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    Accidia. Il rapporto deformato con l’altro indesiderabile 



    I vizi capitali. Le figure dell’esistenza inautentica /7

    Carmine Di Sante

    (NPG 2008-09-71)


    Accidia è la traslitterazione del termine greco a-cedia che etimologicamente vuol dire noncuranza, trascuranza, incuria. Termine sconosciuto al greco biblico, sia anticotestamentario che neotestamentario, ha molta importanza nella spiritualità monastica per la quale, nella gerarchia dei vizi, occupa un posto privilegiato:

    «Un fratello interrogò abba Poimen a proposito dell’acedia. L’anziano gli disse: ‘L’acedia si trova all’inizio di ogni cosa e non vi è passione peggiore; ma se l’uomo riconosce che si tratta di acedia, trova quiete» (I padri del deserto. Detti editi e inediti, a cura di Sabino Chialà e Lisa Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Magnano BI, 2002, p. 199).

    La peggiore delle passioni per i padri, come vuole abba Poimen, il termine si riveste di una pluralità di significati non riconducibili facilmente ad unità: torpore, pigrizia, tristezza, abbattimento, inquietudine, noia, depressione, insensibilità, inebetimento, ottusità, atrofizzazione, indifferenza, sonnolenza.
    Come si è detto, in greco il termine si compone di kedia, che, da una parte vuol dire cura, sollecitudine, premura, attenzione e devozione, dall’altra, come risvolto soggettivo e psicologico, pena, preoccupazione, ansia e sofferenza. L’a privativa (a-kedia), dice l’assenza sia della cura che della sofferenza per la cura. Di qui i suoi due significati fondamentali che oscillano tra l’indifferenza intesa come il non «aver cura» e le conseguenze molteplici del non aver cura: tedio, noia, tristezza, depressione, angoscia, vuoto, ecc.

    A proposito della cura, in Essere e tempo Heidegger ne cita il mito fondativo riportato da Igino, lo scrittore latino del 1 secolo d.C.:

    «La ‘Cura’, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa, ne raccolse po’ e cominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove. La ‘Cura’ lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la ‘Cura’ pretese imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre la ‘Cura’ e Giove discutevano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti eressero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: ‘Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; Tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso viva lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo perché è fatto di humus» (Longanesi, Milano 1976, p. 247).

    L’uomo, secondo il mito riportato, non ha una forma, come la pianta o l’animale, ma è chiamato a darsela, plasmandosi, come se fosse di fronte a se stesso come creta o fango. La cura è, per l’uomo, il plasmarsi e darsi questa forma, mentre la non-cura o incuria, cioè l’accidia, è l’abdicare all’autoplasmazione o formatività riducendosi alla dimensione dell’essere naturale o animale e così precludendosi il raggiungimento della propria autenticità e verità.
    In un celebre saggio dedicato al problema della demitizzazione, Bultmann scrive:

    «L’essere umano è radicalmente diverso dall’essere della natura percepito nella contemplazione oggettivante. Noi siamo soliti indicare oggi tale essere specificamente umano con il termine esistenza. Tale termine indica, in questo caso, non il mero esser presente, come accade quando diciamo che anche gli esseri ‘esistono’, ma la maniera specifica di essere dell’uomo […]. Se l’essere umano esiste autenticamente nell’atto in cui si assume la propria esistenza e nell’accettare la propria responsabilità, ciò significa che l’esistenza autentica è caratterizzata da un’apertura al futuro, da una libertà che si realizza ogni volta di nuovo. La realtà dell’uomo storico non è perciò qualcosa di concluso, come la realtà dell’animale che è sempre ciò che è in qualsiasi momento. La realtà dell’uomo è la sua storia: essa cioè sta sempre al di là della sua persona, così che si può affermare con ragione che l’essere per il futuro costituisce la realtà ultima dell’uomo» (in R. Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia, Queriniana, Brescia 1970, pp. 239.240s).

    Come per l’esistenzialismo, anche per Bultmann, l’uomo deve avere cura di darsi una forma e una identità, ma, a differenza che per l’esistenzialismo, per il teologo tedesco la forma che l’uomo è chiamato a darsi non è l’autocreazione, lo scegliere tra sé e sé, tra le infinite possibilità che gli si offrono allo sguardo, ma la responsabilità, scegliendo tra sé e Dio che lo eleva al bene affidandogli il fratello da amare.

