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    La paura



    Educare le emozioni /3

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2009-03-69)


    Ti ricordi,
    Michel, che fretta avevano tutti
    Di far partire la vettura?
    Mentre lento il tuo vagone
    se ne andava, ritornava la paura
    (Claudio Lolli, Michel)

    Abbiamo aperto questo articolo con una citazione da una splendida canzone di Claudio Lolli: il protagonista, che è poi il Claudio adolescente, vede allontanarsi il treno che gli porterà via per sempre l’amico d’infanzia Michel, e prova paura, anzi sente il ritorno di una emozione che gli è stata vicina fin dai primi anni di vita. Ma cosa farà il piccolo Claudio una volta tornato a casa, in classe, in strada? Cercherà probabilmente di nascondere il suo sentimento, di cancellarlo, di obliarlo, perché la paura per un giovane maschio è socialmente sconveniente e impresentabile. In una società nella quale la paura è un sentimento da nascondere, una sorta di vergogna soprattutto per i maschi, gli e le adolescenti provano, oltre alle paure tipiche della loro età, anche una sorta di paura al quadrato, la paura d’aver paura, e di mostrarlo. La paura è allora da considerare come un sentimento fondamentale nel processo di identificazione e di crescita del ragazzo e della ragazza; e invece che ripetere con vuoti slogan l’ovvietà secondo la quale «non si educa con la paura» (slogan che è un truismo, laddove essa sia utilizzata come arma di ricatto), occorrerebbe pensare a un dispositivo educativo che comprenda in sé la paura come congegno segreto, relais fondamentale per la elaborazione simbolica della crescita dei e delle giovani.

    Le paure degli adolescenti

    L’adolescente prova anzitutto paura della crescita, paura di non farcela a diventare uomo o donna e paura, al contempo, di riuscirvi e di essere proiettato verso i lidi oscuri dell’età adulta; paura di restare bambino o bambina e di abbandonare troppo presto e con troppi traumi il corpo infantile; paura del proprio corpo e delle sue metamorfosi è anche paura del tempo che passa, paura di crescere, di diventare grandi; spesso infatti il processo di crescita viene visto come omologazione, perdita della propria irripetibile originalità.
    La propria identità rischia di collassare nel tempo, di frantumarsi in mille Ego senza coerenza e senza filo logico, diversi ogni istante. Paura di perdersi, dunque, di frammentarsi: e le fantasie distruttive e auto-distruttive dell’età adolescenziale sono permeate di questi fantasmi: corpi squartati, squarciati, sbrindellati, che non vogliono restarsene nel limbo della morte, ma come zombie tornano sulla terra per disseminare di terrore e di pezzi di carne la città. Perdita di identità, frammentazione, dispersione del proprio ego: si tratta di una paura epocale, che proprio nel secondo dopoguerra ha caratterizzato l’Occidente; crisi del concetto di identità che non può non essere presente nelle elaborazioni di chi sta lottando per conseguire una identità, e che si vede sottrarre a priori l’oggetto per il quale sta tanto faticando.
    La paura dell’adolescente è poi paura di scoprirsi e di essere scoperto, che da bambini si esorcizzava con quello straordinario gioco che era il «nascondino»; solo che ora c’è molto di più in gioco: un corpo sessuato, con tutti i suoi nuovi ritmi e segreti, una esperienza onanistica da tenere nascosta come fosse una colpa, una scoperta di sé e degli altri che spiazza e stupisce.
    Paura di esibirsi e al contempo paura di restare non-visti, paura del cono di luce come dell’invisibilità; coppie di opposti che gettano l’adolescente nello sconforto di chi ritiene di essere il solo o la sola a provare paura: gli altri ragazzi, le altre fanciulle, sembrano sicuri di sé, sembrano non avere dubbi, proiettano all’esterno un’immagine di sicumera che spaventa e atterrisce; e gli adulti sembrano ormai aver fatto i conti con l’esperienza della paura, e averle voltate le spalle, disgustati, come se fosse cosa da ragazzi. E allora il gioco più bello è mettere paura, soprattutto ai più piccoli e ai più deboli; ma anche far pagare ai più grandi e ai più forti la loro ostentata sicurezza, attraverso la meccanica dell’agguato, che mobilita spesso tutte le dimensioni del macabro.
    Giocare con la paura gettando sassi da un cavalcavia significa esorcizzare un sentimento che è troppo arduo mettere in scena nella vita quotidiana; perché anche se si ha paura del compito in classe o della partita di pallone, occorre nascondere questo sentimento, anche nei suoi aspetti piacevoli, nelle scariche energetiche che esso provvede. Se non si può elaborare la paura in classe o in campo o davanti ai genitori, tanto vale scegliere di giocarsela fuori, in ridicole prove di virilità o in tristissime spedizioni da ultras. Ed ecco che la paura diventa sfida, accettazione di un confronto nel quale chi ha paura perde, e che comunque è l’unica possibilità di mostrare fino in fondo quanto si ami questo sentimento: «Scommetto che non hai il coraggio di...» è il modo adolescenziale di mettere in scena la paura in una società adulta che ha fatto del coraggio un affare di scommesse!
    L’idea di avventura, di prova da affrontare, di senso del limite da superare è essenziale per una esorcizzazione della paura; ma che ne è di tale esorcizzazione quando essa non è organizzata, controllata e gestita dall’adulto? Che ne è delle possibilità di superare la paura quando questo sentimento non viene neppure legittimato? Eppure proprio la nostra società adulta dovrebbe imparare a fare i conti con le tremende paure epocali che dopo Auschwitz e Hiroshima l’hanno attanagliata e ancora la squassano; siamo sicuri che gli zombie che popolano i fumetti horror siano solamente proiezioni di paure individuali e non costituiscano invece macabre anticipazioni di un mondo post-atomico?

