuto non a abolire la legge, ma a realizzarla (cf Matteo 7,7; Luca 11,9)., e l’insegnamento di S. Paolo circa il carattere regressivo delle proibizioni della legge (Romani, 7, 7-25.).
    La rivelazione di Gesù aveva infatti consentito all’Apostolo di comprendere come i divieti, per il loro carattere «negativo», stimolino nelle persone la tendenza mimetica alla trasgressione:
    La maniera migliore di prevenire la violenza non è proibire gli oggetti o lo stesso desiderio rivalitario, come fa il decimo comandamento, bensì fornire agli uomini il modello che, anziché trascinarli nelle rivalità mimetiche, li protegga da esse»:[14]
    Tra l’altro, solo se l’uomo aderisce al modello di Gesù, rinunciando a essere se stesso, trova se stesso e la sua vera autonomia.
    Infatti, nella condizione umana è presente quel paradosso che fa sì che l’uomo più è narcisisticamente centrato sulla propria autorealizzazione, più è orgoglioso e egoista, più diventa dipendente e servo dei modelli di potenza e di prestigio presenti nella cultura sociale che lo spingono lontano da se stesso.
    L’animazione deve aiutare il giovane a imitare Cristo, se vuole che il suo desiderio divenga non ciò che lo abbassa al di sotto dell’animalità, ma ciò che lo eleva al di sopra e lo aiuta a comprendere che solo la dipendenza radicale da Dio può offrirgli la pienezza della libertà e dell’autonomia e, quindi, la signoria vera della sua vita.
    Educare il desiderio del giovane non significa, per quanto sinora detto, semplicemente proibirlo ma offrirgli un modello di imitazione che lo protegga dal desiderio stesso.
    Per questo motivo, è necessario che il giovane incontri Cristo, non solo nella narrazione ma quotidianamente attraverso la sua imitazione, anche se imperfetta, da parte degli adulti, degli animatori e della comunità.
    In sintesi, riprendendo Girard, è necessario proporre ai giovani Gesù come modello del loro desiderio. Occorre però tenere conto che anche in questo caso il desiderio vivrà l’esperienza dell’incontro con il limite della realtà, della finitudine, delle leggi e delle norme che sovrintendono alla vita umana.
    Ad esempio, il desiderio di imitare Cristo dovrà fare i conti con la debolezza, la fragilità e l’incostanza che purtroppo il giovane vive. Oppure, con un ambiente, con una cultura sociale che non la favorisce, quando non la ostacola.
    Questo significa che occorre educare i giovani a prendere atto, riconoscere e, soprattutto, sopportare la tensione fra il loro desiderio e il limite che quotidianamente essi sperimentano. In questa tensione, non raramente dolorosa, essi possono aprirsi alla «invocazione». In questa prospettiva l’educazione dell’anima aut animazione deve essere intesa come un’educazione al limite.
    Se l’educazione del desiderio mimetico e l’accettazione del limite sono il luogo principale dell’educazione alla non violenza, occorre nello stesso tempo nutrire l’umano del giovane perché possa pienamente abitarlo.
    Questo nutrimento passa attraverso il perseguimento a livello educativo di alcuni degli obiettivi fondanti l’animazione culturale.
    Il primo è certamente quello di abilitare il giovane alla costruzione di se stesso come centro esistenziale, ovvero condurlo a fare esperienza della totalità della propria psiche, di entrare, cioè, in un contatto creativo e vivificante con l’inconscio, individuale e collettivo, di aprirsi alla trascendenza e nello stesso tempo di espandere il dominio della propria coscienza, e, quindi, della propria capacità di comprensione razionale del mondo. L’animazione può contribuire alla creazione di questo centro esistenziale con il lavoro indirizzato a sviluppare la coscienza del giovane, il suo rapporto con la cultura sociale e la solidarietà con gli altri uomini e la natura.
    Il secondo obiettivo, strettamente interconnesso, al primo è l’educazione all’alterità, ovvero alla scoperta che l’io non si può dire senza tu e che per svilupparsi e maturare ha bisogno del noi, della tessitura di relazioni solidali, di condivisione e di cura con le persone in compagnia delle quali si sperimenta la propria presenza nel mondo. Ma non solo. L’educazione all’alterità si fonda sulla scoperta del valore della differenza, che si fonda sulla consapevolezza che l’uomo abita un universo in cui l’organizzazione fisico-chimica della materia che lo costituisce va nella direzione dell’aumento dell’entropia, in quanto esso è «assoggettato ad un principio di degradazione, di disintegrazione e di dispersione irrevocabile»[15] che lo porta verso uno stato di omogeneità indifferenziata, di morte, mentre la vita va esattamente nella direzione contraria producendo una entropia negativa, in quanto essa ha come proprio fondamento il principio dell’evoluzione, dell’integrazione, del­l’organizzazione e della differenziazione. Con altre parole questo significa che la differenza è un elemento costitutivo della vita, per cui la sua negazione tende a introdurre un principio di morte.
    Il terzo obiettivo riguarda l’educazione dei giovani alla sessualità intesa come quel rapporto d’amore tra il maschio e la femmina che non è né una semplice necessità fisiologica, né tantomeno una gioia gratuita, ma un elemento di quella ricerca del compimento di sé, dell’unità e della pienezza che caratterizza in vari modi ogni esistenza umana. Questo perché il rapporto maschio femmina possiede un significato oltre che psicologico anche spirituale. Tuttavia, se il rapporto non si fonda su una sessualità matura, la complementarità non genera ricerca della pienezza e della verità intorno a sé. La sessualità matura è quella fondata sulla spiritualità dell’amore e sulla ricerca della solidarietà cosmica con l’umanità. Questo obiettivo rispetto all’educazione alla non violenza appare importante perché, come si è visto, la sessualità è una componente importante nella genesi della violenza intraspecifica.
    Questi obiettivi, per limiti di spazio qui solo accennati, possono essere approfonditi nel testo base dell’animazione culturale.[16]
    Concludendo, è necessario sottolineare che se è vero che la violenza è radicata nelle profondità arcaiche e non dell’umano, è altrettanto vero che l’incarnazione di Gesù ha liberato la possibilità di sradicarla, e che l’animazione può essere uno degli strumenti che consente di rompere la crosta del terreno che ospita le sue radici.

    NOTE

    [1] R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, 1992, p.14
    [2] W. Burkert, Homo necans. Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica, Boringhieri 1981, p. 22.
    [3] R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, 1992, p.14.
    [4] Ivi, p. 32.
    [5] Ivi, p. 33.
    [6] Ivi, p. 33.
    [7] Ivi, p. 33.
    [8] Ivi, p. 35.
    [9] Ivi, p. 73.
    [10] Ivi, p. 76.
    [11] Ivi, pp. 73-74.
    [12] Ivi, p.36.
    [13] R. Girard, Vedo Satana cadere come folgore, Adelphi 2001, p. 34.
    [14] Ivi, p. 34.
    [15] E.Morin, L’Uomo e la Morte, Newton Compton Editori 1980, p. 7.
    [16] M. Pollo, Animazione culturale. Teoria e metodo, Las, Roma 2002.


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