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    Teologia ed educazione



    Le interviste

    Intervista ad Alberto Martelli [1]

    (NPG 2009-03-12)


    UN BINOMIO COMPLESSO

    Domanda. Teologia ed educazione, un binomio complesso.
    Per lungo tempo si sono ignorate, essendo tra l’altro discipline collocate su differenti livelli: filosofia, pedagogia e scienze umane al livello «immanente»; teologia invece sul presupposto della rivelazione e della fede.
    Quale la ragione per cui la teologia si interessa di educazione (e anche di altre realtà «umane»)? Solo per la rilevanza dell’educazione «cristiana»?
    E soprattutto perché una teologia «dell’educazione»? E quale immagine di educazione la teologia assume?

    Risposta. Effettivamente siamo di fronte ad un interessante contrasto.
    L’abbondante uso di termini come «formazione» e «animazione», che fanno parte del campo semantico relativo alla realtà dell’educazione nella pastorale giovanile contemporanea, farebbero pensare ad un connubio consolidato tra teologia ed educazione, almeno nel campo della teologia pastorale; in effetti però non è così.
    L’impressione è che si tratti di un avvicinamento tanto spontaneo quanto complesso, che in questo modo contribuisce non poco ad una certa confusione e commistione di campi che non fa bene né alla riflessione teologica, né a quella pedagogica.
    Di fatto la presenza esplicita del tema dell’educazione nella riflessione teologica ha una storia soltanto recente. Probabilmente l’unione spontanea tra i due è presente fin da sempre nella pratica ecclesiastica, ma gli spostamenti culturali degli ultimi decenni hanno creato una sintesi e un dovere di analisi del tutto inediti.
    Negli ultimi decenni del ‘900 e, ormai, in modo sempre più marcato anche in questo inizio di secolo, l’educazione ha evidenziato il suo stato di crisi, non solo dal punto di vista cristiano, ma anche da quello antropologico. Questo ha fatto sì che il discorso sull’educazione e sulla sua pratica concreta si moltiplicasse, a danno in realtà di uno specifico e teorico approfondimento del significato dell’oggetto in questione.
    Potremmo dire semplicemente così: mentre l’educazione, che in primo luogo è un fatto che accade ancor più e prima di una riflessione, non ha mai cessato di essere praticata e non ha mai chiesto diffusi e approfonditi studi perché in genere condivisa a livello di costume sociale, con l’entrata in crisi di una cultura diffusa e condivisa da parte della comunità a favore di una società più frammentata ha richiesto un sovrappiù di analisi e di discorso che non solo non ne ha favorito la appropriazione, ma in ultima analisi ha rischiato di offuscarne l’identità.
    Se infatti intendiamo per educazione, almeno in modo iniziale, il processo antropologico mediante il quale la generazione adulta offre la sua opera per la crescita umana della nuova generazione fino alla maturità, ossia fino alla capacità di agire consapevole e libero nel contesto socioculturale, occorre subito dire che lo spostamento di attenzione dall’ambito filosofico-pedagogico a quello delle scienze dell’educazione certo non favorisce la riflessione, tecnicizzandola e frammentandola in tanti contributi.
    Ovviamente qui non si tratta di rifiutare gli apporti che lo sviluppo delle scienze umane propone al pensare contemporaneo; anzi, occorre subito precisare che proprio nella stretta della crisi attuale dell’educazione è sempre più necessario fare ricorso non soltanto ad un sapere spontaneo o autodidatta, ma ad un sapere professionale e professionalizzante che permetta una riflessione e una azione più precisa e più efficace da parte dell’educatore per il bene dell’educando. Si tratta invece di porre l’accento sul fatto che l’attenzione ai processi di sviluppo che tali scienze portano con sé non è sempre cresciuta insieme ad una riflessa attenzione sui significati fondamentali del vivere umano e dell’essere adulto.
