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    La rabbia



    Educare le emozioni /4

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2009-04-53)


    – Fateci entrare

    – Perché, altrimenti vi arrabbiate?
    – Siamo già arrabbiati
    (Bud Spencer e Terence Hill, «Altrimenti ci arrabbiamo»)

    Alla piccola Arianna
    alle sue minuscole rabbie
    alle sue immense gioie.

    Il tempio di Sanjun-Sangen-do a Kyoto pullula letteralmente di statue delle divinità. Sono allineate a centinaia, l’una dopo l’altra, in un grande stanzone un po’ in penombra. Osservarle fa letteralmente paura; sono tutte arrabbiate, provviste di zanne, artigli, rabbiose e scatenate, minacciano l’osservatore con la rabbia che è forse di tutte le divinità prima che l’uomo e la donna le addomestichino. Forse l’esperienza della rabbia divina, che ci viene restituita da queste statue orientali molto più che da alcune pagine dell’Antico Testamento, è stata una delle prime idee religiose che abbiano caratterizzato l’essere umano.
    La divinità poteva arrabbiarsi e questo era il suo lato più vicino all’umano, anche se la sua rabbia era del tutto fuori scala rispetto a quella degli uomini e delle donne. La rabbia della divinità era da contenere in tutti i modi, cercando anche di espiare peccati che erano stati commessi del tutto involontariamente:

    L’ira del mio dio verso di me si posi
    Il dio, che non conosco,
    si calmi verso di me
    La dea, che non conosco,
    si calmi verso di me
    Il dio, che conosco o che non conosco, si calmi verso di me
    La dea, che conosco o che non conosco, si calmi verso di me
    (...)
    Ciò che per il mio dio è abominevole
    io l’ho mangiato inavvertitamente
    Ciò che per la mia dea è abominevole
    io l’ho mangiato inavvertitamente».[1]

    Anche gli dei di Omero si arrabbiano dimostrando passioni umane, anzi forse l’«ira funesta» degli umani o dei semidei non è altro che il riflesso dell’ira delle divinità.
    Ma se la rabbia sembra essere una delle più arcaiche reazioni umane alle difficoltà dell’esistere, è possibile imparare ed educare ad arrabbiarsi?
    Lavorando con i giovani è possibile chiedere loro se sia più efficace, per esprimere la propria rabbia, una pedata sul muro o un articolo sul giornale. Se sia più catartico rompere un lampione o fare un artistico graffito.[2] Siamo del tutto convinti che in entrambi i casi sia la seconda alternativa a dover essere rafforzata; ma per poter condurre la rabbia a una «buona» soluzione pedagogica occorre anzitutto legittimarla: in certe situazioni è normale provare rabbia, è giusto sentirsi arrabbiati forse sarebbe assurdo il contrario.
    Quanti professori sono rimasti sconcertati davanti a un ragazzo che prendeva con atarassia e apparente disinteresse l’insufficienza meritata nel compito? E quanti invece hanno colto nella rabbia del suo compagno, magari espressa in modo violento, il segno di un investimento comunque presente nella disciplina o nella relazione con il docente? E gli atti vandalici commessi dai ragazzi contro lo strutture scolastiche non possono essere intesi anche – e sottolineiamo «anche» – come atti d’amore, di un amore arrabbiato? Forse i ragazzi vandalizzano la scuola piuttosto che l’ufficio postale perché a loro dell’ufficio postale non importa nulla, perché non hanno con esso una relazione comunque significativa.
    Una scuola che offra ai ragazzi un sostituto simbolico del vandalismo, una scuola che sappia accogliere la rabbia dei ragazzi e delle ragazze e trasformarla in creatività, una scuola che si faccia vandalizzare a livello simbolico e nonviolento potrebbe davvero insegnare la creatività della rabbia di contro al suo sfogo meramente distruttivo.
    E al di là della scuola, l’educatore/trice che non sa in partenza di dover essere prima o poi anche oggetto della rabbia degli educandi e di doverla prima di tutto legittimare e poi trattare pedagogicamente, si presta prima o poi ad avere le gomme dell’auto tagliate, ovvero ad assistere per sua responsabilità alla tracimazione della rabbia dall’ambito pedagogico a quello della vita quotidiana.
    Accettare la rabbia dell’educando significa però accettare anche le proprie rabbie nei confronti dell’educando e saperle trattare, saperle sottoporre a una specie di travestimento pedagogico. Dopo avere sgridato fortemente una classe per un compito mal riuscito una professoressa si sentì chiedere da un ragazzo «Ma lei è davvero arrabbiata con noi o fa finta?».
    Una domanda azzeccata: è assolutamente ovvio che la professoressa provava veramente un sentimento di rabbia o di delusione ma – questo il nostro parere e la nostra tesi – tanto più poteva comunicare rabbia quanto più lasciava la rabbia «vera» fuori dalla porta o meglio la transustanziava in quella rabbia fittizia che è rabbia recitata, rabbia pedagogica. La cosa importante è da un lato che la finzione non scada in affettazione, dall’altro che il sentimento provato in capo educativo non sfondi sulla vita reale.

