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    L’allegria



    Educare le emozioni /7

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2009-09-65)

    E subito riprende il viaggio,
    come dopo il naufragio,
    un superstite
    lupo di mare
    (Giuseppe Ungaretti)

    Quanta allegria quando suona la campanella e la scuola è finita: quale senso di liberazione, cantato da tanti poeti, narrato da tanti prosatori:

    E gioca l’uccello-lira / e il bambino canta / e il professore grida: / Quando finirete di fare i pagliacci! / Ma tutti gli altri bambini / ascoltano la musica / e i muri della classe / tranquillamente crollano. / E i vetri diventano sabbia / l’inchiostro ritorna acqua / i banchi ritornano alberi / il gesso ridiventa scoglio / la penna ridiventa uccello.[1]

    Sembra allora che si possa essere allegri solo fuori dalla scuola, che le mura scolastiche soffochino ogni sorriso e ogni risata, semmai vissute in segreto, alle spalle dei professori e dei maestri:

    Ti ricordi / Michel quel banco nero in terza fila / che ascoltò tutte le risate / di due bambini che vivevano in un sogno che non si ripeterà.[2]

    Ma una scuola e un’educazione che non prevedano l’allegria come momenti interni al loro dispositivo, come sua innervazione segreta, si condannano all’ineffettualità e al fallimento; e del resto, di fronte a un mondo adulto che sembra oscillare tra la rabbia feroce di chi al semaforo è pronto a sbranarti se per disgrazia hai sbagliato a mettere la «prima» e la risata grassa e sciocca, volgare e banale, è ben difficile pensare che vi sia spazio nei processi educativi per l’allegria vera, quella che fa sgorgare il sorriso e la risata e che è il vero motore della motivazione. Non si capisce perché da adulti tutto debba sempre essere fatto con quella rabbia e quel ghigno che sono tipici di certe squallide caserme; il riso, purché sia solidale, comunitario e non volgare e stupido, è il migliore lubrificante per l’apprendimento.
    Ma è giusto oggi essere allegri? In un mondo che soffre, l’allegria non rischia di essere tradimento? Lo è di certo se seguiamo la traccia di Bergson, che porta come esempio di situazione che scatena il comico la caduta di un uomo (ma che ci sarà poi da ridere). Se ridere significa schernire il debole o colui che è in difficoltà, allora è molto meglio rimanere seri e magari aiutare chi è caduto a rialzarsi: lo scherno verso le vittime è stato uno dei principali mezzi di annientamento propri dei nazisti.
    Ma c’è anche un’altra allegria, che è fatta di leggerezza che non ignora i mali del mondo ma che comunque non vuole rinunciare alla levità del sorriso:

    Lo so del mondo e anche del resto / lo so che tutto va in rovina / ma di mattina quando la gente dorme / col suo normale malumore / può bastare un niente / forse un piccolo bagliore / un’aria già vissuta un paesaggio che ne so / E sto bene / e sto bene come uno che si sogna... / non lo so se mi conviene / ma sto bene che vergogna / io sto bene / proprio ora proprio qui / non è mica colpa mia se mi capita così / È come un’illogica allegria / di cui non so il motivo non so che cosa sia / è come se improvvisamente / mi fossi preso il diritto / di vivere il presente.[3]

    A far ridere, a far scattare l’allegria, non sono dunque i nostri simili che cadono ma il nostro sguardo sul mondo, non necessariamente tragico o irato, ma anche leggero e scanzonato; uno sguardo che deve avere la forza di scombinare l’acquisito, di far saltare le barriere dell’Ovvio: come accade per esempio in questa straordinaria Storia di Cappuccetto Rosso raccontata dal lupo della quale riportiamo il finale:

    L’insulto successivo mi ferì veramente. Ho infatti questo problema dei denti grossi. E quella ragazzina fece un commento insultante riferito a loro. Lo so che avrei dovuto controllarmi, ma saltai giù dal letto e ringhiai che i miei denti mi sarebbero serviti per mangiarla meglio. Adesso, diciamoci la verità, nessun lupo mangerebbe mai una ragazzina, tutti lo sanno, ma quella pazza di una ragazza cominciò a correre per la casa urlando, con me che la inseguivo per cercare di calmarla. Mi ero tolto i vestiti della nonna, ma è stato peggio. improvvisamente la porta si aprì di schianto ed ecco un grosso guardiacaccia con un’ascia. Lo guardai e fu chiaro che ero nei pasticci. C’era una finestra aperta dietro di me e scappai fuori. Mi piacerebbe dire che fu la fine di tutta la faccenda, ma quella nonna non raccontò mai la mia versione della storia. Dopo poco incominciò a circolare la voce che io ero un tipo cattivo e antipatico e tutti incominciarono ad evitarmi. Non so più niente di quella buffa bambina con il cappuccio rosso, ma dopo quel fatto non ho più vissuto felice.[4]