    L’attenzione specializzata al minore in via di sviluppo rischia di mancare l’obiettivo quando esso è invece la definizione della verità dell’essere uomo e donna. In questo modo l’educazione rischia di limitare la propria azione ad un compito di cura maieutica o attivistica del minore, che ha come fine lo sviluppo delle proprie capacità «interiori», ma che fatica a dare direzione e senso a tale sviluppo. Se intendiamo l’educazione nel suo senso ampio e, forse, più nobile di un sapere pratico sull’uomo e sul diventare adulto, essa non può non interessare, assieme alla professionalità delle scienze umane e al loro contributo sul significato dell’essere uomini e donne, anche la riflessione teologico-pastorale e la pastorale giovanile in primo luogo, come azione ecclesiale rivolta ai giovani per il loro diventare adulti nella fede.
    L’annuncio del vangelo ai giovani non può andare disgiunto dalla preoccupazione per la loro crescita umana, che è capacità fondamentale anche per giungere alla possibilità di una decisione di fede adulta. [2] Eppure, occorre distinguere senza separare tra il servizio educativo che deve essere rivolto al minore, e il servizio ecclesiale di annuncio della fede e di evangelizzazione; solo in questo modo possono essere garantite la gratuità del servizio educativo e la libertà della fede; solo in questo modo infatti è possibile che l’educazione venga offerta, anche in campo ecclesiale, a chi cristiano non è, e che la crescita umana del cristiano non sia semplicemente confusa o identificata con la sua crescita nella fede.
    A questo punto occorre considerare perché la teologia si occupi così profondamente di educazione da coniare un nuovo ramo della scienza teologica: la teologia dell’educazione. Ovviamente l’interesse non è soltanto limitato al fatto che in qualche modo l’educazione può sviluppare il senso religioso della vita, o che l’educazione portata avanti da educatori cristiani può in qualche modo veicolare una etica cattolica nel ragazzo. L’interesse teologico e quello educativo si uniscono per il fatto che hanno un profondo interesse comune: l’uomo e la sua etica, ossia il modo pratico in cui si forma la coscienza del cristiano.
    Potremmo dire che la teologia dell’educazione si colloca in questo modo al punto di convergenza di tre discipline: la antropologia teologica, ossia lo studio dogmatico dell’identità dell’uomo nell’ottica cristiana, la teologia morale, che si occupa della pratica dell’uomo, e la teologia pastorale, che ha a che fare con l’azione ecclesiale nella storia. Questo perché parlare di teologia dell’educazione significa parlare di che uomo si intende formare (antropologia teologica), della formazione della sua coscienza (teologia morale) e della pratica effettiva dell’educazione (teologia pastorale).
    L’unione di teologia e educazione è possibile a questo punto soltanto a patto che la teologia permetta un’indagine della verità in cui sia implicitamente impiegata la storia e la libertà della persona, e l’educazione sviluppi il proprio pensiero anche a partire dalla riflessione su che tipo di uomo cerca di perseguire.
    Potremmo dire che sicuramente la teologia dell’educazione e in ogni caso la pastorale non si interessa di concetti di educazione che fanno riferimento a due estremi: l’autosviluppo e la «buona educazione».
    L’educazione non è semplicemente seguire o preservare l’autosviluppo della persona. Purtroppo, nonostante tutto, il buon selvaggio non esiste. L’educazione non è, dunque, semplicemente propiziazione di facoltà naturali che, compiendo il proprio corso, giungono a maturità. Educazione, anche se dal latino può essere tradotto come semplice tirar fuori, non è semplicemente maieutica. Lo sviluppo del ragazzo non è semplice autosviluppo definito dal suo DNA che l’educatore deve chiarire al ragazzo stesso, ma senza imporgli mete esterne alla sua personalità. In questo senso il seme che cresce, ma ha già tutto dentro, può anche essere una metafora esagerata.
    L’educazione non è nemmeno l’istruzione mirante alla «buona educazione», al bon-ton, cioè al vivere sociale. Educare non è semplicemente socializzare; non è soltanto fornire le coordinate culturali per riuscire a vivere tra soci (in società). In questo senso l’educazione dovrebbe infatti astenersi dall’identità del singolo individuo, che è appunto fatto personale, non sociale: «L’educazione fornisce il tuo addestramento al convivere, ma quello che fai a casa tua non interessa se tu lo tieni per te».
    La teologia dell’educazione avrà possibilità di dispiegarsi nelle sue potenzialità là dove l’educazione sceglierà di misurare se stessa e la propria riflessione confrontandosi con il paradigma fondamentale del diventare adulto: la generazione dei figli.

