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    «Noi non vogliamo la scimmia in classe!»



    Educare all’intercultura /6

    Per una pedagogia del volto

    Roberto Radice

    (NPG 2008-08-52)


    «Straniero, se passando m’incontri e desideri parlarmi,
    perché non dovresti parlarmi?
    E perché io non dovrei parlare a te?»
    (Walt Whitman)

    Era un primaverile venerdì pomeriggio, precisamente il 19 aprile di quest’anno.
    Circa una trentina tra ragazze e ragazzi, di 13-14 anni, riempirono in men che non si dica la spaziosa aula dell’oratorio con il loro caotico vociare e la loro dirompente gestualità. In questo paese della periferia milanese il sabato le scuole sono chiuse e il venerdì pomeriggio è tutto un fermento per organizzare l’indomani: partita a calcio e scorribande per i ragazzi; passeggiata tra le bancarelle al mercato o in centro città per le ragazze.
    Lasciato loro il tempo necessario per acquietarsi, ci sediamo tutti lungo un’ampia circonferenza di sedie di modo che tutti possano vedere in volto tutti.
    Questo è l’ultimo dei tre incontri di un percorso sulla corporeità e la relazione con il proprio essere corpo che sto compiendo insieme con questi giovani. Corpi acconciati, spudorati, apparentemente disinibiti, che nonostante l’omologazione che li conforma comunicano, esprimono e trasmettono desideri, sogni, passioni, emozioni. Il mare dei giovani ha anfratti nascosti l’uno diverso dall’altro che chiedono sguardi esclusivi e ascolti partecipativi.
    Non c’è ancora silenzio ma decido di cominciare: dire di fare silenzio per avere silenzio significa rompere il silenzio stesso che si vuole ottenere. Mi posiziono al centro della circonferenza, in piedi. Leggo una storia tratta da un fatto di cronaca; una storia, realmente accaduta, di una ragazza che viene quasi abusata dal ragazzo che pensava di amare. Presto il silenzio è lancinante, gli occhi dei ragazzi sono sbarrati e rivolti verso di me. Si parla di violenza e dell’essere violentati, del sentirsi maltrattati. Conclusa la lettura il silenzio sembra davvero inespugnabile, ma lo shock non è educativo perciò provo a interpellare questa assenza di parole chiedendo ai ragazzi e alle ragazze se è capitato che si sentissero emarginati, esclusi, derisi da qualcuno per qualche aspetto riguardante il loro corpo o se a loro volta hanno emarginato, escluso, deriso il corpo altrui. Preciso che se hanno sperimentato una vicenda di questo tipo non sto chiedendo loro di «mettere a nudo» in pubblico dominio l’essere stati emarginati o l’aver emarginato, ma che provino almeno a farne memoria, a rifletterci sopra un attimo. È educativamente insopportabile la pubblicizzazione delle proprie vicende private.
    Qualcuno abbassa lo sguardo verso il pavimento, qualcuno accenna a qualche sogghigno, altri si fanno pensierosi.

