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    Aver cura di sé



    Atteggiamenti dell'educatore /4

    Micaela Filippini

    (NPG 2009-04-48)


    Nella mia esperienza di educatrice mi sono sempre meravigliata di quanta vitalità ci fosse nella cura elargita agli altri e di come si esprimesse attraverso sentimenti, emozioni e tonalità emotive. Spesso, però, non ero consapevole dell’accadere della vita dentro me stessa. L’emozione non ha voce, ma è parola, è segno di vitalità.[1] Lavorando da molti anni secondo l’orientamento fenomenologico-esistenziale ho appreso che, per comprendere i sentimenti dell’altro e aver cura in maniera autentica di lui, dovevo imparare a comprendere i miei sentimenti. Per arrivare a ciò è stato necessario prendermi cura di me stessa, cioè addentrarmi nella mia vita interiore ed esplorare le profondità dell’esperienza, stando in ascolto del mio sentire. Direbbe Luigina Mortari: «Si tratta di praticare una fenomenologia del sentire: pensare l’accadere della propria vita emotiva»,[2] in ascolto delle forme non predefinite della vita, di un sentire che si presta ad essere plasmato nel suo fluire.
    Quando si parla di emozioni e sentimenti, il compito dell’educazione si riconosce non nella rimozione, non nel loro controllo, ma nell’abituare il soggetto educativo a vivere la propria interiorità senza temerla, a stare in dialogo con essa.
    Si tratta di un processo lungo e complesso che non si improvvisa, ma richiede una formazione per nominare le emozioni e i sentimenti, per accettarne il contenuto anche quando non è positivo o piacevole, per interrogarsi e comprenderne il senso, per esprimerli e comunicarli in modo adeguato. A volte può essere necessario elaborarli perché dai sentimenti si può apprendere: si apprende una parte di sé, quella che è in continua tensione, in continua crescita ed espansione.
    L’aver cura della vita emotiva si origina, quindi, dall’esigenza di risvegliare la sensibilità di una cura autentica e di una cura intima di sé, nel significato profondo di amore esistenziale. Nella relazione di aiuto ci sono delle circostanze privilegiate in cui l’aver cura di sé è una perla preziosa da cercare, in cui l’educatore deve esercitare questa scelta per rendere efficace il suo agire, per fecondare di nuove possibilità il suo operare. Vediamole insieme.

    Quando l’educatore, per prendersi cura degli altri, non si prende cura di sé

    Nella relazione educativa una totale spoliazione e un annientamento di sé, un oblio di se stessi per mettersi al servizio dell’altro è rischioso. È necessario un aver cura di sé attraverso l’arte del sentirsi, «vale a dire saper conoscere, accettare, ascoltare, elaborare, esprimere il proprio mondo interiore passando da una sentimentalità generica e ridotta ad una ricca e adeguata», e simmetricamente un prendersi cura dell’altro, attraverso l’arte del sentire, per «saper accogliere l’altro come soggettività titolare di una sua dignità e di un suo valore».[3]
    Per raggiungere una maturità affettiva di tale portata, serve un percorso di crescita interiore che spinge l’educatore a ripartire da sé per rilanciarsi nel mondo del lavoro educativo. L’incipit di questo percorso è la postura emotiva del dar voce al sentire, cioè «lasciar essere» le emozioni e i sentimenti, perché l’educatore non sia un soggetto neutro e impersonale di fronte al fluire della vita, oppure un soggetto chiuso nel proprio ruolo.