    Domanda. Può esplicitare quest’ultima affermazione?

    Risposta. Il tema della generazione dei figli mi sembra un buon riassunto di quello che si può intendere come educazione e delle problematiche che tale definizione porta con sé.
    La generazione dei figli infatti mette insieme almeno tre caratteri fondamentali che l’educazione non può eludere: il ruolo dell’adulto e il suo dovere di trasmettere una cultura alle giovani generazioni, l’obiettivo del minore che è quello di diventare a sua volta adulto e capace di generare, il fatto educativo come fatto di prossimità relazionale fondamentale, cosa che ha a che fare non solo con i processi e gli itinerari educativi, ma con i significati fondamentali del vivere umano. A partire da questi riferimenti iniziali è poi possibile cercare di sviluppare un’idea più completa di educazione che non eluda i fatti «naturali» della vita umana, ossia quegli eventi pratici fondamentali che formano la vita quotidiana di ognuno di noi e che concorrono a plasmare la nostra realtà di uomini e donne, uscendo da un troppo marcato intellettualismo educativo.
    Innanzitutto, dicevamo, il ruolo dell’adulto. Credo che venga bene messo in luce dai contributi degli studiosi di salesianità in riferimento all’opera educativa di don Bosco. Il sistema preventivo non è in primo luogo, secondo gli autori, in riferimento al minore, ma all’educatore. Tant’è vero che lo sforzo maggiore non deve essere fatto dal ragazzo, ma appunto dall’adulto. In questo senso l’educazione esce da un facile puericentrismo per entrare nell’ottica della responsabilità personale dell’adulto. È lui il sistema preventivo in persona; lui il principale responsabile, lui colui che deve cambiare il proprio modo di agire e di vivere se vuole essere educatore fino in fondo. Certo che il tutto è fatto per il bene del minore, ci mancherebbe, ma questo carica ancora di più di responsabilità l’educatore. Egli non si può esimere dal rapporto personale col destinatario della propria opera, anzi è proprio in questa relazione che gioca il suo ruolo educativo.
    La generazione dei figli come paradigma fondamentale dell’educazione contribuisce proprio a uscire da un semplicistico puericentrismo dell’azione educativa, in cui tutto sommato l’educatore è al riparo dietro a tecniche e competenze scientifiche, per inserirlo in pieno nella relazione e quindi in un impegno che lo coinvolge non come esperto, ma come persona.
    In secondo luogo l’analogia con la generazione permette di mettere subito in luce l’obiettivo dell’educare: l’essere adulti, cioè essere in grado di prendere in mano la propria vita nella forma a propria volta della genitorialità. Crediamo infatti che si possa definire adulto colui il quale ha la possibilità di possedersi nella forma del dare la vita. Quando cioè si è in grado di essere autonomi e autosufficienti, sufficientemente liberi e consapevoli di sé, non nella forma dell’autarchia solipsistica ed egoistica del vivere, ma nella forma del dono di sé, dono che per eccellenza viene figurato nella generazione, fisica o spirituale, di propri figli.
    Infine pensare all’educazione nella forma della generazione permette di mettere in evidenza la verità non retorica della frase: i genitori sono i nostri primi educatori. Questo per il fatto che l’essere uomini e donne in una forma particolare e con le particolari caratteristiche che la nostra coscienza assume è in primo luogo merito e conseguenza delle relazioni pratiche che hanno risvegliato e formato tale coscienza dentro di noi. Tali relazioni pratiche sono in primo luogo quelle è più prossime, quelle familiari.
    Questo carattere pratico della coscienza che viene evidenziato dalle forme basilari della relazione (genitori – figli, uomo – donna…) è ben messo in evidenza nella generazione che è il primo rapporto pratico mediante il quale la nostra coscienza viene alla luce.
    Da un punto di vista teologico possiamo aggiungere una caratteristica dell’analogia generazionale che permette di coniugare l’azione educativa con la cura della fede: il carattere «grazioso» della promessa della bellezza del vivere insita nel venire al mondo.
    L’essere generati è infatti azione di grazia, non dovuta alla abilità o ai meriti personali, e la relazione di prossimità che essa inaugura è segno della promessa implicita ma vitale che è possibile avere una vita che valga la pena di essere vissuta. A patto di tale grazia e di tale promessa soltanto è possibile prendere in mano la propria vita e assumersi la responsabilità del vivere adulto fino a voler donare se stessi. Questa grazia e questa promessa sono il terreno senza il quale la fede non può essere vissuta, ma grazie al quale si dischiude l’opera di grazia del Padre e la promessa di vita del Figlio Risorto.

    I PUNTI FERMI, I NODI RIMASTI

    Domanda. Leggendo a grandi linee la storia della teologia dell’educazione, quali le prospettive assunte, i guadagni consolidati e i punti fermi, ma anche i nodi non risolti o i punti carenti?