    Affrontare la paura

    La paura è allora da studiare insieme ai ragazzi e alle ragazze: prendendola molto sul serio ma al contempo distanziandosene, come accade per ogni oggetto conosciuto che nel momento in cui entra nel raggio di azione della coscienza umana diventa meno ostico e meno duro, inizia ad essere addomesticato: la paura nominata e conosciuta è una paura che fa meno paura: «ma se, senza lasciarsi affascinare, / l’occhio tuo sa scrutare negli abissi, / leggimi allora, per sapermi amare; / anima curiosa e che ti affanni / e vai cercando il tuo paradiso, / compiangimi, se no ti maledico!».[1] È in fin dei conti quanto si dovrebbe fare con i bambini anche molto piccoli. A partire dalla presa in carico della paura occorre rassicurare il bimbo o la bimba «sì, capisco che potrebbe far paura, ma...»; e qui si deve inserire un discorso razionale, che cerchi di spiegare al bambino che davvero non ci sono motivi reali per avere paura, anche se si capisce che la si possa provare. La paura dell’estraneo/a o dello straniero è oggi un vero e proprio grimaldello per le politiche di desolidarizzazione se non di razzismo esplicito; occorre sempre ricordare che un bambino o una bambina lasciati soli in balia delle loro paure nei confronti dell’estraneo saranno, da grandicelli, facili prede di discorsi razzisti: «Ti ricordi quei negri di cui avevi paura da piccolo? Bastoniamoli, cacciamoli, picchiamoli!». In vece con queste paure in larga parte costruite socialmente, si può anche giocare in sede educativa: soprattutto linguisticamente, con i giochi di ruolo, con la fiaba (da Cappuccetto Rosso a Hänsel e Gretel, da Pollicino a Biancaneve e i sette nani, dalla Bella e la Bestia a Cenerentola). L’importante è che l’adulto capisca che accompagnare i bambini nei labirinti delle paure costituisce una doppia operazione positiva: nei confronti dei bimbi e nei confronti dell’oggetto delle loro paure, magari del padre del proprio vicino di banco senegalese, un uomo di colore che ha proprio poco in comune con il Cattivo Uomo Nero con il quale qualche adulto sbadato ha terrorizzato le loro notti.
    Alle paure è allora possibile applicare quel «quadrifarmaco» che il filosofo Epicuro prevedeva secoli fa per curare la paura degli dei, la paura del dolore, la paura della morte e la paura di non raggiungere la felicità.
    Ci sembra interessante in questa sede ricordare il discorso epicureo attorno alla paura del dolore:
    «il dolore continuo non dura per lungo tempo nella carne, ma quello acuto è presente per brevissimo tempo, e quello che supera di poco il piacere della carne non rimane per molti giorni. Invece, quelle malattie che durano per molto tempo, danno alla carne più piacere che dolore»,[2]
    nonché la soluzione da lui prospettata a proposito della paura della morte:
    «Il più orribile dei mali, la morte, non è nulla per noi, poiché per tutto il tempo in cui noi siamo la morte non è presente; e per tutto il tempo in cui la morte è presente noi non siamo. Pertanto essa non riguarda né i vivi né i morti perché per i primi non c’è, e gli altri non sono più».[3]
    Occorrerebbe allora architettare dispositivi educativi che legittimino il senso di paura (in tutte le sue sfumature: dal panico al terrore all’angoscia, «paura di niente», «claustrofobia sociale») a partire dalle paure adulte; sapendo però che le paure si esorcizzano affrontandole, e che le paure sociali del XX secolo non si possono superare se non mettendo mano all’ingiusto sistema socioeconomico che le ha prodotte; l’adulto acquisisce la credibilità per poter aiutare l’adolescente a esorcizzare le sue paure se egli stesso sta affrontando l’aspetto pauroso del mondo in cui vive.
    Solo la voglia utopica di mutare un mondo pauroso ci mette in condizione di affrontare le terribili paure dei ragazzi e delle ragazze; possiamo dir loro che è normale, è giusto, è bello provare paura solamente se possiamo mostrarci ai loro occhi come impegnati a costruire un mondo in cui la paura sia solo un gioco, perché non ci sarà più nulla cui aver paura.

