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    “Per un mondo a colori”. L’utopia


    Io e l'altro. Percorsi di pedagogia interculturale /9

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2016-02-69)

    Entriamo a Nevè Shalom Wahat as Salaam alla fine del giorno. Il villaggio ci accoglie discreto e umile. Impareremo a conoscere questa umiltà nei pasti, nei sorrisi dei bambini e nelle parole di tutti i nostri accompagna¬tori e maestri. Sembra di penetrare in una quotidianità debole contro l'oscurità che avanza. Gesti d'ogni giorno: l'incedere del trattore di ritorno dal lavoro dei campi, il gioco dei bimbi, i gesti misurati della cuoca che prepara la cena, lo scodinzolare dei cani, subito fattisi nostri amici. Ma il villaggio si apre soprattutto nei suoi aromi: odori e profumi che scopriremo refrattari all'idea di confine, anche al torto e alla ragione. Sapori del cinnamomo e del finocchio sel¬vatico, del sesamo incastonato in questo pane come una sorpresa per il palato. Sono i profumi a spingerci alla ricerca del segre¬to di questi luoghi. Israele si apre a noi come una glo¬balità di stimoli: il gusto del pane acquistato fuori la porta di Dama¬sco; l'odore delle spezie; l'aroma del traffico e degli scambi concitati nei mercati arabi. E anche Nevè Shalom/Wahat as Salam ha i suoi odori; quelli del tè sorseggiato alla sera, davanti ai bambini che giocano e in una Babele di almeno quattro lingue di¬verse; quelli dell'alba popolata dall'abbaiare dei cani; quelli della sera, passeggiando sulla strada oscura, temendo o forse sperando l'incontro con qualche animale selvatico. Impareremo soprattutto questo: i profumi hanno nazionalità razza, la loro pelle colorata; ma proprio nel convivere delle loro diversità essi acquisiscono in queste terre una potenza struggente che altrove non hanno.