    Risposta. Non è semplice fare una verifica dello status quaestionis della teologia dell’educazione, anche perché ci troviamo di fronte ad un ramo teologico giovane e tuttora in evoluzione, la cui storia non è ancora afferrabile con la dovuta distanza e la dovuta calma per essere verificata e soppesata.
    Indubbiamente la teologia dell’educazione è andata crescendo di pari passo con l’emergere della questione antropologica nella teologia e nella pastorale ecclesiale, e con la sempre maggior rilevanza che il «problema educativo» assume nei contesti occidentali, con la crisi della pedagogia e della filosofia dell’educazione e il frazionamento della ricerca pedagogica nelle scienze dell’educazione. Il guadagno maggiore che la teologia dell’educazione ha portato alla riflessione teologica è proprio l’approccio stesso che essa persegue nello snodo critico tra Rivelazione e scienze umane, con una particolare attenzione all’ambito pastorale.
    In secondo luogo, lo sviluppo presente e futuro della teologia dell’educazione permette di mettere a fuoco, non dal punto di vista sistematico, ma da quello pastorale, il rapporto tra maturazione umana e maturazione cristiana, tra crescita dell’uomo e crescita del cristiano.
    Questo è un fatto che sempre accade, ma che difficilmente ha per ora trovato una equilibrata e approfondita tematizzazione, sempre in oscillazione tra la separazione e la sovrapposizione, entrambe troppo nette, e quindi falsificanti, dell’umano e del cristiano.
    Già il modo di esprimersi «umano e cristiano» tradisce una certa difficoltà a tematizzare la questione, costretti ad usare definizioni che, ereditate dalla teoria del «duplex ordo», faticano a rinnovarsi o sostituirsi con altre più equilibrate.
    Per quanto riguarda invece i nodi non risolti, voglio tornare all’idea espressa in precedenza, ossia al fatto che la teologia dell’educazione si trovi all’incrocio di tre discipline teologiche diverse eppure confinanti: l’antropologia, la morale e la pastorale. Essa quindi soffre dei nodi che vedono impegnate queste discipline e che esse stesse non hanno ancora risolto in modo unanime e stabile.
    L’antropologia teologica fatica ancora a sviluppare una teoria dell’uomo che integri in sé, non come corollario ma in modo fondante, lo sviluppo storico della persona. Una persona cioè che non sia definita soltanto a partire da un ipotetico stato adulto, sempre uguale a se stesso, ma che comprenda come le età della vita hanno a che fare con l’essere adulti, non solo come fasi preparatorie di poca rilevanza, ma come fasi essenziali all’essere uomo.
    Premetto di non essere un esperto nel campo, ma mi sembra che l’antropologia teologica debba e possa proseguire il suo lavoro di uscita ed emancipazione dalla antropologia delle facoltà.
    L’impressione è che finalmente si sia iniziato a ragionare sull’uomo nella sua totalità e non nelle sue parti, quasi distinte fra loro; ma ancora la categoria della storicità, insieme con alcune caratteristiche come i sentimenti, il rapporto generazionale, la differenza tra uomo e donna, non siano entrate a far parte delle categorie con cui pensare, ma siano applicate quasi in un secondo tempo su un uomo definito e individuato, già adulto e formato, a prescindere da esse.
    Un approccio di questo tipo rischia di minare di estraneità e di incomprensibilità il pensiero teologico, in modo particolare verso le giovani generazioni che proprio nella storia, negli affetti e nella relazione hanno alcune delle grandi chiavi di lettura (pulita o distorta) della realtà.
    La morale deve sviluppare sempre di più l’idea che la coscienza credente è coscienza pratica e praticamente si forma e vive. L’agire ha a che fare con l’essere non soltanto come suo specchio e conseguenza o come applicazione.
    Con particolare riguardo alle giovani generazioni, occorre sempre più evidenziare il nesso esistente tra la formazione di sé e le azioni che si compiono; inoltre le azioni stesse devono rendere sempre più esplicito il loro apporto sotto forma di responsabilità e di conseguenze, e dunque la loro temporalità, ossia la loro capacità di formare un storia, che significa formare la verità di una persona.
    In terzo luogo azioni, coscienza e fede devono giustificare il proprio nesso pratico pena l’impossibilità di uscire, anche dal punto di vista pastorale, da una morale relegata a serie di leggi da compiere e osservare che però risultano sempre e fatalmente estranee alla costituzione della persona e alla fondazione dei suoi piaceri e dei suoi progetti di vita.
    La teologia pastorale a sua volta fatica a trovare il proprio ambito di azione, presa nella stretta tra l’esuberanza delle opere pastorali e la scarsità di riflessione su di esse.
    Mi permetto a questo punto una breve puntualizzazione per non incorrere in fraintendimenti e confusioni, e per aprire il campo ad un eventuale fruttuoso dibattito.
    La teologia dell’educazione trova il proprio ambito di studio e sviluppo all’interno del più vasto campo della teologia pastorale. Si potrebbe dire, almeno in modo introduttivo, che la teologia pastorale corrisponde allo studio teologico dell’azione della comunità cristiana e dello sviluppo della Chiesa e della sua missione nel tempo e nello spazio.
    La pastorale giovanile a sua volta è l’azione ecclesiale rivolta in modo particolare alla cura della fede delle giovani generazioni.
    La teologia dell’educazione è solo in parte teologia pastorale, in quanto il compito educativo non è svolto soltanto dalla comunità cristiana. Essa ha in comune con la teologia pastorale il fatto di essere una ri-flessione, ossia un ritornare teologicamente e in modo sistematico su di una storia che accade, il fatto educativo, ma va oltre la teologia pastorale, in quanto l’educazione è fatto umano e non soltanto ecclesiale.

    EDUCAZIONE E SCRITTURA

    Domanda. È corretto ricavare riferimenti dalla Scrittura circa l’educazione?
    Non c’è rischio di un discorso fondamentalista, di un corto circuito quando si prendono dalla Bibbia concetti, metodi, riferimenti troppo precisi? Ad esempio, il tema della pedagogia di Dio, della discepolanza e sequela, di Gesù Maestro…

