Pastorale Giovanile

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    Oltre ogni frontiera



    Esperienze pastorali

    Intervista a Renato Zilio

    (NPG 2009-04-58)


    Domanda. Lei è autore di un blog «Vivere oltrefrontiera» (https://renatozilio.canalblog.com/) che è punto di riferimento non solo per i suoi confratelli scalabriniani ma anche per chi pensa, progetta e vive multiculturalità, soprattutto in ambito giovanile. Così recita il sottotitolo del blog: «Viaggio tra testimoni di spirito fraterno e di forza interiore: da Bose... al Sahara. Come filo-rosso i valori scalabriniani: l’empatia, la solidarietà con chi ha superato FRONTIERE, vive da MIGRANTE o da FRATELLO universale...».
    Ci vuole spiegare come e perché è sorto?

    Risposta. È sorto all’occasione del mio recente anno sabbatico che ho vissuto in differenti esperienze di vita comunitaria e di preghiera. È stata come una grande boccata di ossigeno in una pastorale missionaria intensa e attiva tra gli emigranti in Svizzera e Francia. Un momento di pausa, nel guardare la vita di altre comunità religiose, nel lasciarsi trasportare dal loro ritmo, nell’entrare in un certo senso – come dice il proverbio – nei loro sandali per camminare un po’ con loro. Ma anche nell’entrare in me stesso e riscoprirmi capace di rivivere in profondità le scelte fatte... In fondo – visto che viviamo nella multiculturalità – si tratta sempre della differenza e della sua valenza pedagogica: essa apre e ricentra allo stesso tempo. In questo cammino ho imparato ad assaporare quella triade feconda dei tre tempi in ogni gesto o azione: l’attesa, l’avvenimento e la risonanza interiore. Saper attendere, preparare qualcosa interiormente, viverla poi intensamente e, in un terzo momento altrettanto importante, accoglierla in profondità, lasciandola risuonare dentro. Momento benefico di contemplazione che ricorda l’atteggiamento stesso di Dio, alle origini dei tempi, dopo aver creato il cielo, la terra...
    Così ho vissuto un periodo in una comunità francescana sperduta in una verdissima isola, la più bella senz’altro della laguna veneta. Vi era sbarcato san Francesco nel 1220 di ritorno dall’Oriente, ed era ancora impregnata del suo passaggio e di una incantata spiritualità fraterna.
    Poi ho avuto il privilegio di salire a mille metri sull’Appennino tosco-emiliano nell’antichissimo eremo di S. Pier Damiani, con una nuova comunità di origine francese: le monache di Gerusalemme, per vivere lunghe giornate di solitudine, di silenzio totale, di preghiera. Nell’ascolto della misteriosa presenza di Dio e di centinaia di eremiti, di santi e di pellegrini passati lungo i secoli per di là.
    E poi ho vissuto in un monastero in Marocco non lontano dal Sahara dei monaci trappisti di Tibirhine, per vivere intensamente la preghiera e la solidarietà con il popolo musulmano. Come pure la liturgia con loro che si snodava splendidamente tra francese e arabo...
    Infine, a Bose: su una collina piemontese, in una antica cascina, respirarvi l’aria di Costantinopoli, di Canterbury, dei monasteri francesi, le parole dei Padri del deserto, un amore immenso per la Parola di Dio, per il silenzio...
    È stato come un lungo pellegrinaggio spirituale che ho voluto raccontare anche sul web... Ricordavo quanto ripeteva un vecchio professore francese nei miei studi all’estero: per fare bene le cose ci vogliono sempre tre aspetti: il fare, il saper fare e... il far sapere! Ecco allora il desiderio di condividere in fondo ciò che ho vissuto con altri, entrandovi con una chiave di lettura particolare. La capacità cioè di superare delle frontiere, il desiderio di stabilire delle passerelle tra mondi, religioni o culture differenti, il valore del saper accogliere l’altro...

    COME NASCE UNA VOCAZIONE «OLTREFRONTIERA»

    Domanda. Torniamo un passo indietro. Queste le sue indicazione biografiche nel sito: «Missionario scalabriniano, studi letterari all’Università di Padova e studi teologici a Parigi. Maîtrise in Scienza e Teologia delle Religioni. Viaggio di studi in Cina e Giappone. Ha organizzato diversi «pellegrinaggi dalla città al deserto» per giovani a carattere interculturale e interreligioso verso il Sahara (sud Marocco). Ha iniziato e diretto il Centro interculturale giovanile di Ecoublay, nella Regione Parigina. Ha diretto a Ginevra la rivista della comunità italiana «Presenza Italiana». Esperienza al Ciemi di Parigi. Missione a Gibuti (Africa est)». Come nasce una vocazione di «vivere oltre frontiera»?