    Occorre imparare a sperare. Le parole con le quali Ernst Bloch, noto filosofo del Novecento, apre una sua opera, sono quanto mai attuali. I giovani e i giovanissimi hanno bisogno di speranza, di apertura al futuro, di quella grinta che proviene solamente dalla consapevolezza che il mondo così com’è, con le sue ingiustizie e le sue disparità, non sarà eterno e che le cose positive che già sono presenti possono e debbono essere potenziate ed estese. L’educazione del XXI secolo, l’educazione a un mondo sempre più complesso, non può non riappropriarsi del concetto di Utopia. Non nel senso comune di realtà impossibile da raggiungere ma in quello concreto e positivo di ideale regolatore, di segno posto sulla strada che ci indica da che parte andare, anche di sogno ma di sogno realizzabile da parte degli uomini e delle donne. A conclusione di questo percorso di articoli vogliamo provare a indicare alcuni elementi riassuntivi.
    Il mescolamento delle differenze è un dato di fatto: non si torna indietro a ideali di ridicola purezza, a frontiere chiuse con il filo spinato, all’ideologia dell’”ognuno a casa propria”. Occorre vedere nel confronto tra diversi una positività e una possibilità di crescita. La stessa idea di casa,di patria, deve essere ridefinita. Nell’epoca dei nazionalismi o addirittura dei localismi occorre ripetere ai bambini e ai ragazzi che la patria, la casa di tutti è il mondo; ogni pensiero deve essere insieme locale e globale: i problemi del qui e ora, del mio territorio, dei miei amici e i miei problemi personali non possono essere cancellati dai problemi del mondo, ma non possono essere risolti e affrontati se non tenendo conto dei problemi globali. Da qualche anno si utilizza il brutto termine “glocale” per indicare la fusione tra globale e locale; più semplicemente potremmo dire che ogni proposta e ogni soluzione per un problema locale deve essere pensata su scala non solamente nazionale ma mondiale. Il problema dei rifiuti e degli inceneritori, affrontato su questa scala, rende le giuste proteste delle popolazioni interessate qualcosa di più del semplice ed egoistico “andate a farli in Africa”.
    A vivere insieme si può imparare: non ne siamo ancora capaci, siamo anzi terribilmente indietro nella costruzione di una cultura dell’accoglienza e del dialogo. C’è ancora qualcuno che spera di accogliere a cannonate i disperati che provengono da altre culture: affrontare questi pregiudizi violenti ed educare alla convivialità sarà difficile e lungo, non ci si può illudere; basterebbe però iniziare, con i nostri ragazzi e le nostre ragazze, a scavare nel nostro passato di emigranti, di popolo che ha chiesto e spesso ottenuto ospitalità da parte di altri popoli, che ha sofferto il razzismo e la xenofobia.
    L’ecologia non è una scelta ma un obbligo: il nostro pianeta ci mette di fronte alle nostre responsabilità e ai nostri limiti; un’educazione al dialogo interculturale che non sia anche ecologista e animalista, un’educazione che non preveda il dialogo e il rispetto della natura, degli animali e delle piante, non ha senso e rischia di proporre un falso dialogo; continuare a consumare e ad inquinare e magari ricercare contemporaneamente il dialogo con le altre culture ci espone come minimo a giustificate critiche e diffidenza; noi italiani abbiamo la fortuna di avere avuto la figura di Francesco d’Assisi come regolativa nei confronti di un reale dialogo con la natura.
    Si può fare qualcosa per cambiare il mondo: la Terra ha milioni di anni e probabilmente ne vivrà altri milioni, anche senza di noi uomini e donne; ma questo significa che nulla è definitivo e che tutto può cambiare. Ma la nostra epoca ha una triste caratteristica che le distingue dalle precedenti: la nostra epoca è la prima ad avere sottomano gli strumenti di distruzione globale che potrebbero distruggere il pianeta; la situazione atomica inaugurata nel 1945 ad Hiroshima e Nagasaki ci ricorda che quella umana è l’unica specie animale che può distruggere tutto l’habitat nel quale vive; per questo motivo occorre pensare a una educazione pacifista globale.
    La guerra deve diventare il nuovo tabù del XXI secolo; come l’articolo 11 della nostra Costituzione recita (“L’Italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali”) i ragazzi e i bambini sono guidati a una educazione interculturale se comprendono che tutto è preferibile alla guerra, che occorre continuare a dialogare fino all’ultimo secondo, a dialogare fino a un attimo prima che lo sportello del bombardiere si apra o la miccia del kamikaze si accenda e soprattutto continuare a dialogare anche dopo tutto ciò.
