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    Oltre il bello che appare



    Educare al bello /2

    Marisa Musaio

    (NPG 2009-02-53)


    Per riflettere sulle implicazioni educative del bello, può essere utile riconoscere che si tratta di una realtà che prima di tutto attrae, affascina e muove il nostro interesse. Il bello si svela nella natura, nella realtà che ci circonda, nelle persone che ci sono accanto e nelle relazioni che con esse siamo in grado di instaurare. Può mostrarsi a noi in ogni aspetto e momento della vita. È qualcosa di immediatamente riconoscibile ma al tempo stesso dimensione che va ricercata, svelata e curata. Non si riduce soltanto a qualcosa di estetizzante e di parziale, ma coinvolge tutta la nostra esistenza, così come non è separabile dalla verità, perché come ci ha insegnato San Tommaso, il bello è lo splendore del vero. Ma per affinare la nostra capacità di riconoscerlo è necessario procedere per gradi, cercando di capire inizialmente quale attrazione esso esercita su di noi.

    Un’attrazione problematica

    Può aiutarci a prendere consapevolezza dell’esperienza del bello, il ri-andare con la mente e con il cuore all’attrazione suscitata in noi dalla bellezza naturale. Come evidenziava il filosofo Luigi Stefanini, l’arte del bello non può che prendere avvio dalla natura che è per noi come una «prima maestra» in materia di bello. Questo comincia «dal vedere, dall’esperire, dall’osservare, dal sentire la natura».[1] A chiunque sarà capitato, nelle circostanze più diverse e, a volte anche inaspettate, di rimanere colpiti dalla bellezza di un luogo, di un paesaggio, di uno spettacolo che la natura offre con le sue forme e colori quando ci incanta lasciandoci quasi senza fiato. Sono gli scenari che più ci colpiscono per l’intensità delle sensazioni e delle emozioni che proviamo.
    Componente abituale ma altrettanto inusuale e peculiare, la bellezza è sia una categoria concettuale sia un richiamo valoriale, ma anche espressione di un bisogno e di un piacere che svolge un ruolo essenziale all’interno della nostra vita. Il fascino e l’attrazione che essa esercita ci induce a rilevare come non sia un piacere fra tanti, poiché essa risponde a quel bisogno fondamentale di ricondurre l’ordine delle cose che vediamo e di cui facciamo esperienza ad un ordine superiore, a quella ricerca di ulteriorità che si accompagna ad una sorta di inquietudine che ci spinge a non rimanere attestati alle risposte, ma a ricercare e tenere sempre aperto il nostro domandare.
    Come dimensione che coinvolge la nostra natura sensibile e affettiva, il bello è una specie di ‘abbraccio’ da parte della realtà e delle persone. È rinvenibile nello sguardo del bambino quando si rivolge al volto della madre che vede bella per se stessa; del ragazzo che, incuriosito e mosso dal desiderio di muovere alla scoperta delle cose, si interroga sul loro significato; il bello è nella parola che scalda il cuore e che avvicina le persone, esperienza che fa in modo che tutti si sentano desiderati e valorizzati. In tal senso possiamo dire che si alimenta e si arricchisce di una pluralità di aspetti: dal vedere al sentire, al coinvolgersi, emozionarsi e comunicare.
    Volendo cercare di capire come si manifesta, potremmo dire sinteticamente che l’attrazione esercitata dal bello è composta da diversi aspetti:
    – dai riscontri immediati della sua presenza, ravvisabili nella sua forza di richiamo, di coinvolgimento della parte sensibile-emotiva, affettiva e interiore della nostra personalità;
    – dalla nostra componente tensionale, poiché il bello ci fa tendere verso la realtà e gli altri non in modo semplicemente strumentale o funzionale, ma come espressione del nostro inclinare verso un fine che cerchiamo di attuare per completarci;
    – dall’indirizzarci verso un «orizzonte» che possiamo definire estetico in quanto ambito della nostra vita definito dal concorso di vari elementi: il bello, l’arte, la filosofia, uno stile di vita compiuto ed esemplare. Come rileva lo studioso M. Perniola, nell’orizzonte estetico si possono rintracciare elementi diversi che tendono a fronteggiarsi e a confrontarsi tra loro, dando luogo alle più varie situazioni, anche problematiche, perché l’orizzonte estetico non è un luogo simbolico espressione soltanto di armonia, di pace ed equilibrio, esso è caratterizzato da un dinamismo permanente, attraversato da conflitti e da tensioni che riguardano per esempio il rapporto antinomico che intercorre tra bello e brutto, tra arte e non-arte, tra quei punti di vista che considerano il bello e l’arte essenziali per la vita umana, e quelli che ne hanno invece profetizzato la morte, tra una prospettiva di vita nella quale prevale l’influenza esercitata dalla tecnica, e la considerazione di un orizzonte estetico della nostra esistenza.