    Risposta. Forse non è neppure una vocazione, direi semplicemente un luogo difficile ma privilegiato, dove ci si trova a vivere. E la vocazione, come per altre simili, è quella di resistere («esistere è resistere» mi ripeteva un vecchio insegnante), di essere fedeli al posto in cui ci si trova, di fiorire là dove si è piantati, come ricordava un bel canto, che sentivo cantare con emozione dalle comunità portoghesi emigrate in Francia... Vivere oltrefrontiera, al di là della nostro confine è una posizione di equilibrio instabile, ma è anche una posizione strategica. Essa richiede di vivere in un altro contesto, dove come un emigrante si cerca di trovare continuamente un equilibrio tra sradicamento e nuovo inserimento, tra nostalgia e speranza, tra radici e antenne. Se diminuiscono le radici bisognerà che crescano le seconde. Vivere oltrefrontiera è una croce e una gioia, una apertura inedita e una lontananza struggente. Per noi missionari scalabriniani è costitutivo alla nostra stessa vocazione. Siamo inviati ad accompagnare comunità di emigranti, di minoranze disperse in maggioranze a volte onnipotenti, come comunità di italiani all’estero o comunità di portoghesi, di filippini, di latinoamericani... D’altronde un missionario è per definizione colui che passa una frontiera. Anzi, a dire la verità, tante, invisibili frontiere, oltre a quella geografica più concreta. Ed è la frontiera linguistica, psicologica, dei propri gusti e preferenze, della propria origine e abitudini, dei legami affettivi, della propria fede, perfino del proprio carattere imparando a modificarlo... Anche molti giovani oggi per studio, per volontariato o per altro vivono questa stessa situazione. Si ritrovano, allora, con una apertura di orizzonti impensata e feconda: non c’e di meglio, a volte, per crescere. Lo sentono come un luogo naturale di scoperte, di libertà nuove, di attenzioni più intense, di identità riscoperta...
    Ricordo, a questo proposito, che un tempo si organizzò al Centro Ecumenico delle Chiese a Ginevra uno stage per giovani d’Europa di varie religioni: cristiani, musulmani, ebrei... e si chiedeva loro di scegliere l’immagine più adatta per dire la loro identità religiosa: la fortezza o la sorgente. La fortezza separa gli uni dagli altri, divide coloro che sono dentro e coloro che sono contro, essa rassicura, protegge, rinchiude, dispone gli uomini sulle difese, cioè sugli spalti in alto lungo le creste... Sì, essa educa a vivere sempre sulla difesa. Oppure un’altra immagine, un’altra dinamica: la sorgente. Essa si offre naturalmente, è sprovvista di difesa, qualsiasi passante è benvenuto, anzi diventa un ospite che può assaggiare la bontà di quest’acqua. La sua forza non è esteriore ma tutta interiore, nella sua stessa qualità e profondità del suo essere... Due immagini, due modi di porsi di fronte agli altri e a se stessi che si può applicare in tanti campi. Vivere oltrefrontiera richiede di non armare le proprie pareti, ma di «essere porosi» come direbbero i sociologi, e di ricorrere continuamente alla propria sorgente per ritrovare le forze segrete, il proprio centro di gravità, il valore dell’equilibrio. Sì, in una identità e una fede più profonde.

    Domanda. Vivendo all’estero (in questo momento a Londra), certamente vive la multiculturalità come pane quotidiano. Pensando all’Italia, come vede e interpreta la situazione di una difficoltà da parte di molti ad accogliere la multiculturalità, a riconoscere e rispettare le culture (e le razze e le religioni)?