    La cura dell’altro

    Per la bibbia, la cura alla quale l’uomo è destinato, nel duplice senso di finalizzato e finalizzato liberamente ma necessariamente pena il suo alienarsi, non è la cura di sé ma la cura dell’altro, prendendosene a cuore la sorte e amandolo gratuitamente. Di conseguenza per essa l’accidia, più che noncuranza, trascuranza o incuria per sé, lo è per l’altro da sé che, indesiderabile se non rientra nell’arco delle proprie attese, viene ignorato e cancellato.
    L’accidia, per la bibbia, è il nome stesso dell’indifferenza, il non sapere più e percepire che l’unica e vera differenza che rischiara e salvaguarda dall’omologazione e dalla violenza è il volto dell’altro, sul quale si iscrive la traccia del Bene come bontà che sottrae l’io a sè e lo eleva allo stesso bene come bontà. Cancellazione dell’altro non con la mano che gli si erge contro ma con l’eliminazione dallo sguardo, l’accidia o indifferenza è la forma più comune invasiva e pervasiva del tradimento dell’alleanza, della vocazione dell’uomo ad amare come Dio ama.
    Per questo E. Wiesel ha affermato che «il contrario dell’amore non è l’odio ma l’indifferenza» e «il contrario dell’amore non la morte» ma sempre «l’indifferenza».
    Negazione dell’altro, cancellato dallo sguardo, l’indifferenza è negazione contemporaneamente di Dio, del mondo e – paradossale ironia – dello stesso io.
    Di Dio: perché, per la bibbia, Dio non lo si incontra nella trascendenza spaziale o temporale, al di dà del tempo e dello spazio, e neppure nella trascendenza dell’Essere, al di là della finitezza degli enti, ma nella trascendenza del volto dove si rivela come sollecitudine, amore e misericordia per l’altro da sé.
    Del mondo: perché il mondo, oggettivazione dell’amore divino al bisogno umano, privato della sua dimensione di dono, si svuota della sua verità e da dono che è invocazione di fiducia e di riconoscenza, si aliena in res di cui l’uomo dispone a suo piacimento, non più parola puntuale del suo amore ma fattualità nuda con la quale incontrarsi e scontrarsi per la realizzazione di progetti e desideri.
    E infine dell’io: perché, non sapendosi più amato e chiamato ad amare, l’io si ripiega su se stesso e vi si avvita sempre più ostinatamente. Per questo l’accidia, per i padri, è associata e quasi identificata con la tristitia, lo stato d’animo vicino alla noia, alla svogliatezza, al tedio, al disinteresse, all’infelicità, al malessere, all’incapacità di trovare piacere e rallegrarsi, in una parola vicino alla depressione che, come vogliono sociologi e psicologi, sembra essere la malattia dei paesi ricchi e consumisti dell’occidente.
    Ma se, cura di sé invece che dell’altro, perché l’accidia o indifferenza invece che benessere procura malessere?
    Il teologo P. Sequeri ha scritto che «la parola d’ordine dell’individuo occidentale moderno» è diventata «l’autorealizzazione», una parola «narcisistica, terribile, distruttiva, delirante» perché «incoraggia un soggetto autoreferenziale che cerca di vivere nutrendosi delle proprie carni, cerca di parlare e comunicare nutrendosi dei propri pensieri e solo in chiave di compensazione, poi, pratica l’alta retorica dell’ascolto dell’altro, del rispetto dell’altro» (in AA.VV., Tracce di speranza per il Terzo Millennio, Edizione Banca del Gratuito, 2002, pp. 266-67).
    Negazione dell’alleanza, dell’alterità divina e dell’alterità umana, l’indifferenza fa dell’io un io sempre più solitario e in questo autoisolamento, invece del benessere trova il malessere, invece dell’amore per la vita la tristitia, quel sentimento indefinibile e polimorfo che non conosce sorriso, leggerezza, bellezza e ironia e nel quale i padri della chiesa vedevano la somma di tutti i mali perché anticipo dell’apatia della morte.