    Il problema è non farsi battere dai nemici del futuro, che sono poi i nemici dell’educazione interculturale e del dialogo; non occorre cercarli lontano, sono anche dentro di noi, sono nei nostri atteggiamenti quotidiani che magari sfuggono al nostro controllo, per stanchezza, pigrizia, distrazione; ma un bambino che vede il padre mandare a quel paese il piccolo lavavetri al semaforo –un “no” cortese è sempre meglio di un insulto!- si fa un’immagine del dialogo e del confronto davvero poco rassicurante. Quali sono allora gli atteggiamenti adulti che chiudono la strada al futuro anziché aprire nuove prospettive?
    “Sarà sempre così”: è una frase che esprime rassegnazione, che fa il paio molto spesso con l’altra frase terribile: “è sempre stato così”. Crediamo che il peggior crimine che si possa commettere contro le giovani generazioni sia proprio quel misto cinismo e rassegnazione che ci fa credere che il mondo sia sempre stato lo stesso e sempre lo stesso debba essere; in particolare, che il denaro guiderà sempre gli uomini e le donne, che la violenza sarà ineliminabile, che le guerre saranno sempre lo strumento per regolare i conflitti tra gli Stati. Occorre immaginazione e fantasia per sognare un mondo diverso, ma occorre soprattutto credere fermamente che esso sia possibile. Dobbiamo presentare ai bambini e ai ragazzi un futuro desiderabile e soprattutto un futuro differente dal presente, almeno nelle cose che possono essere migliorate. Ogni domani può sempre portare a qualcosa di nuovo: questo è l’antidoto nei confronti del grande nemico chiamato routine; ogni giorno è possibile trovare un motivo per alzarsi dal letto; foss’anche la torta di cioccolato che ci attende in frigorifero.
    “Va tutto bene”: sembrerà strano ma anche questa frase rappresenta una posizione degli adulti che non permette l’immaginazione e la costruzione di un futuro diverso. Se infatti va tutto bene, perché impegnarsi per cambiare? Occorre essere molto chiari con i giovani e i giovanissimi. L’Italia, e in particolare l’Italia del Nord, vive in una situazione di privilegio che in alcuni casi si trasforma in inaccettabile spreco: una situazione che interessa l’Occidente e che esclude la maggior parte degli abitanti del mondo. Se le cose per noi vanno bene (ma siamo poi sicuri? Abbiamo presente le statistiche dei suicidi giovanili, delle morti per droga, degli incidenti stradali?) non possiamo essere così miopi e così egoisti da estendere automaticamente a tutto il mondo questa nostra posizione privilegiata. Il facile ottimismo dei ricchi è da evitare quanto la disperazione di chi crede che non ci sia più nulla da fare.
    “Che cosa vuoi che possiamo farci noi?”: una posizione che purtroppo è anche comprensibile, perché a volte è davvero difficile capire che cosa può fare il singolo in un mondo così complesso. Di fronte alle notizie di massacri, stupri etnici, bombardamenti e kamikaze è difficile trovare uno spazio per l’azione dei singoli. Si può però cominciare a pretendere una informazione che racconti anche notizie positive, che ci narri anche le vicende di quei singoli o quelle associazioni che stanno lottando contro il male e la barbarie; e anche noi possiamo raccontare ai nostri figli storie di persone che non si sono arrese, per insegnare loro a riscoprire il potere del singolo e dei singoli che si associano di fronte a compiti che sembrerebbero più grandi di loro.
    Yama e Yami erano fratello e sorella, e si amavano. Quando si univano nel gesto d’amore erano gli esseri più sapienti e più felici della Terra. Ma gli dei, invidiosi e crudeli, uccisero Yama, il maschio, lasciando Yami inconsolabile e tristissima. Gli altri dei, amici della coppia e nemici degli dei assassini, andarono da Yami chiedendole di dimenticare il fratello e di ricominciare a vivere. Ma ogni volta che la imploravano di farlo, ella rispondeva: ‘Ma è morto solamente oggi: Come posso dimenticarlo?”. Così gli dei crearono la notte e quindi sorse l’indomani; poi si recarono da Yami e le dissero “Vedi, tuo fratello è morto ieri, puoi iniziare a dimenticarlo. al che ella lo dimenticò e tornò a vivere. Questa storia ha più di seimila anni: è contenuta nei Veda, la più antica raccolta di leggende e storie proveniente dall’Oriente. E’ una storia da raccontare ai ragazzi e alle ragazze: non vuole soltanto dire che dopo la notte c’è una nuova aurora, ma anche che occorre inventiva e fantasia per sognare di poter uscire dalla notte che ci fa paura. I futuri che ci aspettano sono tanti: sta anche a noi sceglierli e selezionarli, renderli possibili. Il compito di un genitore è simile a quello di un profeta: non del profeta greco, che è sempre profeta di sventura perché prevede un futuro certo, che avverrà nonostante quello che potranno fare gli uomini e le donne, ma del profeta israelitico, che illustra possibili futuri dipendenti dalle scelte e dalle azioni degli uomini e delle donne. L’educazione al dialogo e al futuro è una educazione profetica: e si può attuare dappertutto.


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