    Risposta. Infatti, vado al negozietto sottocasa aperto a tutte le ore per acquistare qualcosa e sono pakistani, il giornalaio accanto è indiano, mentre l’autista nel bus rosso che passa davanti casa è generalmente giamaicano. Il cassiere incontrato giorni fa alla Tower of London è un giovane cubano, con ben sette bandierine al petto, cioè le lingue parlate tra cui russo e giapponese! Proprio lui tra due chiacchiere ci comunicava l’entusiasmo di vivere in questa città multirazziale, dove due su tre sono stranieri... Come si vede la situazione di fatto è questa, ma crea anche una mentalità e una adattabilità nuova come per le lingue. Così, il mio insegnante di inglese durante gli intervalli lo vedo scrivere sulla lavagna in coreano, perché sta imparandolo e qualche studentessa coreana intanto lo corregge... Situazione impensabile da noi, rimasti legati alla contrada, al campanile, al nostro bar preferito. Il nostro particolarismo, il nostro corporativismo o il nostro familismo da forza iniziale sono diventati un’enorme debolezza: ci impediscono di decollare verso il futuro, verso l’efficacia, la competenza o l’apertura all’altro... Qui invece siamo di fronte a una nazione con ondate di emigrazione differenti, che hanno saputo raggiungere con i figli anche alti livelli di studio, muovendosi continuamente tra il loro Paese e qui: ciò dà a questo popolo una dinamicità culturale, una forza e una originalità interessanti. Gli italiani che vengono se ne accorgono subito, appena prendono la metropolitana a Londra: un’assistenza efficace, impeccabile di stranieri, generalmente...
    A noi, la situazione storica e culturale non ci ha insegnato la complessità, importante aspetto esistenziale attuale. Siamo cresciuti nella cultura dell’omogeneità, dell’insieme compatto, dell’appartenenza forte. Da questo, mi sembra, è nata la logica della contrapposizione, dei guelfi e dei ghibellini, dei partiti avversi e opposti, della conflittualità continua e ideologica, dove un cammino unitario si trova spesso bloccato. La nostra fede dovrebbe allora educarci a coniugare, come nei primi secoli della Chiesa, un verbo prezioso: saper riconoscere. Riconoscere ciò che di grande, di buono o di vero nasce nell’uomo a qualsiasi razza, cultura o tradizione appartenga. Lo spirito di Dio non abita nel cuore di ogni cultura, di ogni popolo compiendovi prodigi di coraggio, di fiducia o di solidarietà? All’estero sentivo affermare che non si può dirsi cattolici cioè universali ignorando la fede di milioni di altri uomini di differente religione, una fede che rimane – a volte in situazioni estreme di sofferenza o di miseria – l’unico motore acceso per avanzare o sopravvivere... Riconoscere i valori e aprirsi a nuove sinergie, agire insieme ad altri differenti da noi per costruire qualcosa insieme è segno di avvenire. Ricordandosi – in una bella analogia – che una città può essere osservata da tre punti di vista, tutti e tre importanti, necessari, preziosi: dal di dentro, dal di fuori e dal di sopra. Anche chi conosce, infatti, una situazione ben dal di dentro può perdersi... nei dettagli, come in una città nei vicoli o nei vicoletti! Altri punti di vista, infatti, hanno qualcosa di interessante da dire, da suggerire o da stimolare a una visione unica...

    SOCIETÀ, MULTICULTURA, PLURALISMO

    Domanda. Quali i «rischi» e i «vantaggi» dall’esperienza di multicultura nella società?