    Addentrarsi nel significato «segreto» del bello

    Esperienza dal carattere incerto e, a volte ambiguo, facilmente soggetta a fraintendimenti, il bello vive spesso di idee illusorie e ingannevoli che ci allontanano dal suo reale significato. Di recente lo studioso J. Armstrong ha sottolineato il carattere «segreto»[2] della bellezza perché quando ne facciamo esperienza il nostro primo impulso è quello di fermarci a sentire l’effetto che essa è in grado di suscitare in noi piuttosto che sapere e spiegare da che cosa essa possa dipendere: «Il nostro primo impulso, quando ci imbattiamo in una cosa bella, può essere quello di soffermarci in silenzio su ciò che vediamo o udiamo. Vogliamo semplicemente abbandonarci a quella cosa: assaporare e prolungare quel momento. Le parole ci sembrano inadeguate e indelicate. Possiamo temere che il tentativo di ‘analizzare’ l’esperienza ci guasti il piacere. “Non voglio sapere come funziona; voglio soltanto sentire l’effetto”».[3] Certamente non rappresenta un’esperienza facile e priva di problematicità. Se da un lato la capacità di percepire e riconoscere il bello è di carattere universale perché riguarda tutti gli uomini in ogni epoca, dall’altro lato, le cose considerate belle variano secondo i tempi e i luoghi, e, nonostante esso solleciti il nostro interrogarci, quando cerchiamo di definire che cosa è bello siamo in difficoltà. È un concetto che attrae ma che al tempo stesso elude i nostri tentativi di spiegazione. Potremmo dire che siamo più portati a farne esperienza, a vederlo, riconoscerlo e sentirlo, piuttosto che a ricercarne le cause e i motivi originari. Ma la sollecitazione a compiere chiarificazioni ulteriori per poter distinguere tra l’«essenza» e la «fenomenologia» del bello che percepiamo e verso il quale ci sentiamo attratti, non si arresta, ci spinge piuttosto ad interpretare quello che viviamo per distinguere il bello che attrae e che piace, la differenza tra bello e brutto, il bello che vogliamo semplicemente possedere e fruire, dal bello che ci apre il varco verso l’ordine interiore e spirituale della nostra vita ‘insinuando’ positivamente la ricerca di qualcosa di significativo insieme all’anelito della verità.