    La storia di Claudia

    Improvvisamente una crepa irrompe nel gruppo taciturno, è la voce timida di Claudia.
    Claudia è una ragazzina che frequenta il secondo anno della scuola secondaria di primo grado. Proviene dall’Africa sub-sahariana, è arrivata in Italia solo un anno fa e vive in affido a una famiglia italiana. Il colore della sua pelle ricorda il prezioso legno d’ebano. Ha i capelli arruffati, forse non ha nessuno che la aiuta a curarli e il suo corpo, che non rientra negli schemi della magrezza asfittica occidentale, esprime una giovane energia.
    Claudia raccoglie la voce tremolante e trova il coraggio per affermare: «sì, violentata come mi sono sentita io questa mattina a scuola!». In questa frase colgo immediatamente una rabbia dolorosa.
    Gli altri ragazzi cominciano a ridacchiare tra di loro – quel sorriso idiota che non conosce nemmeno il motivo del ridere.
    Claudia prosegue e racconta che a scuola in mattinata – prima dell’inizio delle lezioni – un suo compagno di classe ha scritto su un foglio: «Noi non vogliamo la scimmia in classe». Quando Claudia è giunta in aula, questo ragazzo è balzato in piedi su un banco e ha cominciato a sventolare il suo manifesto sulla razza come un vessillo mentre tutta la classe rideva divertita. Claudia non sopportando questo insulto si è lasciata cadere lo zaino dalle spalle ed è corsa fuori dall’aula piangendo mentre alla risa generali di tutti si è venuto ad aggiungere un applauso. Rifugiatasi in bagno, ha atteso solitaria il suono della campanella che dava inizio alla lezione.
    Claudia dice che oltre a lei questa scritta razzista ha ferito anche la sua madre biologica, morta qualche anno fa.
    Anche mentre Claudia racconta a fatica questo fatto qualcuno trova la sfacciataggine e la stupidità di un riso che taglia, che acuisce il dolore; inoltre nel gruppo vi sono presenti alcuni compagni e compagne di Claudia che hanno assistito come folla esultante alla vicenda. Una stolta risata può essere ben più pericolosa di un pianto.
    Comprendo che è necessario fermare il gruppo sull’accaduto, non lasciare che il coraggio e la sofferenza di Claudia siano in balia di risate atroci senza senso. Penso al ragazzo che ha sbandierato il foglio come il più abietto eroe difensore della pelle bianca e ricordo le parole di Pier Paolo Pasolini quando scriveva che « forse sarebbe bastata una sola piccola esperienza nella sua vita, un solo semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso».[1] Questo ragazzo, come tanti altri, non è nato per essere razzista. Voglio credere che questi ragazzi «non sono i fatali e predestinati rappresentanti del Male»,[2] anche per trovare le parole e i pensieri adeguati per affrontare la situazione con stile educativo, anche se la mia pancia urla di indignazione.
    Chiedo ai ragazzi perché lo hanno fatto, che cosa li ha fatti divertire tanto. Nessuno sa darmi una risposta motivata o convincente, sempre che possa esistere ed essere legittima. Chiedo perché nessuno ha preso le difese di Claudia, perché tutti hanno riso e nessuno di loro ha pensato di andare a consolarla, a trasmetterle un gesto di amicizia e vicinanza. Anche in questo caso le risposte sono vuote, o forse colme di un silenzio che ora si è fatto complice di un’ingiustizia.
    Decido che è opportuno iniziare una discussione, aprire uno spazio educativo che faccia in modo che questi ragazzi e ragazze possano almeno immaginare che cosa ha provato Claudia nell’essere stata paragonata a una scimmia: voglio parlare della violenza partendo dalla vittima. Vorrei far capire loro che per distruggere l’esser umano ci sono molte vie ma una delle più agevoli è proprio quella di passare attraverso il corpo per arrivare alla mente e all’anima. I nazisti ci hanno insegnato irrimediabilmente che se l’Altro lo consideri uno Stück, un pezzo, alla fine questo uomo e questa donna arriveranno – lungo un’irrevocabile percorso di antropogenesi regressiva – a non pensarsi più come esseri umani.
    Nel gruppo vi è Simone, un ragazzino anche lui africano, compagno di classe di Claudia che ha partecipato attivamente allo «scherzo» – come è stato definito da tutti quanti.
    Fa un po’ lo sbruffone. Gli chiedo come si sentirebbe se un giorno entrando in classe trovasse scritto sulla lavagna: «Noi non vogliamo il negretto che puzza». Lui sbatte le spalle e dice che li picchierebbe tutti. Io gli dico che lui probabilmente si troverebbe da solo contro venti. Non trova una controrisposta. Qualche risata comincia ad affievolirsi, gli sguardi si fanno un po’ pensierosi.
    Quando noi disprezziamo non facciamo altro che violenza sulla persona, ne neghiamo l’identità, il suo essere individuo unico e irripetibile. L’insulto rivolto a Claudia ha agito sul suo corpo – la pelle scura e il viso dai lineamenti pronunciati e squadrati – per cancellare quello che Claudia è come ragazza e come persona.
    Chiedo a Claudia se si è mai sentita emarginata, disprezzata per il colore della sua pelle. Lei mi risponde che un suo compagno una volta le ha detto di non toccare delle fotocopie perché a lui faceva schifo toccarle se prima le aveva toccate lei, con le sue mani scure. Una volta è già abbastanza: una coltellata data al cuore uccide sul colpo. Il corpo dello straniero diviene il corpo-del-reato.
    Non demordo, tartasso i ragazzi di domande sul senso del loro comportamento, voglio che provino a guardare al mondo con gli occhi sofferenti della vittima. Percepisco da parte loro un muro armato che nessuno ha mai scalfito e che anzi alcuni movimenti politici del nord Italia non fanno altro che rinsaldare con volgari slogan razzisti.