    Il Palazzo Rompitutto

    In un suo noto libro Gianni Rodari sognava un mondo nel quale coloro che sentivano montare la rabbia potevano accedere al Palazzo Rompitutto nel quale sfogarsi senza essere puniti o rimproverati. Forse questa può essere una soluzione non solo simbolica e provocatoria per contenere le legittime e salutari rabbie dei nostri ragazzi: non nel senso di far loro rompere le sedie (anche se una bella festa annuale del rompitutto in una I media offrirebbe uno spettacolo di tutto rilievo), ma nel senso di strutturare la relazione educativa in modo che essa non si sottragga alla critica, alla contestazione, all’iconoclastia che sono il volto pedagogicamente corretto dell’espressione della rabbia.
    Ma come si esprime la rabbia in modo socialmente corretto? Certo, se la società è abituata ad esprimerla in modo unicamente distruttivo sarà più difficile – ma doveroso – per l’educatore/trice muoversi in controtendenza. «Ci esercitiamo a scuola/a far la faccia scura/per fare più paura»:[3] una nota canzone di Edoardo Bennato descrive così i giovani «pirati», i realtà i giovani politicizzati (o forse sarebbe meglio dire «partiticizzati») della fine degli anni Settanta ai quali viene contrapposto un Peter Pan anarchico; una descrizione impietosa che potrebbe essere posta accanto alla notissima poesia di Pier Paolo Pasolini scritta un decennio prima, il giorno dopo gli scontri di Valle Giulia; anche Pasolini attacca frontalmente gli studenti perché vede in loro, nei loro atteggiamenti rabbiosi e quasi nella loro fisiognomica, tracce di quel sistema che dicono di combattere:

    «Siete paurosi, incerti, disperati
    (benissimo!) ma sapete anche
    come essere prepotenti,
    ricattatori e sicuri
    prerogative piccolo-borghesi, amici.

    (...) A Valle Giulia, ieri,
    s’è avuto così un frammento
    di lotta di classe:
    e voi, amici
    (benché dalla parte della ragione)
    eravate i ricchi
    mentre i poliziotti
    (che erano dalla parte del torto)
    erano i poveri.
    Bella vittoria, dunque, la vostra!».[4]