    Il mostro collettivo

    Attività per ragazzi/e dai 10 anni in su

    Tempi di realizzazione: 2 ore minimo

    Per i ragazzi e le ragazze più grandi è possibile inserire questa attività in un vero e proprio percorso attraverso “la mostruosità” nella letteratura, nell’arte, nel cinema e nel fumetto.

    Suggeriamo alcune letture di riscaldamento: qualche sequenza dal film The Elephant Man di D. Lynch; qualche sequenza dal film Il ragazzo selvaggio di F. Truffeau; il racconto di Howard Philips Lovecraft L’estraneo (in Opere complete, SugarCo); il racconto Sentinella di Fredric Brown; il racconto Nato di uomo e di donna di Richard Matheson (dal libro Terzo dal sole, Urania n. 1062, Mondadori); lo straordinario racconto Villaggio incantato di Alfred E. Van Vogt (tratto da Le meraviglie del possibile, Einaudi); la ministoria a fumetti Ghor tratta dal fumetto Gli orrori di Altroquando della serie Dylan Dog (albo speciale n. 2); le carte geografiche medievali, con i mostri che presidiano i confini della cristianità (se ne trovano nei libri di storia medievale ma anche in La nuova cartografia di Arno Peters, Asal); le tele di Edvard Munch, di Georg Grosz, di Oskar Kokoscha; La metamorfosi di Franz Kafka; e alcune riflessioni attorno a personaggi classici del genere “mostruoso” (vi sono anche mostri buoni, ovviamente!): I Fantastici Quattro, Il mostro di Frankenstein, Dr. Jeckyll e Mr. Hyde, King Kong, Alien, Freddy Krueger, ecc.

    Sempre come attività di riscaldamento è possibile far scrivere ad ogni membro del gruppo la propria paura più grande su un bigliettino anonimo; i bigliettini vengono poi raccolti e sorteggiati; ognuno deve dare un suggerimento, scrivendolo sul retro del bigliettino, al compagno o alla compagna anonimi che hanno esternato le loro paure. Successivamente membri del gruppo vengono suddivisi in cinque sottogruppi; ogni sottogruppo deve inventare e scrivere in 10’ al massimo alcune caratteristiche del mostro che sarà protagonista del gioco; precisamente:

    gruppo I: come è fatto fisicamente il mostro?

    gruppo II: che cosa mangia?

    gruppo III: come si muove?

    gruppo IV: quale è il suo habitat?

    gruppo V: come fa per riprodursi o per conquistare... la sua amata?

    I cinque sottogruppi prendono nota delle caratteristiche del mostro; abbiamo così creato il mostro collettivo, unico per tutto il gruppo e nato da una sintesi delle caratteristiche che ogni sottogruppo ha evidenziato (e qui è interessante provare a decodificare le proiezioni delle paure più o meno coscienti che ogni caratteristica evidenzia).

    I sottogruppi tornano ora a dividersi con le seguenti consegne:

    gruppo I: disegnare un ritratto del mostro;

    gruppo II: disegnare la mappa della sua camera da letto;

    gruppo III: realizzare (su nastro) un’intervista;

    gruppo IV: raccontare un episodio della sua vita;

    gruppo V: scrivere una pagina del suo diario personale.

     NOTE

    [1] Charles Baudelaire, Epigrafe per un libro condannato da I fiori del male.

    [2] Epicuro, Massime capitali, in Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, Milano, Bompiani, 2005, pag. 1293.

    [3] Diogene Laerzio, op. cit. pag. 1277.


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