    Quando l’educatore tampona l’emergenza, invece di farsi inventivo

    Di fronte alle situazioni emergenti dell’esistenza che richiedono risposte impellenti, di fronte alle realtà più dure dal punto di vista umano, più dolorose, in cui potrebbe sembrare che lo sconforto impoverisca le relazioni, le emozioni avvolgono le persone in una spinta creativa che può modificare le situazioni e, quando se ne è consapevoli, ci si sente pronti e in grado di dare forza, fiducia al cambiamento. Allora si può animare la speranza andando a toccare quelle parti del temperamento e degli affetti, della fiducia in sé e negli altri, della resistenza contro ogni delusione, della trasformazione che diventa risposta concreta alla situazione emergente.
    È importante precisare che nell’esistenza il soggetto, sia esso educatore o educando, può fare esperienza di conoscenza e, conoscendo, modificarsi, ricreando incessantemente se stesso. «La lezione fenomenologica ci propone di tornare sempre alla vita e alla soggettività come ineguagliabile fonte di conoscenza».[4] È forse questo il senso di «scegliersi per l’educazione nell’incessante scegliersi per-la-vita».[5] La relazione affettiva che incarna i gesti della cura, oltrepassando le fredde azioni tecniche, seppur necessarie, permette l’interpretazione e l’elaborazione dei vissuti del lavoro educativo, in modo personalizzato e non standardizzato come potrebbe prevedere la procedura in una determinata circostanza.
    Nella continua – anche se per certi versi faticosa – apertura a nuovi orizzonti di possibilità di azione, si potrebbe ricercare uno stile professionale capace di rendere costantemente nuovi i soggetti, educatori e educandi, generando in modo creativo azioni diverse e perlopiù rinnovate rispetto al modo usuale di pensare e di fare.

    Quando l’educatore provvede alla situazione, invece di fermarsi a riflettere

    Nella relazione educativa, non basta «fare», occorre il tempo per pensare e riflettere, per interrogare quello che si fa e discernere il modo migliore. Un tempo per pensare, non solo i singoli atti, bensì la relazione che li lega, che intreccia ogni singolo filo del lavoro educativo nel tessuto, intelligente e affettivamente connotato, della cura. All’interno dell’affaccendarsi della cura educativa, spesso intesa in senso più prestazionale che relazionale, si respira l’urgenza di poter disporre di un «tempo dedicato», nella quieta silenziosa, perché il sentire, nelle relazioni d’aiuto, resta chiuso alla percezione dei singoli, alle sensibilità dei soggetti coinvolti.
    L’educatore deve aver cura dei suoi sentimenti per mettere in atto la capacità di elaborarli e fare di essi sguardi intelligenti sull’esperienza.[6] Aver cura di sé diventa un desiderio che spinge la persona ad elevarsi per essere presente a se stessa nel fare abitudinario delle attività educative, delle mansioni operative di ogni giorno. È necessario uscire dai confini del tecnicismo che poco lasciano al farsi avanti della narrazione vissuta delle persone, a volte riconosciute come fragili e timidamente oppresse da un senso di inadeguatezza.
    Come per la rosa del Piccolo Principe, nasce, per l’educatore, un bisogno di pause, di spazi di riflessione e di condivisione, per conoscersi e comprendersi meglio e per essere profondamente se stesso nella relazione d’aiuto. In questi pensieri si può rintracciare l’imperativo socratico «Conosci te stesso!»: l’esigenza di stare in contatto con se stessi, in ascolto attento di sé, inizio e fine di ogni autentico itinerario di formazione.
    La consapevolezza emotiva, come sapere esperienziale dell’educatore, «deve diventare saggezza sua propria, che egli acquista da sé, sapere che tende all’universale, del quale egli possa, all’inizio e in ogni momento, rispondere in base alle sue vedute assolute».[7] Aver cura di sé richiama, dunque, anche la capacità sensibile di fermarsi per vedere dove si è arrivati, e cogliere la direzione che si sta intraprendendo per conferirvi un senso, pur dovendo talvolta affrontare vissuti di malessere, di inquietudine e angoscia.

    Quando l’educatore non affronta con i colleghi il problema di fondo, invece di aprirsi ad una condivisione