    Pasolini attacca gli studenti prendendo sul serio la loro ansia di liberazione e di rottura con un mondo adulto borghese, e lo fa ricordando i loro tratti fisici di complicità e di collusività con questo mondo: e i ragazzi sono simili agli adulti che contestano proprio nel modo di manifestare la rabbia – oggi come allora.
    La faccia arrabbiata, il volto scuro e grintoso quasi cattivo, sembra una caratteristica trasversale per i giovani, anzi un giovane che mostra la faccia scura, che rifiuta di sorridere è apprezzato dai suoi compagni come dai suoi avversari, perché forte, virile, non esposto alle debolezze femminee che nella lotta politica non è il caso di mettere in campo. I maschi devono essere duri e le femmine assumono sempre più i tratti di questa aggressività: devono avere una ghigna che mostri all’esterno la loro rabbia.
    Certo, è vero che «anche l’odio contro la bassezza/stravolge il viso» (Brecht), ma francamente abbiamo visto troppe scivolate nel maschilismo legittimate e giustificate con la scusa del «noi non si potè esser gentili»; crediamo sia ora di recuperare il volto della gentilezza e della tenerezza, che può costituire una opzione politica di rottura e di contestazione quanto e più del volto grintoso e arrabbiato. Al di qua della sfera politica constatiamo questo tratto duro del volto in molti giovani padri: se è scontato che occorre porre dei limiti ai figli, se è giusto dare regole e presidiarle, non capiamo perché il tutto debba sempre essere fatto coincidere con urla e facce scure; dire di no sorridendo e proponendo alternative, mostrare un volto fermo ma sereno quando si richiamano i figli ci sembra una alternativa valida ai padri arrabbiati, alternativa che non è certo rappresentata dal padre sorridente, distratto e un po’ ebete che concede tutto.
    Basta peraltro frequentare la curva di uno stadio o una discoteca per vedere all’opera questo ghigno, questo volto irato e stravolto, così simile a quello di coloro che «hanno circondato, sogghignando imbarazzati, il detenuto ebreo e (...) l’hanno schernito quando cercava troppo maldestramente di impiccarsi»;[5] i tifosi allo stadio sembrano necessariamente arrabbiati, lo sono anche quando la loro squadra vince, come lo devono essere i vari Gattuso che scendono in campo, apprezzati più per le facce truci che per la discutibile classe calcistica.
    Sembra sia così anche in altri ambiti, ad esempio quello religioso: lo sottolinea il romanziere Yahar Kemal restituendoci uno straordinario ritratto di alcuni fedeli ipocriti, figure tipiche di tutte le religioni:
    Facce peste di uomini truci, astuti, come usciti dalla moschea dopo una lotta furibonda con Allah, dopo avere lasciato là dentro la luce dei loro volti, sarebbero questi i credenti, i loro piedi, schiantano la terra che calpestano, sono credenti questi? Si pestano i piedi a vicenda in piazza Taksin, scagliano sonori sputi in terra tra la gente, si soffiano il naso spalmando il muco sui tronchi degli alberi, cere molli, volti malati, ostili, che non conoscono il sorriso, che ti osservano come ne­mi­ci, come volessero mangiarti, cavarti gli occhi, scavarti la fossa, per incutere timore, studiandoti da lontano, questi spauracchi che non fanno che dire io, io, io, costoro?».[6]
    Occorre allora un’educazione alla creatività anche a partire dalla rabbia: occorre che l’energia della rabbia, che può essere distruttiva – e che anche nel suo trattamento simbolico e pedagogico manterrà comunque un elemento di distruzione – sia canalizzata da parte dell’educatore/ trice verso orizzonti che mostrano il suo potenziale creativo; e soprattutto occorre mostrare ai giovani e alle giovani che la faccia truce, il ghigno e l’urlo sono una modalità socialmente determinata di espressione della rabbia, modalità che ha certamente addentellati etologici (anche il cane quando si arrabbia ghigna e indurisce il volto)[7] ma che viene generalizzata a unica modalità di espressione dimenticando che la cultura umana ha affiancato altri modi di gestire le emozioni a quelli tipici degli altri animali.
    La rabbia crea, allora, se si sottrae agli irati ­imperativi di una società che vuole che si sia arrabbiati anche quando si gioca.
    Un venditore di telefoni cellulari voleva convincerci ad attendere un mese per acquistare un telefono perché «stava per uscire un modello ancora più aggressivo»: al di là del turbamento per l’idea stessa che un telefono cellulare possa essere aggressivo (ma contro chi?) ci siamo chiesti come mai l’aggressività fosse considerata una caratteristica positiva a prescindere da ogni contestualizzazione.
    Forse occorre contrapporre a questo delirio irato nel quale viviamo la possibilità di una rabbia controllata; come quella di Adam che, secondo un midrash ebraico, calpestò con rabbia il frutto proibito [8] che gli era costato l’Eden: solo che il frutto era un grappolo d’uva, che proprio perché calpestata da Adam per sfogare la sua rabbia creò il vino, messo da parte da YHWH per le generazioni future nei tempi messianici.
    Educare a partire dalla rabbia significa mostrare il lato positivo della distruzione: che è più faticoso del lato meramente distruttivo e che mette a dura prova la creatività del soggetto; ma che legittima anche la sua rabbia che, come quella degli dei di Sanjun-Sangen-do affonda le sue radici nelle profondità dell’uomo ma ha anche tratti divini, che portano oltre le nostre piccole, spesso meschine, rabbie quotidiane.