    Il bello nell’immagine e rispecchiamenti narcisistici

    L’attenzione per il bello risulta prevalere oggi nei vissuti personali e relazionali sotto forma di attrazione per l’immagine estetica che tende sempre più a prevalere nel nostro modo quotidiano di vivere, caratterizzando anche la cultura e i comportamenti. Le persone desiderano vedere, vivere e fermare le proprie esperienze per mezzo delle immagini e rappresentazioni visive, si pensi all’influenza assunta dalle pratiche fotografiche e multimediali legate ad una cultura del visivo, ad un culto dell’immagine di sé. Tende a prodursi così una sovrabbondanza di visioni dalle quali rimaniamo colpiti e come incantati. Non sempre sono immagini di qualità in quanto cariche di messaggi che tendono a forzare la sensibilità dei soggetti in crescita.
    Si pone allora il seguente problema: come poter parlare del bello in un modo che possa andare al di là della semplice apparenza? Cos’è che effettivamente è in grado di parlarci e di comunicarci il bello nella nostra vita?
    Se guardiamo al modo ricorrente e più diffuso utilizzato nella società contemporanea, si potrà riscontrare come esso sia veicolato soprattutto dalla ricerca di qualcosa che esteticamente ed esteriormente soddisfa il nostro bisogno di gratificazione. La ricerca del bello risulta così ‘intrappolata’ nelle maglie delle dinamiche narcisistiche, vale a dire in quei comportamenti che spingono i soggetti a identificarsi nell’immagine di sé. Il narcisismo connota in modo diffuso e quasi fisiologico il comportamento dei ragazzi i quali indugiano, come nel mito di Narciso, sulla necessità di vedersi proiettati nella propria immagine in quanto specchio che fa vedere qualcosa di particolare (il proprio viso, il proprio corpo, il modo di abbigliarsi, il modo in cui ci proponiamo agli altri, ecc.) come se valesse in maniera totalizzante e universale.
    L’attenzione in senso narcisistico per ciò che riguarda se stessi produce un’attenzione esasperata anche per le proprie opinioni, atti, caratteristiche, sentimenti, considerati come cose esterne, quasi delineando una sorta di «estraneità personale» che conduce a non appartenersi più. E così che Narciso diventa nell’età dell’adolescenza il simbolo di un contrasto e di un confronto espresso con parole illuminanti dal poeta Paul Valéry quando indaga il rapporto tra l’io e la coscienza di sé. Il narcisismo traspare, secondo questo poeta, nella fissazione sul nome, le abitudini, le tendenze, dell’essere definito, fisso, inscritto sulla propria storia, sul particolare inteso come «centro universale», al quale si contrappone la capacità di cambiamento, «l’essere che non può essere incatenato, […], l’io che può essere completamente nuovo e multiplo – a più esistenze – a più dimensioni – a più storie».[4]
    Nel mito di Narciso innamorato della propria immagine riflessa nell’acqua, e che si lascia morire perché non riesce ad afferrare l’oggetto della sua passione, è stato rintracciato il riflesso di noi stessi, della nostra dinamica formativa che si muove attraverso lo scambio continuo tra potenzialità e difficoltà, tra crisi, conflitti e superamenti degli stessi. Come hanno mostrato a più riprese gli studi psicologici, il narcisismo rispecchia la nostra carica vitale, quella forza originaria che muove il nostro funzionamento psichico, alimenta il nostro sentimento di esistere, di esserci ed esprimere noi stessi e di riuscire ad affermarci. Presente già nel bambino, esso è funzionale alla crescita e, soprattutto, al rafforzamento dell’autostima. Evolve in maniera adeguata quando tende alla formazione di un sé reale, ma nel caso in cui il soggetto rimanga legato ad immagini fantastiche e ideali di sé che non trovano riscontro nella realtà, tenderà a ricercare continuamente il bisogno di sentirsi ed essere ammirato. Quando le dinamiche narcisistiche tendono ad assumere tratti anomali, il soggetto percepisce e ama se stesso nella persona di un altro che viene idealizzato e vissuto come oggetto di possesso che alimenta continuamente il bisogno di ritrovarsi in qualcosa di esterno a sé. «Il narcisista si ama poiché trae piacere da se stesso e in quanto è unico e onnipotente».[5]
    Si può allora capire come le dinamiche e i comportamenti narcisistici creano un’autocentratura, una chiusura su di sé che necessita di essere superata attraverso la formazione di una identità reale, autentica, quanto più rispondente all’originalità propria di ognuno. Da qui l’importanza di esperienze attraverso le quali accrescere non solo la propria immagine ideale, ma soprattutto in grado di attivare le risorse personali più genuine e autentiche, di elaborare il proprio vissuto e di riuscire a farne materiale da utilizzare creativamente nelle esperienze e nelle relazioni con gli altri.