    Risposta. Obiettivamente il discorso è complesso. La Parola di Dio è la cristallizzazione di una relazione di fede che si è svolta in un determinato periodo storico e in una determinata cultura, appunto perché ha coinvolto gli uomini di un certo tempo e di un certo luogo.
    Pur mantenendo il proprio carattere fondativo per la fede di tutti i tempi, è indubbio il fatto che gli eventi in essa riportati non possono essere semplicemente duplicati per ottenere gli stessi risultati di fede.
    Dal punto di vista dell’educazione, intesa in senso specifico e non soltanto come insegnamento a 360° sul discepolato e sulla sequela, occorre fare i conti con due particolari non indifferenti: essa è un fatto storico e, in secondo luogo, non fa parte del centro della rivelazione cristiana.
    Con questo intendiamo dire che l’educazione è un fatto che avviene in una determinata cultura, e anche quando la cultura presa in considerazione fosse quella biblica, ebraica o dei primi decenni del cristianesimo, non si può certo pensare che essa sia semplicemente e senza mediazione applicabile ai giorni nostri.
    Inoltre la parola di Dio non ha come centro del proprio oggetto l’educazione, ma la rivelazione e il cammino di fede del credente, per cui è difficile poter individuare in essa uno specifico insegnamento sull’educazione che possa essere definito valido per tutti i tempi e per tutti i luoghi.
    A parte qualche proverbiale insegnamento, sembra dunque che la parola di Dio sull’educazione non possa dire molto di più.
    In realtà occorre tenere conto che il fatto educativo è un fatto antropologico, ed è a questo livello che l’indagine teologica sulla Parola di Dio può dare i suoi veri frutti.
    L’educazione, come azione generatrice dell’uomo adulto, deve infatti fare i conti con la ricerca dell’adultità e della sua fisionomia, e la teologia dell’educazione non può fare a meno di domandarsi che cosa significhi essere adulti e cristiani adulti se vuole dare un contributo al fatto educativo.
    Per questo la parola di Dio può essere un contributo fondamentale.
    Credo inoltre che l’indagine sulla parola possa spingere ad una riflessione ulteriore: il rapporto tra verità e storia nel fatto pastorale ed educativo.
    In questo il dibattito di questi decenni sulla narrazione e sul suo utilizzo per la comunicazione della verità, può illuminare quello che stiamo dicendo.
    Non è possibile assumere la Bibbia sulla falsariga del «Manuale delle giovani marmotte» di disneyana memoria, ossia come quel testo che letto nelle varie circostanze, a prescindere da una riflessione ermeneutica e dall’analisi del contesto, trova nel testo, letteralmente inteso, le risposte sempre valide a risolvere ogni tipo di problema.
    Questo è un modo di intendere la verità biblica che non dà per nulla ragione della Bibbia stessa, la quale è già in se stessa opera storica ed ermeneutica di una comunità che riflette sulla propria storia e sulla propria fede.
    L’idea di utilizzare la categoria e la pratica della narrazione è invece corrispondente a ciò che la Bibbia stessa invita a fare: entrare a far parte di una storia da raccontare, mandare a memoria, raccontare e rivivere, senza essere soltanto racconto dei tempi andati e senza essere forma magica che risolve ogni problema in ogni tempo e in ogni luogo. La narrazione deve però proseguire la riflessione su se stessa proprio andando ad evidenziare che la storia che sta narrando, pur essendo la nostra storia, non è soltanto questo: è storia di Dio, ossia è verità che si fa storia, e per questo coinvolge narrazione, narratore e ascoltatore in un unico movimento ermeneutico che però non manca di dire una verità che essendo tale è sempre valida per sempre e per tutti.
    Dal punto di vista pastorale, con i giovani specialmente, non si può indulgere a far diventare la Bibbia «esempio» per dire altro, o brano da riattualizzare e cambiare a piacimento, quasi che si potesse estrapolare dalla storia biblica il contenuto sempre valido, scartando così la storia lì contenuta come non rilevante. Ma d’altra parte non si può nemmeno utilizzare la bibbia in modo fondamentalista, cercando nella lettera del testo tutte le risposte.
    L’insegnamento della lectio divina dovrebbe quindi a questo punto metter insieme la capacità di leggere il testo biblico (con tutto quello che ne consegue dal punto di vista tecnico esegetico e da quello spirituale) insieme con la capacità di far ciò in un contesto comunitario ecclesiale, non solo nel presente, ma anche con tutto ciò che la tradizione cristiana cattolica ci ha trasmesso.

    LO SCAMBIO FECONDO

    Domanda. Il discorso teologico sull’educazione esige di interpretare la situazione alla luce della Parola di Dio e indicare-rispettare le esigenze della fede.
    Può indicare alcuni nodi o risorse di particolare attualità o problematicità?
    Ma di certo questo non basta. Anche la pedagogia ha le sue modalità di percorso.
    In uno scambio reciproco di doni, cosa dà la teologia all’educazione e cosa l’educazione alla teologia?