     

    Le parole della rabbia

    Il seguente esercizio serve per abituare i ragazzi e le ragazze a distinguere tra la libertà di espressione della rabbia e la necessità di scegliere una modalità accettabile per esprimerla.

    Due cittadini hanno scritto due lettere piuttosto pesanti a un giornale della sera. I cittadini sono arrabbiati, come si vede, però forse è possibile riscrivere le loro lettere mantenendo la loro indignazione, ma cercando di usare un linguaggio che metta insieme la rabbia con il rispetto delle regole di educazione e soprattutto che eviti la censura da parte del giornale o la denuncia se fossero pubblicate.

    Caro direttore, tutti i cittadini hanno potuto vedere che razza di *** sia quel ladro del sindaco del nostro paese. Non solo ha rubato come un maiale insozzandosi le mani con gli sporchi luridi soldi delle tangenti, ma ha anche la faccia di *** di venire a chiederci il suo voto. Io gli dico che non lo voterei nemmeno se stessi all’inferno, brutto *** che non è altro. E poi ha anche piazzato quella *** di sua cugina all’ente per il turismo, ladro schifoso che non è altro. Io spero che possa crepare lui e la sua famiglia.

    Gentile direttore io vorrei dire due cose ai dirigenti delle poste. Signori delle poste, vi informo che i mi sono rotto i *** dei vostri ritardi. Ho ricevuto una lettera oggi che mi è stata spedita tre settimane fa, avete raggiunto il massimo della vostra imbecillità, io non ne posso più di trattare con degli idioti imbecilli come voi, mi fate proprio pena. Un deficiente farebbe di meglio, certamente riuscirebbe almeno a consegnare la posta in tempo; voi non siete degni nemmeno di pulire i gabinetti della Posta.

    NOTE

    [1] Giovanni Rinaldi, Le letterature antiche del vicino oriente, Milano, Accademia, 1968 pagg. 155-6.

    [2] Certo, finché gli adulti continueranno a considerare queste due attività ponendole sullo stesso piano e rubricandole come «teppismo», sarà ben difficile ogni educazione alla sana gestione della rabbia.

    [3] Edoardo Bennato, Il rock di capitano Uncino, in Sono solo canzonette, Ricordi, 1980.

    [4] Pier Paolo Pasolini, Il PCI ai gio­vani! In Empirismo eretico, Roma, Garzanti, 1991 pagg. 151/159

    [5] Theodor W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, Torino, Einaudi, 1979, pag. 231

    [6] Yashar Kemal, Gli uccelli tornano a volare, Milano, Tranchida, 1994, pag. 60.

    [7] Usiamo il termine volto per gli animali rimanendo fedeli agli studi di Jeffrey Masson, cfr. Quando gli elefanti piangono, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 1992; id., Il maiale che cantava alla luna. La vira emotiva degli animali da fattoria, Milano, Saggiatore, 2005.

    [8] A seconda delle letture rabbiniche il frutto proibito, non ulteriormente specificato nel testo, poteva essere una mela (come nella tradizione più popolare), o un fico (le cui foglie urticanti furono scelte poi per coprire le nudità in un supplemento un po’ sadico di punizione), o un cedro (dal gioco di parole ebraico tra «cedro» e «desiderare»), o una spiga di grano (dal gioco di parole rabbinico tra «grano» e «peccato»), o una noce o ancora un altro frutto che non viene citato dal testo biblico (come in effetti è) citato cosicché l’uomo non lo odi e si rifiuti di mangiarlo; o infine, come nel nostro esempio, un grappolo d’uva.


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