    L’apertura alle emozioni e ai sentimenti chiede di essere condivisa tra i colleghi, oltre che vissuta dai protagonisti dell’educazione e della cura, soprattutto laddove non ci sono ricettari da seguire e laddove le diversità nel gruppo di lavoro permettono «trovate» da costruire insieme.
    Se queste modalità di comunicazione si radicano, il gruppo di lavoro potrà mostrare una coesione, una cooperazione amicale da contrapporre alla durezza dei rapporti di forza, alla conflittualità della competizione o all’anonimato dell’indifferenza.
    Abbattere la serrata competitività, la concorrenza spinta dall’orgoglio e promuovere la condivisione delle competenze e delle sensibilità, permetterebbe agli operatori di «farsi posto l’un l’altro» coltivando così legami professionali e umani. Allora, la «produttività» di un’autentica attività sarebbe sostenuta «dal colloquio, dal dialogo, non importa se parlato o scritto o anche solo alluso»,[8] dal confronto, che maturano fiducia nell’altro e nelle proprie capacità di essere e di agire. In un contesto dialogico e partecipato, facendo affidamento sulla parola, ci si può sostenere nelle fatiche e trovare nuova forza ed energia tanto necessarie al lavoro educativo e sociale.
    In questo modo è possibile tenere viva «la tensione a vedere sempre ulteriori possibilità di azione che permettano di sperimentare altri modi di abitare il tempo».[9] Il guadagno formativo ed esistenziale di impostare una comunicazione aperta nel lavoro in gruppo, restituisce senso e motivazione al proprio esserci. Anche pensare insieme, progettare e verificare insieme, può rispondere all’esigenza di conciliare le varie cariche nell’esercizio dei ruoli diversi, confermare il senso della propria efficacia e rafforzare la coesione.

    Quando l’educatore non ascolta ciò che provoca in lui l’incontro con le difficoltà

    Ciascun educatore si trova prima o poi a confrontarsi con l’esperienza del limite. Nella mia esperienza professionale ho notato quanto le persone abbiano paura di essere ferite e nel tentativo di evitarlo, a volte, erigano barriere dietro le quali proteggersi nel rapporto con l’altro, allontanandosi dalla verità e dall’autenticità dell’incontro. Invece, scoprire la mancanza di qualcosa può rendere coscienti e, in modo quasi liberante, alleggerire il peso del limite.
    Si potrebbe cambiare sguardo sul limite e intenerirlo per accoglierlo, non come linea che traccia ciò che «non c’è», ciò che manca – perché le mancanze fan perder di vista le risorse – ma come segnale che rimarca la possibilità di essere altro, pur senza tradire la fedeltà a se stessi. Così facendo si nutre la fiducia del proprio esserci in quella situazione, al di là delle difficoltà e degli ostacoli che si possono incontrare. In questo stato di serenità, in cui l’educatore si riconcilia con i propri limiti senza ingrandirli oltre misura, la realtà appare nella sua pienezza.
    L’aver cura di se, dunque, permette uno sguardo più profondo che coglie, di fronte a ogni difficoltà, l’essenza delle cose senza fermarsi all’apparenza. Anzi, l’espressione dei propri sentimenti chiede al soggetto di essere sensibile, capace di stare in ascolto di sé per accogliere e vivere turbinii interiori, inquietudini emotive, sensazioni drammatiche di vuoto o di quiete vitale.
    Ogni dolore porta in sé una crescita e una maturazione, e per questo ha bisogno di cura a fine di ammorbidire le parti di sé che più fanno male e accogliere le parti degli altri che più hanno ferito, hanno fatto star male.[10] Grazie ad una cura di sé, anche nei momenti in cui si è colpiti dal dolore e dalla frustrazione, si può trovare uno spazio in cui continuare a stare bene con se stessi.
    L’aver cura di sé deve accompagnare la persona nella graduale scoperta della propria vita emotiva, perché il volto dell’educatore non sia una maschera. Conoscere il proprio sentire significa allora comprendere sempre meglio se stessi, rispetto ad uno specifico agire e pensare le cose che accadono.
    A questo proposito Carl Rogers osservava che quando «una persona comprende se stessa, il Sé diventa più congruente con l’esperire. La persona diventa in tal modo più autentica, più genuina».[11] Essere sincero, autentico, è possibile per l’educatore quando è pronto a «viversi, vedersi, ascoltarsi, come essere vivo che è-nel-mondo-con-gli-altri» e a mettere «a disposizione nel rapporto educativo la sua vita verso il comprendere e lo sperimentare l’esistenza altrui».[12] Nel momento in cui scegliamo l’autenticità della vita e dell’educazione, siamo sempre rimandati a noi stessi, viviamo la dimensione dell’essere-con-l’altro per assumere l’esistenza nella sua finitudine e nella sua trascendenza, nell’esperienza del limite e nella coscienza delle possibilità.
    In questo modo, stare «corpo a corpo» con le circostanze intense e drammatiche dell’esistenza ferita, chiede all’educatore di imparare sulla «propria pelle» l’apertura alla scoperta del senso di ogni agire professionale e la possibilità di dar forma ad un progetto esistenziale di sé.[13]
    Sicuramente può implicare lo sforzo e l’impegno di imparare a cambiare lo sguardo, pur mantenendo la fedeltà ad uno «stare» nelle situazioni educative, anche quando si fanno difficili o espongono alla sofferenza, alla delusione, al dubbio, all’incertezza.
    Assumere un atteggiamento di apertura davanti alla vita con le sue criticità e spigolosità, permette di attraversare emozioni e sentimenti senza timori, ma anzi con desiderio, con interesse, con entusiasmo e con una sana dose di forza d’animo e coraggio. È un’esperienza affettiva che evoca un senso di pienezza, a livello sia personale che professionale. In questo modo il soggetto vive un sentimento attivo, che si conquista: non cede alla resa, ma si stabilisce nella scelta del dare spazio, ascolto, tempo a se stesso e a ciò che sente; non si infiacchisce negli eccessi dei sentimentalismi, delle iperprotezioni che dis-confermano la persona, non si irrigidisce, non si cristallizza nella costruzione di nuove maschere, nuove corazze, ma si irrobustisce e rinvigorisce nella limpida nudità dell’essere se stesso.
    Per cominciare a coltivare la cura di sé,[14] possono essere utili strumenti a cui ispirarsi come la letteratura, la poesia, la musica, l’arte, il cinema, il teatro: quei luoghi e spazi dove la sensibilità umana si lascia incontrare attraverso la comunicazione espressiva. Sono esperienze che, aprendo i sensi e la mente ad un fiorire di sentimenti, alimentano la comprensione dell’esistenza e della propria umanità, arricchiscono l’animo e l’esperienza dell’educatore e lo fanno crescere nella capacità più propria e, forse, la più alta: quella di saper sentire l’altro per aiutarlo a diventare compiutamente se stesso.

