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    Svelare la domanda di senso



    Gli atteggiamenti dell’educatore /2

    Elisabetta Musi

    (NPG 2009-02-38)


    Nel corso dei miei studi universitari, ricordo in particolare gli insegnamenti del mio professore di Pedagogia che nel caratterizzare la materia di insegnamento ripeteva spesso: «… e ricordatevi che in pedagogia voi avete a che fare con nomi comuni, con teorie che vi permettono di analizzare le situazioni come se foste in laboratorio, potendo azzardare ipotesi di intervento e simulazioni da sottoporre a valutazione critica, riformulazione, nuove possibilità di azione. Nell’esperienza vissuta non è così, lì avete a che fare con nomi propri: unici, particolari, a cui non si addice l’applicazione standardizzata di teorie e tecniche. Al contrario vi si richiede, dopo aver opportunamente imparato la teoria e le tecniche, di saperle mettere tra parentesi («epochizzarle», come si dice nel linguaggio fenomenologico), perché non prendano il sopravvento sull’originalità della situazione e della persona che vi trovate di fronte».

    Teorie e tecniche devono essere poste al servizio della comprensione della situazione, comprensione che chiama in causa la soggettività dell’educatore e che deve contemplare incognite quali l’imprevisto, il mistero, l’ingovernabile, l’imponderabile. Se ognuno di noi è sempre, irriducibilmente, mistero a se stesso (è quello che sperimentiamo quando ci sorprendiamo a pensare ad esempio: «non avrei mai detto di reagire così…»), quanto mai l’altro deve essere preservato nella sua alterità, che nessuna conoscenza specialistica e tecnica potrà mai svelare.
    E tuttavia anche in ambito educativo, nei percorsi formativi di base e permanente, viene riservata una sempre maggiore attenzione all’affermazione di teorie e tecniche con cui rafforzare uno specialismo che qualifichi competenze e professione. In questo modo si intende forse garantire all’educatore la certezza di stare in un contesto lavorativo dai contorni ben delineati, dotato di concetti, strumenti e parole-chiave utilizzabili solo da parte degli «iniziati». Ma il rischio è di «funzionare» anziché «agire» con umanità e capacità critica.

    La tentazione dei tecnicismi nell’agire educativo

    L’educazione implica un agire sapiente in quanto esposto ad un alto tasso di problematicità. E quando il sapere si complessifica, un insieme di norme ne regolano l’esercizio. Ma l’applicazione di norme, strumenti e tecniche, se avviene in modo acritico e indiscriminato, rischia quello che Husserl denuncia come un «occultamento di senso»,[1] cioè il pericolo di perdere il significato, i motivi sottesi all’azione, ridotta così alla replicazione di procedure e modelli operativi. Le tecniche a cui Husserl fa riferimento,[2] e a cui qui in special modo si rimanda, sono i saperi predefiniti, le competenze che non sanno inventarsi di nuovo dentro la novità di una relazione. Crescono su se stesse povere di soggettività.
    Una conoscenza tecnica che si impone all’interno di una relazione educativa col rigore di un’applicazione esatta, formalmente ineccepibile ma insensibile alle sfumature emotive espresse nei volti, riduce gli esseri umani alla fissità mortifera degli oggetti.
    Trovarsi a pensare: «Questo ragazzo l’ho già inquadrato» o «Ho già conosciuto tipi così» o ancora «Mi è bastata un’occhiata per capire» è il modo peggiore per fare appello all’esperienza o alle conoscenze teoriche, lasciando che queste prendano il sopravvento sull’unicità dei soggetti e delle loro storie.
    Teorie e metodi non sono negativi in sé, anzi: forniscono indicazioni utili per l’agire, frutto di riflessioni e verifiche che altri ci hanno messo a disposizione affinché non si ripartisse ogni volta daccapo. Ma possono diventare fuorvianti quando producono attaccamenti – alle rappresentazioni astratte, alle situazioni «ideali», agli insegnamenti ricevuti, alle esperienze analoghe vissute in precedenza – che distolgono lo sguardo e l’attenzione dalla concretezza della realtà.
    Conoscenze teoriche ed esperienze possono persino essere di ostacolo all’esercizio scrupoloso e attento dell’attività educativa quando offrono l’illusione di eludere l’incertezza, il rischio del fallimento, sollevare dalla discrezionalità e dall’arbitrio personale. In realtà strettamente connesse ai modi del progetto sono la scelta e la possibilità, che implicano la capacità di discernimento, di valutazione delle possibilità evolutive e delle eventuali alternative a partire dai vincoli e dalle risorse della situazione esistenziale in cui si trova il soggetto educativo.

