Educare le emozioni /9
Raffaele Mantegazza
(NPG 2010-01-72)
È solo per i disperati
che ci è data la speranza
(Walter Benjamin)
Le storie a fumetti di Little Nemo sono forse note solo agli appassionati del genere; eppure si tratta di storie bellissime, tra le migliori della storia del fumetto, create agli inizi del secolo dalla fantasia di Winsor Mc Cay. Vi si narrano i sogni di un ragazzino, Nemo appunto, che dopo aver mangiato pesante fa il suo ingresso in uno straordinario universo onirico; si risveglia, poi, quasi sempre trovandosi ai piedi del letto o avvolto nelle coperte: ma la vignetta finale, quella del risveglio, è così piccola e monotona rispetto alle altre tavole da far pensare che la vera realtà sia proprio quella colorata e assurda del sogno, e il risveglio un brutto incubo.
Non si tratta di educare i ragazzi e le ragazze all’alienazione e alla fuga dal mondo, ma esattamente – al contrario – di educarli e far sì che questo mondo sia il più possibile simile al mondo sognato e sperato. La speranza è uno degli affetti che Ernst Bloch definisce di attesa (in compagnia della paura, del timore, della fede). Si tratta di affetti che non si lasciano restringere a un solo oggetto, affetti ad ampio raggio il cui oggetto «non è nemmeno presente del tutto nel mondo»;[1] dunque si tratta di stati d’animo che devono in un certo senso – e in modo paradossale – crearsi il proprio oggetto che però sanno esistere comunque in un qualche Altrove; c’è bisogno per questo di una immaginazione creatrice, di una fantasia esatta e incorruttibile, quale quella di cui a volte danno prova i nostri giovani e giovanissimi.
Propria dell’esperienza del mondo degli adolescenti è quella speranza tenace, quella capacità di sognare e di non arrendersi alla banalità del quotidiano, che forse mai più nella vita si ripeterà; pari nella sua forza solo allo sconforto e alla disperazione che chiudono le prospettive future ai ragazzi e alle ragazze, la speranza adolescenziale si colora dei tratti utopici proprio nel suo essere «forte come la morte».
La speranza è allora la categoria fondatrice di una filosofia della giovinezza: «il venir disprezzati non viene mai sentito con altrettanta amarezza, l’essere in testa non viene mai sentito con altrettanta esaltazione come durante la pubertà»;[2] da giovani e da giovanissimi ci si schiera per l’avvento del meglio, e la speranza in un mondo diverso non è ancora stata annientata dal processo di crescita, come purtroppo spesso accadrà: «Niente è più insipido e più forzato del rivedere gli antichi compagni di scuola dopo lunghi anni. Essi sono diventati come gli insegnanti, come gli adulti di allora, come tutto ciò contro cui ci si era uniti come congiurati».[3]
La speranza nasce dunque «fra il marzo e il giugno della vita»,[4] nel momento del passaggio dall’infanzia all’adolescenza, «quando al corpo in crescita diventano inaccessibili le piccole cose e i piccoli nascondigli».[5]
È possibile dunque insegnare e imparare a sperare, o meglio insegnare ai ragazzi e alle ragazze a non smettere di sperare, a non disperare; la speranza vuole l’Assoluto, vuole il Tutto: «Ogni speranza implica il bene supremo, l’irrompere della beatitudine quale non c’è ancora stata»;[6] la speranza è perciò un affetto umano e oltreumano, «il più umano di tutti i moti dell’animo e accessibile solo agli uomini: al tempo stesso si riferisce all’orizzonte più ampio e più luminoso»;[7] essa richiede precisione ed esattezza («uno degli affetti più esatti»)[8] ed è capace di distruggere gli effetti deleteri del nichilismo (anche pedagogico): la speranza «annega l’angoscia».[9]
La speranza in età adolescenziale assume diverse forme: quella dell’isolamento, dalla separatezza dal mondo, del luogo isolato e sicuro nel quale stare bene; è l’immagine della speranza come isola, che richiama alla mente lo stare abbracciati, il proprio letto, la propria stanza.[10] Il desidero adolescenziale di stare da soli, di isolarsi è leggibile anche in questo senso. Non è un caso che da More in poi l’Utopia – che è la forma letteraria e poi politica della speranza – si sia sempre caratterizzata come spazio isolato o come isola in senso proprio:
Seconda stella a destra:
questo è il cammino
e poi dritto fino al mattino
Poi la strada la trovi da te
porta all’isola che non c’è
e ti prendono in giro se continui a cercarla
ma non darti per vinto perché
chi ci ha già rinunciato e ti ride alle spalle
forse è ancora più pazzo di te
Ma la speranza da ragazzi è anche viaggio, partenza, imbarco, verso i piaceri del movimento, alla ricerca del raggio verde che appare quando il sole tramonta dietro l’orizzonte; colui/colei che spera è sì radicato nella sua isola, ma è al contempo un nomade che sa che la speranza non ha mai una casa:
Il fuoco di un camino
Non è caldo come il sole del mattino
Chissà dov’era casa mia
E quel bambino che giocava in un cortile
Io
Vagabondo che son io
Vagabondo che non sono altro
Soldi in tasca non ne ho
ma lassù è rimasto Dio
Viaggiare significa arrivare a una meta e scoprire che c’è qualcosa di là da essa; viaggiare può significare anche perdere la strada, (e saper perdersi è una esperienza educativa perché mostra il rovescio delle cose, il loro lato notturno, come il piccolo Benjamin scopre girando il foglio sul quale sta ricamando: «di quando in quando io ubbidivo alla tentazione di perdermi nel reticolo del rovescio del foglio, che, ad ogni punto con cui sul davanti mi avvicinavo alla meta, diventava sempre più aggrovigliato»),[11] ma comunque il viandante che ha raggiunto la sua meta tiene in equilibro una antica e speranzosa lacerazione tra il desiderio di continuare che permane e la strada che è già finita o che non si lascia più vedere.