     
    NOTE

    [1] Cf M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano, 1965.

    [2] L. Mortari, Aver cura della vita della mente, La Nuova Italia, Firenze, 2002, p. 87.

    [3] B. Rossi, L’educazione dei sentimenti. Prendersi cura di sé, prendersi cura degli altri, Unicopli, Milano, 2004, p. 11.

    [4] D. Demetrio, L’educazione interiore. Introduzione alla pedagogia introspettiva, La Nuova Italia, Firenze, 2000, p. 241.

    [5] V. Iori, Essere per l’educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1988, p. 171.

    [6] Cf V. Iori, «Il sapere dei sentimenti», in Id, (a cura di), Emozioni e sentimenti nel lavoro educativo e sociale, Guerini, Milano, 2003, pp. 193-209.

    [7] E. Husserl, Meditazioni Cartesiane, Bompiani, Milano, 1989, p. 38.

    [8] D. Cargnello, Alterità e alienità, Feltrinelli, Milano, 1966, p. 83.

    [9] L. Mortari, La pratica dell’aver cura, Mondadori, Milano, 2006, p. 140.

    [10] Sul tema della tenerezza si veda M. Filippini, «La responsabilità del sentite intenerito», in V. Iori, (a cura di), Quando i sentimenti interrogano l’esistenza, Guerini, Milano, 2006, pp. 327-360.

    [11] C. Rogers, Un modo di essere, Martinelli, Firenze 1993, p. 102.

    [12] V. Iori, Essere per l’educazione, cit., p. 165.

    [13] Cf il saggio di E. Musi, «Svelare la domanda di senso» in NPG 2/2009, pp. 38-43.

    [14] A tal proposito si vedano le presentazioni di questi strumenti contenute negli interessanti saggi di V. Iori, «Per una pedagogia fenomenologia della vita emotiva», in V. Iori (a cura di), Quando i sentimenti interrogano l’esistenza, cit., pp. 52-65; D. Bruzzone, «Fenomenologia dell’affettività e significato della formazione», ibid.


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