    «La possibilità rende perseguibile la progettualità»,[3] l’individuazione di un progetto educativo realisticamente realizzabile richiede da parte dell’educatore coinvolgimento personale e decisione, pur nella consapevolezza che la decisione può anche non raggiungere lo scopo: «essa implica infatti il rischio e la possibilità del fallimento, e anche la rassegnazione in cui la possibilità si consegna alla situazione».[4]

    D’altra parte lo stesso divenire umano ha sempre un carattere ambivalente, può esprimersi costruttivamente o distruttivamente, così come gli strumenti con cui il soggetto potenzia le proprie facoltà possono avere una buona o una cattiva applicazione.
    È quanto sostiene Hans Jonas quando parla dell’ambivalenza delle scoperte scientifiche e delle conoscenze che rimangono potenzialmente minacciose anche quando vengono perseguite per i migliori scopi. La tecnica è una forma dell’agire umano, è esercizio di potere e in quanto tale presuppone un’etica che limiti e vigili sulla sua libertà di azione: «Un’adeguata etica della tecnica deve dunque convivere con questa intrinseca ambiguità del fare tecnico».[5]
    La tecnica può essere strumento di verità quando migliora la capacità di stare in ascolto del sentire proprio e altrui, quando non si interpone nel rapporto tra sé e l’altro, quando alimenta una relazione sempre più sincera e autentica con le proprie domande vitali, le proprie inquietudini, la percezione dei propri limiti. Il pericolo non è nella tecnica, ma nel suo cattivo utilizzo: quando impedisce al soggetto di «raccogliersi» in sé [6] schiudendo nuove possibilità di esistenza, quando non consente alla coscienza riflessiva di fare esperienza e conoscenza delle zone più profonde di sé – che giungono così a trarsi fuori dal nascondimento, cioè ad ex-porsi – secondo quel processo che viene comunemente chiamato consapevolezza.
    «Fino a che pensiamo la tecnica come strumento, restiamo anche legati alla volontà di dominarla»;[7] se invece sappiamo cogliere nella tecnica la possibilità di concorrere e anzi amplificare il disvelamento, il suo impiego non oscura l’essere (la soggettività, il volto delle presenze in gioco) ma lo chiama fuori dal nascondimento e dal ripiegamento su di sé. Un uso corretto e prudente della tecnica deve portare a scoprire il proprio potenziale esistenziale, il che presuppone secondo Heidegger porsi in ascolto della «voce della coscienza»,[8] che «dà a conoscere qualcosa, apre».[9]

    Coltivare il desiderio di ricercare il senso di ciò che si fa

    Quando è alibi per sottrarsi all’incontro, per negarsi all’altro (anche l’educatore può mettere in pratica conoscenze senza il coinvolgimento della propria umanità), la tecnica si configura come paravento della coscienza, scudo difensivo rispetto all’indisponibilità a prendere posizione, ad assumersi la responsabilità della relazione con l’altro. Il che non significa prodigarsi per lui e agire al suo posto (ad esempio sollevandolo dal dubbio della scelta presentandogli una ipotesi come la migliore), ma consentire all’altro di agire per il meglio di sé avendo trovato ascolto e proposte pratiche di evoluzione e di crescita.
    Questa evidente asimmetria è parte costitutiva della relazione educativa: poiché consente all’altro di conoscere e assumersi attivamente il proprio poter essere di fronte a diverse possibilità.
    E poiché il rapporto con se stessi è sostenuto e stimolato dall’incontro con gli altri, in una circolarità che contrasta il monologo autoreferenziale e apre al dialogo, è necessario privilegiare l’incontro intersoggettivo come prioritario rispetto a prassi protocollari, procedimenti formali che alla lunga si scarnificano e rimangono, appunto, vuoti della sensibilità dell’umano. Come scrive Martin Buber: «Il mondo genera nell’individuo la persona».[10]
    Il sapere educativo è retto dunque dalla responsabilità di cercare insieme – educatore e soggetto educativo – il senso dell’esperienza e nel disvelamento del senso scorgerne anche la sua verità.
    «La comprensione consente di porre e di lasciarsi porre la domanda di senso nelle situazioni dell’esistenza più dense di emozioni dove gli operatori, come persone, sono chiamati a legittimare l’affettività per non snaturare la relazione svuotandola di senso».[11] La coscienza, non estranea ad un sentire emotivamente impregnato, rappresenta «la capacità intuitiva di scoprire il significato unico e singolare nascosto in ogni situazione».[12] Dunque in ogni situazione è possibile scorgere nuovi significati con cui contrastare creativamente l’accadimento delle cose. In particolare l’educazione costituisce l’ambito più proprio in cui il soggetto può coltivare un affinamento della coscienza che lo porti a dare valore all’esistere investendolo di sempre più profonde comprensioni, di nuovi e più arricchenti significati.