Far crescere e consolidare la speranza
Cosa può fare l’adulto di fronte a questo prepotente desiderio di sogno e di speranza portato in cuore dai ragazzi e dalle ragazze; forse provare a farlo crescere, offrendogli le gambe forti e adulte della cultura.
Occorre allora mostrare ai giovani e alle giovani come la grande cultura (o meglio le grandi culture) si sia sempre caratterizzata come tentativo di dire e di oggettivare la speranza: a partire da Utopia ed Eldorado, Eden e la Terra Promessa, ad esempio, si deve mostrare come «la geografia è l’ambito in assolutamente tutto è stato ritenuto possibile»;[12] e da quando il mondo è stato del tutto esplorato le restano comunque gli spazi del mondo sotterraneo, nel quale «ciò che è nascosto in casa diviene l’equivalente della lontananza esotica»[13] o lo spazio cosmico (guarda caso i due ambiti di ambientazione delle utopie letterarie e dei racconti di fantascienza, che sempre percorrono gli spazi tra Ventimila leghe sotto il mare, Viaggio al centro della Terra e Dalla Terra alla Luna).
Ma che ne è della speranza davanti all’anti-speranza costituita dalla morte? Mai come in età adolescenziale la presenza della morte è così profondamente sentita e avvertita come possibile sconfitta della speranza. E allora la pedagogia della speranza deve essere e non può non essere anche una pedagogia della morte, che guidi il ragazzo e la ragazza in un percorso all’interno delle modalità attraverso le quali le culture hanno accostato questi due temi apparentemente antitetici: dall’idea greca di ombra, nella quale la vita dopo la morte è così sbiadita da costringere Odisseo ad allontanarsi dall’ombra della madre nell’Aldilà: «io piansi a vederla, e provai pena in cuore:/ma non la lasciavo, benché amaramente straziato, per prima/ avvicinarsi al sangue, avanti che interrogassi Tiresia».[14] Qui ovviamente la speranza è giocata tutta su un registro terreno, al contrario degli Egizi per i quali è corretto dire che «nessun altro popolo si è in seguito così incessantemente occupato della morte come gli egizi né fu così d’accordo con essa come con la vera vita».[15] Qui la speranza è in una buona morte che possa garantire un accesso positivo e sereno all’Aldilà, non come nel caso di questa bambina morta prematuramente:
«la mia vita mi fu spezzata quand’ero
ancora una bimba innocente.
Vi dico ciò che mi è successo: io dormo nella valle dell’Occidente
pur essendo ancora una bimba.
E non riesco a dissetarmi pur avendo
l’acqua a portata di mano.
Fui strappata via dall’infanzia
prima del tempo.
Mi sono lasciata la casa alle spalle
come piccola cosa senza che
me ne fossi saziata.
L’oscurità, l’orrore di un bimbo,
è venuta sopra di me
quando ancora il seno materno
stava nella mia bocca
(...)
perché io ero una bimba innocente».[16]
Occorre poi guidare i ragazzi e le ragazze nel grande ambito delle utopie religiose che proiettano la speranza oltre la morte: dal Pardes Ebraico che viene ereditato dal Paradiso cristiano e da tutte le trattazioni bibliche del tema della speranza in rapporto alla morte e al dopomorte (dal pensiero apocalittico giudaico – Daniele – che inserisce l’immortalità in un dramma cosmico, al «Nelle tue mani affido il mio spirito»; frase che «nessun greco poteva dire a uno dei suoi dei»[17] perché inserita in un contesto di superamento dei limiti della morte attraverso un riconsegnarsi allo Spirito creatore: all’angelo dell’Apocalisse con i suoi sette sigilli e l’apertura di un nuovo spaziotempo, il millennio, gravido di speranza ma anche di escatologia realizzata).