    Risposta. Il rapporto tra pedagogia e teologia è segnato da alcuni nodi teorici su cui credo si possa dire che si gioca buona parte della riflessione contemporanea.
    In primo luogo, lo abbiamo accennato in precedenza, il rapporto tra verità e storia. Dire che adulti si diventa e che questa crescita non è un accessorio evitabile e irrilevante rispetto all’essere uomo o donna, significa infatti riflettere su cosa vuol dire che la verità è parte della storia stessa e che la storia ha un senso, una verità da dire. Non basta definire cosa è un uomo o una donna per poi declinare, quasi per derivazione, le caratteristiche del percorso pedagogico o del cammino di cura della fede. Occorre rivedere il proprio concetto di uomo e donna, la propria verità, sulla base della storia effettiva dell’essere umano.
    La storia smette di essere «passeggera» ed entra di diritto nel campo di ciò che è eterno, cioè la verità. Detta così l’affermazione è affascinante sotto molti punti di vista, ma riuscire a declinarla in un pensiero coerente e equilibrato è ancora in buona parte un compito da svolgere.
    La seconda questione aperta dalla pedagogia nei confronti della teologia è la rilevanza antropologica del cristianesimo.
    Ciò che la teologia dice dell’uomo e della dona è soltanto ad intra o è universalmente rilevante? E dato che la nostra fede pretende di essere la verità per tutti, come possiamo rendere questa rilevanza evidente dal punto di vista antropologico e non soltanto confessionale?
    Perché essere buoni cristiani è essenziale all’essere onesti cittadini, per dirla con l’espressione tipica di don Bosco? Non basta affermarlo e accettarlo per fede, a volte per fideismo: occorre giungere ad una visione condivisa e condivisibile, che vada oltre gli slogan.
    Un terzo nodo possibile potrebbe essere espresso sinteticamente in questo modo: cosa significa oggi essere adulti, come uomini e come cristiani? La domanda sembrerebbe essere senza precedenti nella storia dell’umanità e del cristianesimo, o almeno non ha ancora avuto risposta condivisa e chiara per tutti. L’adulto è sempre stato palese per tutti; allo stesso modo il cristiano era cosa «indiscussa», nel senso che non occorre provarlo, lo si diventava e basta. Ma ora invece sembra essere sempre più difficile riuscire a capire secondo quali parametri e quali condizioni ci si può dire adulti e cristiani adulti.
    Questo mette in crisi la pedagogia, perché la retorica della formazione permanente bypassa la discussione di quando uno è formato, cioè esce dal cammino di formazione per essere finalmente adulto. E anche dal punto di vista cristiano l’essere adulti nella fede è questione che investe la comunità e la discussione sull’iniziazione cristiana e la sua conclusione, ma che si ripercuote anche nella difficoltà della pastorale giovanile a trovare una propria meta.
    Assieme a questo emerge la difficoltà della Chiesa, intesa come comunità cristiana, di condividere consapevolmente l’identità cristiana e di indicare ai giovani una meta appetibile e comune a cui puntare nella propria crescita.
    Occorre però rilevare anche alcune attenzioni sempre più condivise che stanno illuminando a poco a poco il percorso della riflessione.
    In primo luogo la ormai consolidata attenzione alla gioventù come età particolare nelle sue caratteristiche e nei suoi bisogni. L’età evolutiva è diventata nell’ultimo secolo e mezzo oggetto di particolare attenzione, e per questo ha trovato una sua specifica collocazione sia negli studi antropologici che in quelli teologici, favorendo anche dal punto di vista pedagogico e pastorale un cammino insperato e innovativo.
    Questo ha portato con sé una seconda importante attenzione che ha permesso un notevole passo avanti pastorale: l’attenzione all’itinerario, visto non solo come accessorio, ma come componente fondamentale del processo di cura della fede e del percorso pedagogico.
    Infine occorre porre l’attenzione su un terzo guadagno, abbastanza recente, che permette una visione nuova, diversa e più precisa del compito pastorale ed educativo: l’attenzione di genere, la consapevolezza cioè della differenza tra uomo e donna nelle sue potenzialità e nelle sue relazioni reciproche.

    EDUCAZIONE E PASTORALE GIOVANILE

    Domanda. Teologia dell’educazione e pastorale giovanile.
    Come vede il legame e lo scambio tra processi di crescita umana e processi di crescita cristiana, tra educazione ed evangelizzazione?
    Nel contesto di PG si utilizza sovente la formula «educare evangelizzando, evangelizzare educando». A parte lo slogan, quale la sua riflessione al riguardo?
    Ci interessa indagare se davvero l’educazione è via all’evangelizzazione, se «produce cristiani» e come; se l’evangelizzazione ha bisogno dei processi di educazione, e lo fa nel rispetto della «laicità» e autonomia dell’educazione stessa.

    Risposta. Nell’ultimo Capitolo Generale della Congregazione salesiana, svoltosi soltanto alcuni mesi fa, tentando di riassumere in poche righe il compito pastorale all’incrocio tra educazione ed evangelizzazione, ci si è espressi in questo modo:

    «L’evangelizzazione richiede di salvaguardare insieme l’integralità dell’annuncio e la gradualità della proposta. Don Bosco assunse questa doppia attenzione per poter proporre a tutti i giovani una profonda esperienza di Dio, tenendo conto della loro situazione concreta.
    […] Siamo convinti che l’evangelizzazione propone all’educazione un modello di umanità pienamente riuscita e che l’educazione, quando giunge a toccare il cuore dei giovani e sviluppa il senso religioso della vita, favorisce e accompagna il processo di evangelizzazione: “senza educazione, in effetti, non c’è evangelizzazione duratura e profonda, non c’è crescita e maturazione, non si dà cambio di mentalità e di cultura” (Benedetto XVI, Messaggio al CG 26, n. 4).
    Per questo, fin dal primo momento, l’educazione deve prendere ispirazione dal Vangelo e l’evangelizzazione deve adattarsi alla condizione evolutiva del giovane. Solo così egli potrà scoprire in Cristo la propria vera identità e crescere verso la piena maturità; solo così il Vangelo potrà toccare in profondità il suo cuore, sanarlo dal male e aprirlo ad una fede libera e personale».