    La vera letizia

    L’uomo, per la bibbia, è alleanza: con Dio, con l’altro da sé e con il mondo. È nodo, vincolo, legame, legamento con l’altro da sé – Dio e il prossimo, Dio la cui alterità e assolutezza si iscrivono nel volto del prossimo indesiderabile – che lungi dal sottrarre all’io la libertà gliene fa dono, e lungi dall’essere per lui un peso, una preoccupazione o un affanno, gli procura quella gioia unica e particolare alla quale Francesco d’Assisi ha dato il nome di letizia.
    Il contrario della tristitia o accidia, la letizia è stata per Francesco come una rivelazione da tramandare per iscritto: «Un giorno il beato Francesco, presso Santa Maria degli Angeli, chiamò frate Leone e gli disse: ‘Frate Leone, scrivi’. Questi rispose: ‘Eccomi sono pronto’. ‘Scrivi – disse – cosa è la vera letizia’ «(Fonti Francescane, Assisi 1977, p. 183).
    Ma in cosa consiste, per Francesco, la vera letizia? Innanzitutto egli chiarisce in che cosa non consista: né nel potere culturale («Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nell’ordine; scrivi: non è vera letizia»), né nel potere autoritativo («Così pure che sono entrati nell’Ordine i prelati d’oltralpe, aricivescovi e vescovi, non solo, ma perfino il Re di Francia e il re d’Inghileterra: scrivi: non è vera letizia»), né infine nel potere persuasivo e seduttivo («E se ti giunge ancora notizia che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno convertiti tutti alla fede») e neppure infine nel potere divino taumaturgico («oppure che io abbia ricevuto da Dio tanta grazia da sanar gli infermi e da far molti mircoli: neppure qui è vera letizia»).
    Ma in cosa consiste allora la vera letizia? Francesco risponde con la storia autobiografica:
    «Ecco, tornando io da Perugia nel mezzo della notte, giungo qui, ed è un inverno fangoso e così rigido che, all’estremità della tonaca, si formano dei ghiaccioli d’acqua congelata, che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite.
    E io, tutto nel fango, nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta e dopo aver a lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede: ‘chi sei?’. Io rispondo: ‘Frate Francesco’. E quegli dice: ‘Vattene, non è ora decente questa di arrivare, non entrerai’.
    E mentre io insisto l’altro risponde: ‘Vattene, tu sei un semplice e un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te’. E io sempre resto davanti alla porta e dico: ‘Per amor di Dio, accoglietemi per questa notte’.
    E quegli risponde: ‘Non lo farò. Vattene dai Crociferi e chiedi là’. Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia e qui è la vera virtù e la salvezza dell’anima» (ivi).
    La vera letizia per Francesco non fiorisce dove l’io si pone e si afferma (e poco importa se la modalità dell’autoposizione e dell’autoaffermazione è la cultura, l’autorità, la ragione o il sacro) bensì dove si depone, si svuota e fa spazio all’altro accogliendolo e amandolo con lo stesso amore del padre celeste che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi.
    Il contrario della tristitia, la letizia nasce dal legame di alleanza con l’altro che nessuno ha il potere di infrangere, neppure con il rifiuto perché il rifiuto, lungi dal negare la relazione, la invoca ed esige come liberamente donata e data.
    Di questo legame d’amore liberamente donato la letizia è come la trascrizione sul registro della psiche che, altra dal piacere, soddisfazione dell’io per l’io, nasce dalla pazienza, la capacità di portare l’altro e di soffrire per suo amore («Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia») ed è la dimensione più alta dell’umano («qui è la vera virtù») che coincide con la stessa salvazione eterna («e la salvezza dell’anima» (Ivi).
    Breve «summa» o ricapitolazione di tutti i vizi o mali, l’accidia affonda le sue radici nella philautia che, per il Nuovo Testamento, è il nome vero e proprio dell’accidia che, come si è osservato, è sconosciuto al lessico biblico.
    «Gli amanti del proprio io», i philautoi, sono, per Paolo, il rovesciamento dei philotheoi: gli «amanti di Dio» (2 Tm 3,2), coloro che amano come Dio e, come Dio, non si interessano al proprio io ma all’altro da sé.
    Dio è Dio, per la bibbia, perché non ama se stesso, come il dio aristotelico, ma l’altro da sé, ed è questa la differenza tra Dio e l’uomo che definisce e salvaguarda l’altezza dell’uno e la dignità dell’altro.
    La philautia è cancellazione di questa differenza e, per questo, in-differenza, questa la vera minaccia, ieri come oggi, dalla quale guardarsi, come invoca il poeta David Maria Turoldo;
    Signore salvami dall’indifferenza, da questa anonimia di uomo adulto. Essa è la morte di ogni religione e di ogni possibilità lirica per la creazione; l’indifferenza e l’assenza dello spirito sono la causa della nostra schiavitù e decadenza. Quando un popolo è indifferente, allora sorgono le dittature e l’umanità diventa un gregge solo, appena una turba senza volto; allora il bene è uguale al male, il sacro uguale al profano; e l’amore è unicamente piacere, un male il sacrificio, un peso la libertà e la ricerca…
    Dio, nella storia, è l’irriducibile differenza tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto e i suoi amanti, i philotheoi, sono coloro che la custodiscono mentre i philoautoi coloro che la tradiscono istituendo l’umano de¬gradato di cui queste pagine sono state come una piccola mappa interpretativa.