Fino ad arrivare a nuove immagini, ad esempio il Nirvana orientale: «anti-immagine di desiderio che offre comunque consolazione»,[18] speranza di un annientamento dell’io che non è suo semplice dissolvimento e non proviene da un contemptus mundi ma semplicemente da un superamento di tutte le sue tensioni; alle immagini laiche della morte come ritorno alla madre terra, reimmissione in un ciclo profondo e millenario come dimostra il venditore di sidro Conrad Siever dell’Antologia di Spoon River, che vuole essere sepolto sotto il melo per poter poi tornare chimicamente nel sidro che i suoi amici bambini berranno nella nuova stagione:
« (...) qui sotto il melo
che amavo, vegliavo e sarchiai
con dita nodose
per lunghi, lunghi anni;
qui sotto le radici della vedetta del Nord
aggirarmi nel moto chimico della vita,
nel suolo e nella carne dell’albero,
e negli epitaffi viventi
di mele più rosse!».[19]
O ancora l’idea di uno sbiadire nel cosmo, perdersi nell’Universo, condividere le sorti che l’entropia ha destinato a tutti noi.
Comunque sia, ciò che occorre per sperare è una carica di trascendenza: la cultura è sempre un andare-oltre il già dato, anche a livello squisitamente tecnico (il Cenacolo è anche altro da qualche chilo di pittura e un po’ di intonaco); e il più elevato tra gli sfondi di senso che essa è in grado di produrre è quello che offre la speranza di un superamento delle miserie e dei dolori dell’esistente. Di fronte al cinismo di un pensiero strumentale che osserva il mondo sentenziando: «È sempre stato così», il vero e profondo contributo della speranza sta nel ribattere con forza: «ma non sarà sempre così».
Attività
CERVO A PRIMAVERA
Fase preliminare: l’animale che c’è in me
È possibile far precedere questa attività da una fase preliminare che però deve essere presentata come attività a sé e deve essere cronologicamente abbastanza distante da «Cervo a primavera» (almeno due giorni) da non consentire ai partecipanti di cogliere immediatamente i collegamenti tra le due attività; in questa prima fase ogni membro del gruppo deve disegnare l’animale che sente dentro di sé; gli animali non devono essere disegnati accuratamente dal punto di vista anatomico: è importante come ci si sente, e dunque possono essere disegnati gatti blu o giraffe a pallini (o zebre a pois, come direbbe la nota cantante).
Prima fase: l’animale in cui mi reincarnerò
Facendo eventualmente precedere l’attività dall’ascolto del brano Cervo a primavera di Riccardo Cocciante, ogni partecipante è invitato/a a disegnare l’animale nel quale si vorrebbe reincarnare: valgono per i disegni le regole esposte in precedenza. È poi possibile realizzare il «paradiso» mettendo insieme a gruppi gli animali che condividono lo stesso habitat.
«Io rinascerò / cervo a primavera/oppure diverrò/gabbiano da scogliera / senza più niente da scordare / senza domande più da fare / con uno spazio da occupare / e io rinascerò / amico che mi sai capire / e mi trasformerò in qualcuno / che non può più fallire / una pernice di montagna / che vola / eppur non sogna / in una foglia o una castagna / e io rinascerò / amico caro amico mio / e mi / ritroverò / con penne e piume senza io / senza paura di cadere / intento solo a volteggiare / come un eterno migratore... / Senza paura di cadere / intento solo a volteggiare / come un eterno migratore / e io rinascerò / senza complessi e frustrazioni / amico mio ascolterò / le sinfonie delle stagioni / con un mio ruolo definito / così felice d’esser nato / fra cielo terra e l’infinito / e io rinascerò / senza complessi e frustrazioni / amico mio ascolterò / le sinfonie delle stagioni / con un mio ruolo definito / così felice / d’esser nato / fra cielo terra e l’infinito / e io rinascerò io rinascerò»
Eventuale seconda fase: confronto tra i due animali
Il confronto tra «l’animale che c’è in me» e «l’animale in cui mi reincarnerò» può essere condotto su più binari; si possono confrontare:
• gli animali scelti
• i particolari (zanne, unghie, artigli, becchi) presenti o assenti nelle due versioni
• i colori
• i segni grafici
• ecc.
NOTE
[1] Ernst Bloch, Il principio speranza, Milano, Garzanti, 2005, pag. 96.
[2] Ivi, pag. 33.
[3] Ivi, pag. 34.
[4] Ivi pag. 36.
[5] Ivi pag. 45.
[6] Ivi pag. 129.
[7] Ivi pag. 133.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Ivi pagg. 29-30.
[11] Walter Benjamin, Infanzia berlinese, Torino, Einaudi pag. 104.
[12] Bloch, op. cit., pag. 869.
[13] Ivi pag. 875.
[14] Odissea, XI, 87-89 (citiamo dalla trad. di Rosa Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1950).
[15] Bloch, op. cit. pag. 1297.
[16] Epitaffio per una bambina, in Testi religiosi dell’Antico Egitto, a cura di Edda Bresciani, Milano, Mondadori, 2001 pag. 430.
[17] Bloch, op. cit., pag. 1305.
[18] Ibidem.
[19] Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River.