    «In un’epoca di disorientamento esistenziale e di ricerca di senso, quindi, l’educazione è chiamata a investire sull’unica dimensione antropologica (quella coscienziale, appunto) che, in un tempo connotato dal senso di frammentarietà e dalla vertigine del cambiamento, consente a ciascuno di discernere i significati latenti che sono insiti in ogni concreta situazione e che attendono di essere realizzati. In tal modo, infatti, il singolo sfida il sentimento dell’insensatezza e dell’inutilità e rende significativa la vita».[13]

    La sensibilizzazione della coscienza rappresenta allora lo scopo principale dell’attività educativa, la cui funzione consiste nel fornire ai soggetti educativi le competenze e gli strumenti per discernere e compiere scelte consapevoli e critiche.

    Perseguire orizzonti di senso è educare ad un’esistenza autentica

    Ma per affinare le competenze educative è necessario sgombrare il campo da quegli impedimenti che, seppure inconsapevolmente, fanno scivolare in un agire meccanicistico. Si tratta di individuare anzitutto ciò che impedisce l’incontro tra due esistenze (quella dell’educatore e del soggetto educativo), metterlo da parte e avviarsi più spediti nel ricercare e praticare la dimensione autentica dell’educare. Questo procedimento, definito da Husserl epochè, è tradotto abitualmente come mettere tra parentesi: «Ora, giudicare le cose razionalmente o scientificamente significa volgersi alle cose stesse, risalire dai discorsi e dalle opinioni alle cose, interrogarle nel loro offrirsi ed eliminare tutti i pregiudizi ad esse estranee».[14]
    Vanna Iori ha tradotto il concetto in ambito pedagogico:

    «Tornare all’originarietà essenziale del fenomeno educativo non è una enunciazione semplice e banale poiché presuppone un procedimento metodologico difficile e complesso, e richiede il coraggio euristico di non dare per scontata nessuna opinione, neppure la più comprovata o consolidata. […] L’astensione dai vincoli del proprio bagaglio interpretativo consente di gettare lo sguardo sulla realtà educativa e vederla per ciò che è, anche se tale visione non coincide con ciò che preliminarmente o generalmente si crede che essa sia».[15]

    L’epochè pone fuori campo quel sapere catalogante nutrito di analisi logico-razionali tese a destrutturare la globalità del fatto educativo in una somma di spiegazioni settoriali.
    Mantenendosi aderenti alla problematicità del reale, invece, è possibile porsi in posizione di autentica e libera ricerca di significati a guida di ciò che si fa, lasciando esistere lo sfondo di una realtà enigmatica e irriducibilmente imprevedibile che può essere illuminata dall’intuizione, dall’immaginazione, dalla scoperta.

    «Queste affermazioni non devono però essere fraintese: l’epochè non è la negazione di ogni conoscenza precedente per affidarsi unicamente alle proprie intuizioni soggettive, al di fuori di ogni logica e di ogni razionalità. I presupposti scientifici vanno semplicemente relativizzati (contro le rassicuranti tentazioni di assolutizzarli), cioè messi ‘in parentesi’».[16]

    Imparando ad attraversare il consueto con occhi nuovi [17] è possibile scoprire le proprie risorse e le proprie potenzialità che attendono attuazione, e farsi promotori di una scoperta analoga nel soggetto educativo. Il quale è così posto nella condizione di scegliersi,[18] ovvero di dare forma al proprio divenire secondo un principio di valore, di intenzionalità e volontà. Illuminanti a questo proposito sono le parole di Buber:

    «Ciò che noi chiamiamo educazione, quella consapevole e voluta, significa selezione del mondo agente operata dall’uomo; significa attribuire potere decisivo ed efficace a una selezione del mondo raccolta e mostrata nell’educatore. Si ha cura del rapporto educativo sottraendolo alla corrente priva d’intenzione dell’educazione generale: curandolo come intenzione. Così solo nell’educatore il mondo diventa il vero soggetto del proprio agire».[19]

    Ma che cosa è necessario «mettere tra parentesi» per non perdere di vista il senso dell’impegno educativo?

    «È questo un interrogativo cruciale. Lo sforzo di ‘porre fuori azione’ i propri pregiudizi, al fine di cogliere il dato fenomenologico nella sua immediata evidenza, può restare infatti una pura dichiarazione di intenti, se non si individua concretamente che cosa si vuole epochizzare, e se non si giunge infine a cogliere quell’‘educazione stessa’ che resta dopo la riduzione. Non è sufficiente assumere genericamente un atteggiamento libertario o una preliminare dimensione critica, poiché l’epochè non è un’operazione vaga e sfumata, è invece rigorosa, complessa, radicale».[20]

    Le tentazioni dell’agire educativo

    Diverse sono le tentazioni che minacciano l’autenticità dell’agire educativo. Alcune sintetiche esemplificazioni possono favorirne la comprensione.