    Mantenendo fede alla sua caratteristica magisteriale e non di indagine teologica, il Capitolo non ha poi svolto la riflessione sul corretto rapporto tra educazione ed evangelizzazione, rimandando il tutto, anche in modo esplicito, ad indagini e sperimentazioni successive, ma chiaramente pone le basi entro le quali occorre muoversi.
    Non stiamo parlando di una astratta, intellettualistica e naturalistica idea di evangelizzazione da sviluppare a tavolino, ma stiamo parlando di comunicare il vangelo all’uomo concreto, o meglio ancora al giovane concreto di oggi. In questo senso non è pensabile che evangelizzazione ed educazione si possano ignorare. Certo, ad ognuna il proprio compito e la propria particolarità, nel rispetto e nella reciproca autonomia, però anche nel reciproco aiuto e illuminazione.
    Se evangelizzare è chiamare la persona, in questo caso ancora in età evolutiva e non già adulta, a entrare nella comunione ecclesiale con Gesù Cristo trovando in questo la propria maturità, felicità e santità, non è possibile pensare che quest’opera evangelizzatrice sia totalmente indipendente dal compito del diventare adulto che invece trova il proprio nucleo nel fatto educativo. Certo, è possibile essere santi senza essere adulti, e non solo per ragioni biografiche, ma non è possibile pensare allo sviluppo della persona come fosse a compartimenti stagni.
    Direi che il problema non sia se l’evangelizzazione ha bisogno di educazione o viceversa, ma se la persona ha bisogno di entrambe o no. La risposta è ovviamente scontata: educazione e evangelizzazione concorrono insieme, ognuna per la propria parte, a formare l’uomo adulto e santo che è il vero obiettivo di entrambe.
    Se l’evangelizzazione deve essere pensata non a partire dalla situazione adulta, ma in favore del giovane in età evolutiva, essa si confronta con l’educazione perché la verità del vangelo possa essere vissuta nel modo in cui richiede la storia della persona; se l’educazione deve avere come obiettivo la formazione dell’adulto, non può che attingere dall’evangelizzazione le proprie mete e la propria idea di uomo compiuto.
    In questo intreccio, che trova nella persona il luogo di vita, educazione ed evangelizzazione non rinunciano alla propria specificità, ma tale distinzione non è una separazione.
    La forma compiuta della coscienza, che è sempre forma pratica, è la forma in cui è possibile conoscere il vero e volere il bene; in cui, grazie alla mediazione della cultura e delle relazioni in cui soltanto è possibile vivere, l’io acquista la propria capacità di conoscere Dio e di volere la santità per sé e per gli altri, nella consapevolezza che soltanto il gesto della cura dell’altro da sé, del prossimo, in cui è dischiusa la cura di Dio nei nostri confronti, è possibile accedere al fondamento e compimento della propria umanità.
    Evangelizzazione ed educazione trovano proprio nella coscienza pratica e nella sua formazione il loro punto di incontro e di collaborazione.
    L’annuncio del vangelo non basta perché il singolo possa riconoscere in esso la forma che può assumere la propria vita nella sua totalità e interezza. Non basta l’annuncio evangelico a far sì che la persona trovi in esso il punto di vista dei propri sogni e delle proprie idee, gli orientamenti pratici del proprio futuro, il metro di misura delle proprie azioni e dei propri sentimenti. C’è bisogno di formazione, che non può essere soltanto informazione intellettualistica o semplicistico annuncio di un kerygma, per quanto performante sia la parola di questo annuncio, affinché la forma di vita di Gesù Cristo diventi anche la forma della mia vita. Soltanto se intesa in modo non intimistico, ma pratico e relazionale, la formazione della coscienza dei destinatari può diventare criterio di sintesi di tutta l’azione pastorale. Allo stesso modo soltanto se pensato entro l’orizzonte del vero e del bene/bello, la coscienza trova il proprio punto di sviluppo e il proprio compimento. Così, la formazione del singolo non può essere sganciata dalle forme della cultura. La sintesi tra significati del vivere suggeriti dalla cultura e quelli suggeriti dalla Chiesa non può essere soltanto soggettiva, ispirata dal «sentire» personale, ma deve essere fatta dalla Chiesa tutta.
    A questo punto educazione ed evangelizzazione vanno sottoposte ad una duplice verifica.
    Innanzitutto l’evangelizzazione deve uscire dalla stretta intellettualistica in cui basterebbe sapere le singole «verità» della fede per accedere alla comunione con Gesù e con la Chiesa. L’evangelizzazione deve farsi carico della formazione della coscienza, cosa che la Chiesa ha sempre saputo e custodito in particolare con un forte riferimento al rito nella celebrazione sacramentale, rito che è appunto mediazione culturale, pratica e relazionale della verità della fede alla coscienza del singolo.
    L’educazione da parte sua deve verificarsi nei suoi presupposti fondamentali, ossia nel modello di uomo, implicito o esplicito, che propone per vedere se esso è compatibile con l’ideale cristiano oppure no.

    UN CAMMINO DI SPIRITUALITÀ GIOVANILE

    Domanda. Un cammino di crescita per i giovani oggi. Cosa può offrire la TdE? Nella sua esperienza di studioso e di dialogo con operatori pastorali e con i giovani, dove vede i nodi principali e le risorse di un itinerario di spiritualità giovanile oggi?