    ACCIDIA
    «il rapporto deformato con l’altro desiderabile»
    Scheda operativa a cura di Giuseppe Morante

    Nell’elenco tradizionale dei vizi capitali l’accidia occupa l’ultimo posto, non perché il meno importante, ma perché ne costituisce la sintesi. L’articolo offre la descrizione etimologica con le sfumature dei significati e ne precisa la malizia che consiste nel non volersi plasmare secondo il progetto di Dio.
    Questo peccato, secondo la bibbia, è una forma molto pervasiva del tradimento dell’alleanza di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio, per cui chi ne è colpito indugia voluttuosamente nell’ozio (non impegno) e nell’errore (non saper valutare). L’accidioso sa quali sono i suoi impegni, ma pur di non assolverli, ne ridimensiona la portata, quasi convincendosi che si tratti di piccolezze.

    1. Prendere coscienza del significato esistenziale dell’accidia
    L’accidia è il vizio capitale che coinvolge, come in un tranello, la vita del cristiano. L’educatore, aiutando a riflettere sui seguenti atteggiamenti, cerca di evidenziarne il pericolo spirituale. Ci sono segni evidenti su cui porre attenzione: chi, poco alla volta, incomincia ad infastidirsi della propria fede; chi lascia la preghiera; chi va raramente a Messa; chi non legge mai la Bibbia; chi non s’interessa del suo prossimo; chi pensa solo a se stesso… Sono comportamenti che rischiano di mettere da parte gli altri e Dio stesso.
    Una seconda riflessione guidata riguarda l’insegnamento della Chiesa secondo cui l’accidia consiste nella negligenza dell’esercizio delle virtù cristiane. Le parole che ne precisano il significato sono: indolenza, pigrizia, svogliatezza, inerzia, ignavia. La pigrizia spirituale, l’indolenza, la svogliatezza si alleano per impadronirsi sia dell’intelligenza che della volontà; e così l’uomo interiore è vanificato!
    Quando uno rifiuta di stare con Dio, di obbedirgli e amarlo, è chiaro che va incontro a qualche cosa di drammatico. Si tratta del dramma che hanno vissuto i progenitori e che vivono coloro che hanno deciso di rompere i ponti con Dio. Il serpente antico, geloso, li spinse a dubitare della Parola di Dio, come narra il racconto della Genesi (cf cap. 3).
    L’animatore può attirare l’attenzione sul significato delle parole che descrivono l’accidia e fare delle applicazioni a situazioni e condizioni personali.

    2. Confrontarsi con la propria realtà personale
    Per il confronto si può partire da una domanda: fino a che punto un battezzato può essere negligente nella fedeltà agli impegni del battesimo? La definizione dell’accidia richiama la negligenza nell’esercizio delle virtù cristiane e nell’attività spirituale tendente alla santificazione. Si tratta quindi di pigrizia, di inerzia circa le cose che riguardano Dio e precisamente i suoi comandamenti, e la sua volontà per la salvezza degli uomini.
    Chi non si impegna in questa direzione rischia di cadere nell’indifferenza, nella pigrizia spirituale, fino al punto di negare Dio e di far prevalere nella propria vita il proprio «io». Afferma un filosofo contemporaneo che la cultura attuale genera figli accidiosi (Galimberti)!
    Questa situazione sembra riprodurre la condizione che caratterizza soprattutto molti giovani del nostro tempo, afflitti dall’assenza di interessi seri e profondi, dalla monotonia delle impressioni, dalle sensazioni di immobilità, dal vuoto interiore, dal rallentamento del corso del tempo. Quindi l’accidia è riconducibile alla presenza di energie non impiegate e quindi affogate in un divertimento che risuona senza eco, perché, nel vuoto del nulla che lo attraversa, non c’è nemmeno quel tanto che possa render possibile una risonanza.
    Il lavoro, le distrazioni, il quotidiano darsi da fare, lo sviluppo e la crescita… sono figli della noia, e diventano spesso disperati tentativi per combatterla. Le vacanze estive sono un’interruzione, uno svago, per riprendere con più lena questa guerra. Fino ad arrivare alle conclusioni di sentirsi vecchi, usati, nauseati di tutto... nonostante che uno lavori anche senza entusiasmo. Sembra che oggi non si attenda altro dalla vita che una sequenza di fogli di carta da scarabocchiare in nero. Sembra che l’uomo stia attraversando una solitudine senza fine, per andare non si sa verso dove.
    L’accidia diventa così il luogo privilegiato della spersonalizzazione, una specie di deserto come spazio privilegiato per incontrare solo se stessi. Ma in questo paesaggio assolato, arido e immobile, invece di se stessi, invece di Dio, l’uomo incontra l’accidia (acedia) detta anche otiositas, somnolentia, pervagatio mentis, e che si può tradurre con indolenza, vuoto intellettuale, perdita di fervore e di passione, smarrimento nella monotonia della quotidianità.
    Si tratta di quello stato affettivo che gli inglesi chiamano «melancoly» o «spleen»; i francesi «ennui», gli psichiatri «neuro-astenia» o «gas inavvertito in ogni angolo dell’Occidente».