    Risposta. Un’esperienza di multicultura mi fa vivere il mondo d’oggi e un suo dato innegabile come il pluralismo. I sistemi e i mondi si oppongono, le persone si incontrano. Così comprendo come ogni cultura forgia un modo differente di essere uomo, di abitare il mondo, differenti visioni della vita e spesso differenti valori o priorità. Tuttavia» solo nell’ospitalità si conosce la verità» ripeteva un grande studioso e mistico francese, Louis Massignon. Per dire che non è nella contrapposizione, ma è nell’allargare la propria tenda e nell’accogliere l’altro, le sue ragioni e la sua ricerca, che potrò raggiungere un senso più grande della mia stessa verità: quella realtà così misteriosa che non possediamo, ma dalla quale siamo posseduti, illuminati e accompagnati. Crescere nella coscienza di un mondo plurale mi fa vivere nel principio di realtà, non in una dimensione di sogno o di ideologia. Una situazione di multicultura aiuta a relativizzare ogni cultura, che tenderebbe sempre ad autocentrarsi e ad assolutizzarsi. E nello stesso tempo aiuta a mettere in relazione le differenti culture, a trovare il punto di gravità di ognuna, i valori, gli aspetti forti e i lati deboli... È curioso, ad esempio, il modo di scrivere Cina: un semplice quadrato e una barra verticale al centro. Per dire l’Impero di mezzo, cioè siamo al centro del mondo. Tentazione questa però che attraversa ogni cultura. Osservo sorridendo quando vedo sbarcare all’estero degli italiani soprattutto se giovani: gesti sicuri, parole ad alta voce, modi di fare esuberanti, liberi... come dire «ecco, sono arrivati i migliori!» Ma c’è anche il rischio in una dimensione multiculturale di fare del surf semplicemente, come sulle creste dell’onda, prendendo l’aspetto che più mi appaga o godervi un’emozione bella di qualche istante. Così, se devo avere delle lunghe antenne per captare ciò che di bello e di sempre più vario mi circonda, dovrei altrettanto avere delle profonde radici per non essere sradicato e perdere il mio equilibrio. E queste mi daranno la capacità di saper apprezzare giustamente e saper discernere tutto ciò che mi viene proposto o che incontro. L’esperienza di multicultura esige una solidità interiore grande e, allo stesso tempo, aperta all’altro.

    Domanda. Come vede l’atteggiamento dei giovani rispetto al pluralismo culturale e religioso?

    Risposta. Un atteggiamento nuovo e interessante che mi ricordava un vecchio professore di filosofia: essere intelligenti non è tanto accumulare nozioni, quanto piuttosto interrogare, interrogarsi cioè entrare pacificamente nel territorio dell’altro. Porsi in un atteggiamento di curiositas. È quel trovarsi sempre sulla pista di decollo pronto a partire: ciò immette in una dinamica particolare, non di chiusura, di auto-sicurezza o di impermeabilità, ma di apertura, di accoglienza dell’altro, del differente, del nuovo... Ora è questo atteggiamento di decollo continuo che mi suggerisce la realtà dei giovani oggi, specie all’estero. Diventa particolarmente interessante e fecondo quando si riesce insconsciamente a dire all’altro, differente da noi: «La tua differenza è la mia ricchezza!» I care, ciò mi interessa. Straordinaria, paradossale affermazione, quando forse tutto nella nostra educazione complotta contro questo, insegnando a difenderci dall’altro e a percepire la sua differenza come una minaccia. È vero, in fondo, il simile ci rassicura, ci solidifica, ma la differenza ci smuove dalle nostre posizioni e ci fa avanzare…

    L’ESPERIENZA DEL DESERTO

    Domanda. Lei ha proposto ai giovani esperienze come il pellegrinaggio nel deserto. Ci dice qualcosa in più, soprattutto gli obiettivi educativi che intendeva perseguire?