    Risposta. I primi due dati che colpiscono della pastorale contemporanea sono da un lato la estrema proliferazione di attività e di idee, dall’altro la continua presa di coscienza, a volte anche retorica e ripetitiva, della difficoltà da parte della chiesa di far breccia nelle coscienze, in modo particolare quelle giovanili.
    È come se si fosse davanti ad una estrema iperproduzione di attività, idee, programmi, progetti, iniziative, piani, che però lasciano con la deludente sensazione di essere tutto sommato irrilevanti per la formazione delle coscienze e per gli obiettivi che essi si prefiggono. Bressan, in un articolo di alcuni anni fa, esprimeva questa crisi con una interessante definizione: la pastorale obesa. Nel senso che ciò che manca alla pastorale non è tanto la quantità, ma il vero e giusto principio nutritivo per le coscienza.
    In questa situazione in cui fa la parte del leone l’artista pastorale, ossia chi riesce per capacità e per attitudine personale, spesso di carattere carismatico, ad attirare persone e gruppi intorno a sé, ma senza produrre progetti pastorali condivisibili e comunicabili al di fuori della propria personalissima sfera di influenza, la teologia dell’educazione, come ramo della teologia pastorale, può essere di grande aiuto.
    Infatti ciò che sembra proprio mancare nell’obesità pastorale contemporanea è una seria riflessione sull’azione ecclesiale che sappia coniugare i contenuti della fede, bene espressi dalla sistematica, e la formazione delle coscienze, illuminata da una sana pedagogia.
    Il compito della teologia dell’educazione sarà dunque lo sviluppo di una azione ecclesiale che riesca a raggiungere almeno un obiettivo: rendere l’azione ecclesiale rilevante per la coscienza, appetibile e fruibile per il diventare adulti dei giovani a cui ci si rivolge.
    Per far questo dovrà percorrere due direzioni privilegiate: da un lato concorrere a mettere in luce come la prassi ecclesiale custodisca già di per sé una rilevanza antropologica fondamentale della fede che non può essere ignorata per la formazione dell’uomo e della donna; dall’altro procedere ad uno sviluppo di riflessione pastorale che permetta di far uscire la proposta evangelizzatrice dalle secche dell’intellettualismo e dell’irrilevanza.
    Veniamo ora a dire qualcosa di più specifico sul centro della domanda che è stata posta.
    Rendere più rilevante l’apporto antropologico della prassi e della dottrina ecclesiale non solo ad intra, ma anche ad extra della Chiesa, significa in poche parole riuscire a fare in modo che i contenuti e la prassi che la pastorale giovanile suggerisce ai giovani siano visti nella loro piena rilevanza per il bene del giovane stesso e riescano ad intercettare quelle tematiche che più stanno a cuore ai giovani e che più spesso rischiano di trovare nei discorsi ecclesiali un ruolo soltanto marginale.
    L’affettività, la sessualità, le relazioni, il piacere, la felicità, l’importanza del corpo, il sentire, gli affetti, la realizzazione di sé sono alcune delle tematiche che dal punto di vista pastorale non siamo ancora riusciti ad integrare pienamente nel discorso cristiano. Esse risentono di un influsso laico e laicista, e soltanto di striscio riusciamo a trovare per esse un posto d’onore nella proposta di una vita cristiana che facciamo ai giovani. Eppure tali temi non sono evitabili. Trovano proposte e risposte che rischiano di essere intellettualistiche, o svolte con linguaggi che non sono comprensibili alla sensibilità contemporanea. Oppure rischiamo che il discorso cristiano su di esse ricalchi quello laico contemporaneo, senza però renderci conto delle conseguenze che questo può avere, e in ogni caso fallendo l’opera di svolgere un discorso sull’uomo che sia integrale e completo, fino a poter presentare ai giovani una forma cristiana a tutto tondo e non soltanto a sprazzi.
    Da un punto di vista salesiano concludo con una segnalazione di un possibile percorso di approfondimento.
    Ritengo che sia interessante continuare un’opera di studio che è stata per ora soltanto iniziata e abbozzata, ma che credo porterebbe molti vantaggi: lo studio del rapporto esistente tra la santità di Don Bosco (educatore) e la santità di Domenico Savio (educando). Credo porterebbe buoni risultati in almeno due direzioni.
    La possibilità di studiare la proposta di una santità giovanile che non ricalchi quella adulta, ma che sia in grado di proporre al giovane un cammino adatto alla sua età, ma allo stesso tempo senza fare dell’età giovanile un mito bloccato nel tempo.
    Mi spiego meglio: al giovane non si può proporre un modello cristiano adulto, perché egli adulto non è ancora e non è soltanto un adulto in piccolo o in divenire, ma allo stesso tempo occorre stare attenti a fare in modo che il modello di santità che gli proponiamo non lo blocchi alla fase giovanile della sua vita, ma gli permetta lo sviluppo della sua età giovanile fino all’adultità.
    Avere un santo adolescente in relazione con un santo adulto forse potrebbe portare qualche squarcio di approfondimento su questa santità «piena, ma in divenire».
    Inoltre, essendo due santi che si nutrono a vicenda, perché santo educatore ed educando, e quindi in relazione fra loro, il loro studio potrebbe portare buoni frutti anche alla teologia dell’educazione, perché avremmo la possibilità di studiare in concreto ciò che avviene nel rapporto educativo, un rapporto già considerato da Dio e dalla Chiesa come esemplare per tutti.

    NOTE

    [1] Docente di teologia pastorale alla sezione torinese dell’UPS e Delegato di PG per la provincia salesiana del Piemonte e Valle d’Aosta.

    [2] Con questo non intendiamo dire che il non adulto (o per motivi anagrafici o perché impedito da eventuali disabilità personali) non possa giungere alla maturità della fede, alla santità piena, ma semplicemente che la normale crescita della persona nella fede va solitamente di pari passo con la crescita dell’intera persona, non essendo la fede facoltà separabile dalle altre caratteristiche che rendono l’uomo e la donna pienamente tali.


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