    E una volta presoci gusto è possibile applicare questa allegra logica dello scombinamento anche a cose apparentemente più «serie»

    Eccole qua / le armi che piacciono a me: / la pistola che fa solo pum / (o bang, se ha letto qualche fumetto) / ma buchi non ne fa... / il cannoncino che spara / senza fare tremare / nemmeno il tavolino ... / il fuciletto ad aria / che talvolta per sbaglio / colpisce il bersaglio / ma non farebbe mal / né a una / mosca né a un caporale ... / Armi dell’allegria! / Le altre, per piacere / buttatele tutte via![5]

    E forse il risultato più elevato di questo allegro apprendimento dell’allegria si consegue quando l’oggetto dell’allegria e della risata siamo noi stessi.
    Ridere di sé significa anche constatare la propria partecipazione, sia pure parziale, alla connessione del dominio; ridere di sé deve significare soprattutto distanziarsi dalle parti di sé che non appartengono al soggetto perché appartengono al dominio, iniziare un percorso di ritorno a se stessi a partire dalla constatazione, spesso amara, della propria complicità. Solo ridendo di sé si scoprono quegli spazi di isomorfismo con il dominio sui quali è possibile lavorare per eliminarli e per distanziarsene. Il ridere di sé instaura una pratica di autodistanziamento e di osservazione critica che può essere applicata poi ad altri oggetti.

    A ridere si impara

    La cosa importante è capire che a ridere si impara. Non si ride mai in un modo solo; lo sosteneva il «principe della risata», Antonio de Curtis: soprattutto – il Totò teatrale che come sostengono i fortunati che hanno assistito alle sue per­formances era il migliore di tutti – sosteneva di saper far ridere con tutte le vocali. Entrava in scena e diceva agli assistenti e agli addetti, dietro le quinte: «Adesso li faccio ridere con la U», «Adesso con la A».
    Afferma Vincenzo Cerami che «le risate con la A, con la I, con la U hanno sostanza ben diverse le une dalle altre: sono le reazioni emotive a tre differenti modi della comi­cità».
    Che cosa significa?
    Anzitutto, «la risata con la A esplode al terzo ritorno di un tor­mentone o nella ‘chiusa’ di un movimento comico a lunga durata con esplosione finale»»:[6] si tratta di un modo di ridere che richiede una lunga prepa­razione, l’apprestarsi di condizioni cui si deve credere fino in fondo per poter meglio apprezzare l’effetto comico. Ridere in questo modo presuppone un percorso, un tragitto, e dunque l’a­spetto educativo di questo tipo di comicità sta tutto nella di­mensione di continuità delle condizioni che preparano il comico; sono importanti le dimensioni narrative, la capacità di articola­re gli episodi in perfetta coerenza fino all’esplosione finale, ma anche gli elementi di setting che permettono l’attenzione e la credibilità del percorso.
    Al contrario, «la risata con la U è fulminante, quasi sempre provocata da una gag inattesa, da una caduta improvvisa, da una battuta a sorpresa». Quasi contrapposta alla precedente, questa forma di comicità ri­chiede che chi ride sia in qualche modo accolto in un ambiente protetto, dove le vicissitudini impreviste e improvvise che pro­vocano il comico non possano fargli realmente del male; e allora anche chi è oggetto del comico dovrà godere di tale protezione. Nel «contratto formativo» che sta alla base dell’utilizzo dell’i­ronia e del riso nel lavoro con gli adulti deve essere previsto questo aspetto di «avalutatività» e comunque la possibilità sem­pre reiterata di una reciprocità nel riso e nello scherno. Se nella precedente forma di riso l’identità come romanzo veniva ac­cettata fino in fondo per poi essere improvvisamente messa in crisi, è qui l’irruzione dell’Altro sulla scena dell’Identico a provocare la crisi da cui nasce il riso, e quindi a prevedere strutture di contenimento dell’angoscia causata sia nell’Identico sia nell’Altro.

    «[La risata] con la I invece è più legata all’umorismo, alla finezza verbale, o alla gag buttata via, regalata ai pochi: arriva sempre con un attimo di ritardo e si espande nella sala per contagio perché chi non ha capito subito l’arguzia la decifra attraverso lo scompisciarsi degli altri».