    * Non saper uscire dal proprio mondo.
    La vita è fatta di continue sorprese, di cui è importante tenere conto. Questo accade anche in educazione, dove a prenderci di sorpresa, richiedendoci di affinare la capacità di modificare, rielaborare, personalizzare… è «l’inatteso», di cui Edgar Morin scrive:

    «L’inatteso ci sorprende. Il fatto è che ci siamo installati con troppo grande sicurezza nelle nostre teorie e nelle nostre idee, e queste non hanno alcuna struttura di accoglienza per il nuovo. Il nuovo spunta continuamente. Non possiamo mai prevedere il modo in cui si presenterà, ma dobbiamo aspettarci la sua venuta, cioè ‘affrontare le incertezze’. E, una volta giunto l’inatteso, si dovrà essere capaci di rivedere le proprie teorie e idee più che far entrare con il forcipe il fatto nuovo nella teoria incapace di accoglierlo veramente».[21]

    Educare significa in sostanza oltrepassare la soglia dei confini abituali, dei propri rassicuranti territori: per disporsi all’incontro, che nasce dall’apertura alle esperienze, ai valori, alle conoscenze, ai linguaggi di cui l’altro è portatore, che attendono continue mediazioni, negoziazioni, traduzioni.

    * «Si deve fare così»: la prescrittività.
    Ciò che orienta l’agire educativo è la tensione verso fini e valori, che tuttavia non possono essere imposti o, peggio, sovrimpressi agli ideali che hanno guidato la vita e le scelte del soggetto educativo. L’incontro con chi è impegnato in un percorso di crescita è sostenuto da un’accettazione incondizionata (Rogers), a partire dalla quale è possibile procedere con cautela e prudenza nel ridurre le distanze, fino a scoprirsi in una terra comune, conquistata insieme.

    * L’insensibilità alla differenza delle reazioni: la fatica di ricreare continuamente.
    Se lo scopo dell’educazione non consiste tanto in una piatta e lineare trasmissione di conoscenze quanto in una continua scoperta del senso racchiuso nell’esperienza, dei valori e significati di cui l’altro è depositario e che nell’incontro trovano il loro spazio di disvelamento, ciò che concorre all’autenticità del rapporto educativo è la disponibilità a «ricalibrare» continuamente pensieri, azioni, comportamenti sulla base dei riscontri offerti dal soggetto educativo. In questo senso l’agire educativo chiama in causa la capacità creativa dell’educatore, impegnato a dare vita a sempre nuovi equilibri affinché l’espressione dell’altro possa trovare un ambito di contenimento, di interazione e scambio costruttivo.
    In particolare testimoniando l’umiltà di saper stare nelle domande – soprattutto in quelle irrisolvibili riguardo all’esistere che tuttavia orientano il cammino – anche in assenza di risposte soddisfacenti, l’educatore concorre all’attivazione nel soggetto in crescita di una coscienza strutturalmente aperta e orientata alla realizzazione di esperienze significative. Quelle che garantiscono di essere usciti definitivamente dal ruolo passivo di esecutori di indicazioni altrui per vivere la condizione di protagonisti consapevoli dei propri processi di cambiamento.

     
    NOTE

    [1] E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano, 2002, p. 77.

    [2] Ibidem, p. 76.

    [3] V. Iori, Nei sentieri dell’esistere, Erickson, Trento, 2006, p. 159.

    [4] Idem.

    [5] H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, Einaudi, Torino 1997, p. 29.

    [6] U. Galimberti, riprendendo le riflessioni di Heidegger, sostiene che l’uomo non ha ancora raggiunto, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta emergendo nella nostra epoca (cf U. Galimberti, Il gioco delle opinioni, Feltrinelli, Milano, 1989, p. 93).

    [7] M. Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976, p. 25.

    [8] M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976, p. 326.

    [9] Ibidem, p. 327.

    [10] M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 1997, p. 168.

    [11] V. Iori, «Per una pedagogia fenomenologica della vita emotiva», in Id. (a cura di), Quando i sentimenti interrogano l’esistenza, Guerini, Milano, 2006, p. 86.

    [12] V. E. Frankl, Alla ricerca di un significato della vita. Per una psicoterapia riumanizzata, Mursia, Milano, 2005, pp. 119-120.

    [13] D. Bruzzone, Ricerca di senso e cura dell’esistenza, Erickson, Trento, 2007, p. 124.

    [14] E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino, 1965, p. 42

    [15] V. Iori, Essere per l’educazione, Fondamenti di un’epistemologia pedagogica, RCS, Milano, 2000, pp. 90-91.

    [16] Idem.

    [17] Cf il saggio di D. Bruzzone, «Saper ‘vedere’» nel numero precedente di questa rivista.

    [18] Cf M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 326.

    [19] M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, cit., p. 168.

    [20] Cf M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 326.

    [21] E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Cortina, Milano, 2001, p. 30.


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