    3. Come difendersi
    * Una riflessione sapienziale
    Per difendersi da questo flagello, i monaci antichi e medievali ricorrevano al lavoro a cui aggiungevano l’orazione: Ora et labora… cioè vedere la vita come una specie di «laboratorio». Se non si innesta il circolo virtuoso, a poco a poco l’ozio snerva il corpo: la volontà diviene debole, si perde il gusto spirituale, le opere buone diventano pesanti e noiose, la vita diventa una tristezza spossante, si perde la volontà di agire.
    Una persona è umile se non si esalta, considerando i propri difetti; ma diventa ingrato quando disprezza i doni di Dio. Perciò è necessario che uno esalti i beni altrui, senza disprezzare il bene che Dio gli ha dato: altrimenti si sconvolge il ritmo naturale, cadendo nella tristezza esistenziale.
    * Una riflessione sociale
    Che fare contro questa malattia dello spirito contemporaneo, che ha perso, non tanto Dio di cui molti ne lamentano inutilmente lo smarrimento, quanto l’incanto del mondo che la nostra razionalità ha reso disincantato, e la nostra tecnica ha ridotto a pura materia da utilizzare, incapace, nella sua opacità? Si tratta di riscoprire il riflesso dell’anima che si oppone al senso della materia. Bisogna cercarlo, questo riflesso, non nel progresso ad ogni costo; non nella crescita come autorealizzazione, non nella novità di ogni giorno a qualunque costo…; ma nel realizzarsi secondo Dio.
    Perciò l’uomo non può essere libero totalmente (tipica dell’uomo occidentale), per non rischiare di approdare semplicemente a recepire un messaggio che è assenza di messaggio: quindi anti-parola, anti-senso, anti-discorso, anti-natura, anti-uomo.
    Qui nasce l’accidia che, a questo punto, più che un vizio capitale sembra essere l’atmosfera del nostro tempo. A meno che questa malattia dello spirito, a differenza delle malattie fisiche e mentali, non suoni come uno stimolo per nuove creazioni di valori e nuove ricerche di senso.
    * Una riflessione biblica
    Se l’accidia non spegnerà la stella danzante del cuore (che cerca la felicità) e non farà ripiombare la persona nella noia della ripetitività… delle cose, allora anche la riflessione su questo vizio capitale avrà lasciato la sua traccia non inutile. A questo proposito la Bibbia riserva una frase che fa riflettere: «Conosco le tue opere, tu non sei né freddo né caldo. Ma poiché tu sei tiepido sto per vomitarti dalla mia bocca» (Ap 3, 15-16). Anche i cedri del Libano, così maestosi e forti, possono cadere al suolo, come avvenne al re Salomone (1 Re 3, 12; 1 Re 11, 1-13).
    Dopo il peccato delle origini, l’autore sacro afferma che la noia entrò nel mondo. Adamo si annoiava da solo; poi Adamo ed Eva si annoiavano insieme; poi Adamo, Eva, Caino e Abele si annoiavano in famiglia, poi la popolazione del mondo aumentò, e le genti si annoiavano in massa. Per distrarsi vollero costruire una torre così alta da toccare il cielo. Questa idea era noiosa tanto quanto l’altezza della torre, e costituì una prova di come la noia prese il sopravvento, avendo eliminato il piano di Dio dalla propria vita.


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