    Qui siamo di fronte a un comico più aristocratico, che pre­vede la conoscenza precisa del mondo che viene messo alla berli­na; un comico «colto» perché attraverso questa forma di riso è possibile sdrammatizzare solamente ciò che si conosce. Si tratta anche del comico maggiormente utilizzabile in funzione dello sma­scheramento dei meccanismi di potere che vengono così sottratti alla loro quotidiana ovvietà per essere esibito in una nudità che ne mostra la banalità. Un comico veramente «adulto», insomma, che incrocia le dimensioni della «performance» e della «competence»: e se nella seconda dimensione di questa forma di comicità impariamo che si deve necessariamente essere adulti per poter ridere, la prima ci ricorda che non è possibile ridere se non si elabora in forma alternativa il proprio essere stati bambini, se non si contesta l’attuale, rigido paradigma dell’adultità.
    Se la scuola e l’educazione insegnassero allegramente ad essere allegri, supererebbero sia la rabbia sia la grassa volgarità attuali, e porterebbero i ragazzi a trascinare con sé l’allegria anche nelle case, nelle strade, nel mondo; così la fine della scuola non sarebbe un ritorno all’allegria esiliata, ma la continuazione di un allegro modo di esser e di apprendere, che dall’educazione tracima sulla vita:

    «Signor maestro, che le salta in mente? / Questo problema è un’astruseria,
    non ci si capisce niente: / Trovate il perimetro dell’allegria, / la superficie della libertà, il volume della felicità / Quest’altro poi / è un po’ troppo difficile per noi! / Quanto pesa una corsa in mezzo ai prati? / Saremo certo bocciati» / Ma il maestro che ci vede sconsolati: / « Son semplici problemi di stagione. / Durante le vacanze / troverete la soluzione». (Gianni Rodari, Filastrocche)

    Attività
    RIDERE CON POCO

    Si può ridere di tutto e con tutto, ma la vera allegria scatta quando si cerca di vedere un oggetto da tutti i punti di vista possibili (una sorta di allegria cubista!). Proponiamo alcune attività che hanno come oggetto comune una banale sveglia.

    Ode alla sveglia

    Consegna: Comporre un’ode in rima per una sveglia realmente presente in aula.
    Obiettivo: Indurre uno scarto tra uno sguardo denotativo di tipo funzionale che induce ad osservare la sveglia come un oggetto della mera quotidianità, e uno sguardo di tipo connotativo che è capace di darle la nostra voce.
    Tempi di realizzazione: 30 minuti.

    Le lancette scrivono...

    Consegna: Produrre un testo ispirato dalla presenza dell’oggetto cercando di non smettere mai di scrivere e di non staccare mai la penna dal foglio nell’arco di un tempo dato.
    Obiettivo: Raccogliere il fluire dei pensieri mette in risalto come il linguaggio si allontani progressivamente dal tema dato (la sveglia) per arrivare a parlare degli stati d’animo di chi scrive delle sue sensazioni e dei suoi vissuti.
    Tempi di realizzazione: 5/7 minuti.

    Pronto, buongiorno, è la sveglia!

    Consegna: Immedesimandosi nell’oggetto (sempre la stessa sveglia) fornire una descrizione di sé.
    Obiettivo: Questo esercizio permette una decontestualizzazione del sé che si fa «oggetto» sperimentando così la dimensione dell’alterità.
    Tempi di realizzazione: 30 minuti.

    Una sveglia nel paleolitico

    Consegna: Ci si immagina di essere un archeologo e di scoprire un oggetto assolutamente sconosciuto (in realtà… la sveglia!). Lo studioso cerca di dare informazioni riguardo le funzioni e gli scopi di questo oggetto attraverso ipotesi e dimostrazioni.
    Obiettivo: Tentativo di uscire dal valore d’uso dell’oggetto sbloccandolo attraverso dominazioni inedite e inconsuete. Un’operazione linguistica che di fatto apre all’oggetto nuovi orizzonti di esistenza «rimettendolo al mondo».
    Tempi di realizzazione: 30 minuti.

     
     
    NOTE

    [1] Jacques Prevert, Compito in classe.

    [2] Claudio Lolli, Michel.

    [3] Giorgio Gaber, L’illogica allegria.

    [4] La storia di Cappuccetto Rosso raccontata dal Lupo, in Daniele Novara, Scegliere la Pace, Torino, Ega, 1988.

    [5] Gianni Rodari, Le armi dell’allegria.

    [6] Vincenzo Cerami, L’arte di improvvisare, in «L’Unità 2», 18 agosto 1995, pag. 7.


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