    Risposta. Come sempre questo pellegrinaggio iniziava già prima di partire: coscientizzare questo è già un assunto educativo. Ed era cercare l’origine del nostro desiderio: «Quale motivazione profonda mi fa intraprendere questo cammino?». Bellissimo era il tempo di ricerca e di silenzio che seguiva a questo interrogativo, le parole con cui ognuno cercava di guardarsi in verità... Poi era coinvolgere gli altri, la comunità con iniziative, informazioni, piccoli gesti... in modo che anche la comunità parrocchiale stessa si metteva in cammino con i nostri giovani. Poi finalmente un cammino iniziatico, a carattere interculturale e interreligioso: un pellegrinaggio dalla città al deserto. Si iniziava partendo da una città viva, popolosa, originalissima, Marrakech: fantastica immersione nell’umanità e nella cultura del Marocco. Poi attraverso villaggi e oasi, a piedi, in pullman, con il gippone e infine il dromedario... si arrivava alla solitudine mistica del Sahara, dove rimanere tre giorni, tra dune di sabbia, cielo e favolose stellate notturne. Un personaggio biblico differente ci accompagnava ogni giorno: Abramo, Isaia, Marta e Maria... L’ascolto era il filo-rosso privilegiato che ci faceva riflettere: ascolto in profondità, attenzione interiore viva, affinamento della sensorialità, un gustare meditativo di cibi differenti, un soffermarsi sui profumi di un’oasi, di spezie esotiche... imparare così ad accogliere l’alterità dell’altro, di un ambiente straniero, esotico e di una preghiera che si alzava da tutte le moschee come una suggestiva, originalissima sinfonia. Lungo il percorso eravamo ospiti di comunità cristiane che ci facevano da guida nel mondo culturale e religioso dell’Islam, oltre che nella testimonianza di una Chiesa povera, evangelica, coraggiosa. Il pellegrinaggio in parte, poi, era costruito dai giovani stessi: c’era il ministro dei trasporti per… negoziare sul campo i mezzi, il ministro dell’informazione per preparare le interviste, dell’alimentazione per scegliere dove prendere il couscous alla sera, il ministro della liturgia... E ci accompagnava sempre la bella raccomandazione di Proust: «Un vero viaggio di scoperta non è cercare nuove terre, ma avere nuovi occhi!»
    E rivedo ancora i giovani correre nel deserto come caprioli, a piedi nudi, su e giù su queste montagne di sabbia finissima con il pericolo di perdersi… tanto facile qui, al calare improvviso della notte! E chiedere con emozione a un ragazzo berbero dov’era nato e, stupiti, sentirsi rispondere «alla quarta duna!».
    E ricordo ancora quando, immobili per la meraviglia, assistevamo al sorgere o al tramonto del sole. Momenti magici... O quando si celebrava l’Eucaristia sulla duna più alta... una messa sul mondo!
    Come dimenticare quando al momento del perdono posavamo l’orecchio su questa sabbia rossastra, in pieno Sahara, per auscultare la terra come il ventre di una donna. Ed era per provare a sentire il pianto di milioni di uomini, di donne, di bambini, di esistenze infelici sulla terra, vite inumane, impossibili, sradicate dagli eventi e, semmai, migranti. E chiedere perdono di avere un cuore inconsapevole, insensibile alle tragedie del mondo.
    Oppure al momento della pace, vedere questi giovani affondare le mani e le braccia il più possibile nella sabbia, nel tentativo, in mezzo al deserto, di dare la mano a tutti gli uomini della terra, per esprimere le lunghe solidarietà che avrebbero voluto far nascere...
    Rendo omaggio con emozione a questi giovani che il deserto ha consolidato o trasformato nei loro aspetti più sani e più belli. Due, infatti, sono ritornati in Africa per un periodo di volontariato, un altro per lo stesso motivo in Brasile, a Salvador de Bahía, altri ancora… In fondo, una lezione magnifica del deserto che in loro ha saputo fiorire e dare frutto.

    Domanda. Quale scoperta più bella e pedagogica avete raggiunto nel deserto?

    Risposta. Una scoperta direi molto semplice, ma molto feconda. Si sa che «non si è mai così meno soli di quando si è soli»... E qui nel deserto emergono tutte le nostre fantasie, i nostri idoli cioè le realtà che adoriamo, ma anche il mistero del Dio vero...
    Ciò ha portato a riflettere a lungo al senso profondo di idolo e di icona. Due termini, la stessa origine, la stessa dinamica (riguardo al bello, allo sguardo, alla relazione), ma opposta direzione.
    L’idolo è l’immagine che concentra in sé tutte le forze, la potenza e l’azione. Autoreferenziale per eccellenza. Invece l’icona è l’immagine che rinvia ad altri, a qualcuno o a qualcosa di più grande.
    Non è che un raggio di luce della divinità. Anche la preghiera si fa icona quando rinvia e introduce all’incontro stesso con Dio. Idolo, invece, quando essa si esaurisce in se stessa, diventando formula magica. Perfino la sessualità può essere icona quando sa dire il senso grandioso della vita come una danza e una lotta da vivere insieme, altrimenti si appiattisce in qualcosa di ben misero e diventa un povero idolo.
    Anche una persona può presentarsi come idolo o come icona: quando – in un movimento di forza centripeta – essa o il suo operare si pone al centro di tutto, invece di rinviare a qualcuno di più grande o a dei valori essenziali, che vive e che sa far risplendere. È vero, vi è una dinamica in questi due termini significativa e rivelatrice quanto mai!

    PASTORALE GIOVANILE IN TEMPO DI MULTICULTURALITÀ

    Domanda. Cosa vuol dire per lei fare pastorale (e pastorale giovanile) di fronte alla multiculturalità? Rispettare le differenze culturali anche nello stesso ambito della fede cristiana, cosa comporta?