    Procedere al di là del bello narcisistico

    Il narcisismo afferma più di ogni altro atteggiamento una sorta di primato dell’immagine che influenza anche quella ‘sana’ ricerca del bello che ognuno avvia su di sé. Possono svilupparsi inoltre delle derive narcisistiche quando il bello si trasforma in estetismo estremo che conduce ad adottare comportamenti ispirati al rigido rispetto di canoni estetici, senza alcun richiamo a qualcosa di veramente buono e vero per l’uomo. Anche in questo caso non possiamo trascurare di considerare il potente condizionamento esercitato su di noi dal mondo dei media e dalla cultura dei consumi che ci hanno assuefatto alle immagini di una bellezza che è solo apparenza, superficialità e cura ossessiva del proprio del corpo e del proprio abbigliamento, una bellezza costruita che attinge in maniera gratuita anche ad aspetti sgradevoli e ad un culto del brutto impiegato ad arte. Queste forme inautentiche di bellezza, alle quali sembriamo esserci abituati, costituiscono in realtà una forzatura del bello assimilato riduttivamente all’aspetto esteriore e a ciò che appare, al quale non corrisponde alcuna visione veritativa né tanto meno un contenuto realmente in grado di raggiungere l’interiorità di ognuno, di contribuire alla formazione di un’identità che rispecchi l’autenticità personale e che possa alimentarsi a precisi contenuti e valori. La prospettiva di fondo all’interno della quale potrà essere teorizzato e attuato un percorso di educazione al bello dovrà preventivamente tenere in considerazione queste forme estreme ed elusive, per sgombrare il campo da travisamenti e condizionamenti negativi. Soltanto dopo aver compiuto questo lavoro di distinzione, si potrà procedere ad individuare gli aspetti sui quali soffermarsi per educare i ragazzi ad apprezzare il bello anche in ciò che appare, poiché, in ogni caso, ci troviamo ad educare un soggetto che comunque vive ed è inserito nella società dell’immagine e della comunicazione visiva, non possiamo negarlo, anche se possiamo rintracciare gli aspetti che ci permettono di maturare un’autonoma e critica prospettiva educativa sul bello. In tale direzione può risultare utile avviare un aperto confronto su alcune tematiche:
    – le interazioni che si instaurano fra la cultura dell’immagine e le altre forme di sapere, di apprendimento e di relazione;
    – le implicazioni che il bello suscita non soltanto sul piano del vedere, ma all’interno di una unitarietà dell’esperienza come realtà che intreccia il nostro essere, sentire, pensare e agire;
    – gli aspetti che ognuno sceglie come sinonimi del bello all’interno della propria vita;
    – gli ambiti personali vissuti e praticati nel ricercare il bello;
    – la relazione con la propria corporeità da viversi come aspetto bello in sé e non solo come luogo e modalità di gratificazione narcisistica, ma come modalità che permette di affinare la capacità di percepire e vivere la nostra condizione di esseri umani connotandola anche in senso estetico.
    Intorno a tale implicazione l’indagine da parte della filosofia esistenzialista ci ha reso progressivamente consapevoli del nostro essere incarnati in un corpo. Si pensi per esempio all’originalità che può avere oggi la rilettura del pensiero di un autore come Gabriel Marcel quando richiama l’essere incarnato dell’uomo,[6] tematica da rileggere nelle sue differenti valenze, ma in modo particolare in vista della riscoperta di un’esistenza che nella sua originarietà si pone e si sviluppa a partire da quella che Paul Ricoeur ha indicato come «vicinanza del corpo al soggetto».
    Il nostro costituirci in soggettività e in «alterità» si compie infatti attraverso «il sorgere parallelo della scoperta del corpo, dell’attenzione all’esistenza, e dello scoprirsi nello spazio interumano delle relazioni».[7] Il tema del corpo come ciò che mi appartiene in modo intrinseco, e la sua considerazione all’interno di un orizzonte pedagogico,[8] si rivela come un interessante ambito di ricerca e di confronto sul bello perché contribuisce ad accrescere la consapevolezza del nostro essere come qualcosa non di astratto e di neutro, ma strettamente coniugato con l’esistenza concreta, con la persona che si fa ricerca di sé all’interno e dentro quella che è la sua situazione. Essenziale diviene allora ricercare il bello di sé come persone che rivelano il proprio essere attraverso la specifica identità e differenza, attraverso l’espressività e il sentire del proprio essere corporeo che partecipa come un tutt’uno alla ricerca di qualcosa di bello.

     
    NOTE

    [1] L. Stefanini, Educazione estetica e artistica, La Scuola, Brescia 1955, p. 70.

    [2] J. Armstrong, Il potere segreto della bellezza, Guanda Editore, Parma 2007.

    [3] Ibid., p. 1».

    [4] P. Valéry, Quaderni, vol. IV, Adelphy, Milano 1990, p. 435.

    [5] B. Grunberger, Il narcisismo, Einaudi, Milano 1998, p. 48.

    [6] P. Ricoeur G. Marcel, Per un’etica dell’alterità: sei colloqui (a cura di F. Riva), Edizioni Lavoro, Roma 1998.

    [7] F. Riva, Dall’autonomia alla disponibilità. Paul Ricoeur e Gabriel Marcel, in P. Ricoeur G. Marcel, Per un’etica dell’alterità, p. 89.

    [8] Cf C. Xodo Cegolon, L’occhio del cuore, La Scuola, Brescia 2001.


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