    Risposta. Vuol dire anzitutto capire chi sono i nuovi giovani che si ha davanti: non più giovani di una sola cultura, ma anche di altre culture. Quando diciamo «pastorale giovanile», diciamo per «tutti i giovani» presenti nel territorio delle nostre comunità; invece esistono ancora molte resistenze, quasi che per i «giovani italiani» ci siano le parrocchie territoriali, mentre per i giovani stranieri ci siano i missionari per gli immigrati. In realtà, la Chiesa locale dovrà preoccuparsi di tutti i giovani presenti nel suo territorio, con l’aiuto dei missionari che possono mediare nel momento in cui ci fossero ostacoli linguistici o culturali.
    Così la pastorale giovanile, da quella nazionale a quella diocesana e poi parrocchiale, potrebbe pian piano assumere l’intercultura come chiave di lettura della nuova realtà giovanile. La multiculturalità è ormai strutturale nelle nostre città e i giovani convivono attivamente o passivamente con realtà multiculturali come nell’ambiente universitario, nelle associazioni sportive, culturali, musicali...
    Per cui le nostre attività pastorali non possono chiamarsi fuori da questi eventi socio-culturali, ma occorrerebbe incontrare i giovani là dove sono e avere il coraggio di valorizzare queste diversità. La fede cristiana, in fondo, le sottolinea, perché è attraverso la cultura che si esprime la fede e non al di fuori di essa.

    Domanda. E rispetto alle situazioni di pluralità religiosa? Pensiamo soprattutto al richiamo all’urgenza dell’evangelizzazione della chiesa e del Papa di oggi. Cosa vuol dire annunciare il Vangelo e Gesù in questa situazione?

    Risposta. Sarebbe interessante oggi riscoprire i luoghi informali di pastorale giovanile come la piazza, le associazioni, i gruppi sportivi… e prendere coscienza che le nostre parrocchie non sono più dei luoghi di riferimento prioritari per i giovani. La parrocchia si svuota di giovani e le piazze si riempiono. Gli adolescenti, mi sembra, restano nell’ambiente parrocchiale solo fino all’età della cresima.
    Aumenta la partecipazione dei giovani nelle associazioni di volontariato, nei gruppi culturali, nelle aggregazioni spontanee o socio-culturali… Forse questi sono i nuovi contesti dove fare una pastorale giovanile, ma forse non si hanno animatori preparati.
    Si dovrebbe forse puntare sulla formazione di «operatori di pastorale giovanile interculturale», cioè riuscire a proporre agli animatori e catechisti dei percorsi di formazione non solo come «animatori di strada» o «animatori di pastorale giovanile», ma addirittura come animatori a valenza interculturale. È un salto di qualità che non punta più ai contesti tradizionali, ma a quelli informali. Agli animatori è richiesta senz’altro una forte motivazione, una coscienza di sé e della propria fede molto grandi – come nella bella immagine della sorgente – altrimenti non avranno né il coraggio, né le capacità di andare nell’Agorà e incontrare altri giovani con idee a volte contrastanti…
    È la nuova evangelizzazione, fatta non solo di annuncio, ma anche di ascolto, di discernimento, perché i «giovani della piazza» hanno qualcosa da insegnarci. Sono molto più liberi da strutture e schemi fissi, anche se a volte sono «contro» solo per il gusto di essere «contro qualcuno». Un atteggiamento di ascolto e non di «proselitismo» si rivela molto fecondo. In quest’ottica si sarà capaci di fare «pastorale giovanile» a 360°, incontrando non solo giovani di varie culture ma anche di religione differente, in un dialogo di vita costruttivo e arricchente, pur nella consapevolezza che Cristo è il Signore e il suo spirito vive nel cuore dell’uomo contemporaneo. Semmai nella sua acuta ricerca di senso.
    All’estero ho trovato nell’ultima pagina di un testo di preparazione alla cresima una raccomandazione finale, scritta in grande: «… Ed ora lotta per una grande causa!». Sì, per qualcosa di grande, per la dignità dell’uomo, per una solidarietà tra i popoli o le religioni, per un generoso volontariato in nome della tua fede ormai confermata. Essa è una sorgente viva sempre da sterrare e da purificare, ma che può essere nel mondo d’oggi un formidabile agente di trasformazione. Per renderlo più bello, più umano e più fraterno.


    T e r z a
    p a g i n A


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