    Mettere la coscienza in discussione

    Ritrovo due concezioni tipiche del guardare all’Altro alla maniera occidentale: o si pensa all’altro come identico e «questo tipo comportamento sbocca nell’assimilazionismo, nella proiezione dei propri valori sugli altri»;[3] oppure si parte dalla differenza,

    «ma questa viene immediatamente tradotta in termini di superiorità: si nega l’esistenza di una sostanza realmente altra, che possa non consistere semplicemente in un grado inferiore, e imperfetto, di ciò che noi siamo. Queste due elementari figure dell’alterità si fondano entrambe sull’egocentrismo, sull’identificazione dei propri valori con i valori in generale, del proprio io con l’universo: sulla convinzione che il mondo è uno».[4]

    Educare è soprattutto avere la pazienza del saper attendere, del non avere la pretesa del risultato subito e ad ogni costo, ma è inoltre educare a un pensiero critico e all’azione per

    «fare e osare non una cosa qualsiasi, ma il giusto. Non ondeggiare nelle possibilità, ma afferrare coraggiosamente il reale. Non nella fuga dei pensieri, solo nell’azione è la libertà. Lascia il pavido esitare ed entra nella tempesta degli eventi».[5]

    Spiego ai ragazzi che qualcuno proprio cominciando dall’apporre divieti di entrata nei negozi, nelle scuole e in altri luoghi pubblici è riuscito a cancellare, a uccidere fisicamente milioni di persone. Voglio parlare loro dei campi di sterminio, non per solo per raccontare di questa tragedia della storia ma soprattutto perché la storia possa divenire monito per il presente.

    «Il caso coglie la mente preparata» diceva Louis Pasteur e il caso ha voluto che, quel pomeriggio, avessi con me un filmato che avevo preparato per parlare della Shoà a ragazzi della stessa età di Claudia e dei suoi compagni. Lascio spazio alle immagini.

    Alla fine del filmato non c’è più nessuno che ride, gli sguardi sono bui, sommessi. Qualcuno sottovoce sussurra: «non è possibile» – con un tono di una sana ingenuità. Capisco che quel muro di indifferenza e superiorità ha subito un tracollo, un brusco scossone. Chiedo ai ragazzi come stanno, perché sono consapevole di aver fatto loro anche un po’ male.
    Infine propongo loro di prendere, ognuno per suo conto ma pubblicamente, un impegno di responsabilità nei confronti di eventuali situazioni simili che potrebbe accadere di nuovo. Qualcuno dice che ora si sente un po’ a disagio, che forse hanno esagerato con lo scherzo. Qualcuno dice che la prossima volta, se capiterà, si impegnerà nel non prendere parte alla derisione e che dirà anche all’idiota di turno che sta sbagliando. Qualcuno afferma che prenderà le difese di Claudia se dovesse ricapitare. Chiedo se qualcuno avrà il coraggio di uscire fuori dalla classe, dal gruppo e di stare vicino alla Claudia del momento, se avrà il coraggio di stare dalla parte sbagliata…
    Gli sguardi sono ritornati silenziosi come lo può essere un mare dopo una burrascosa mareggiata che lascia sulla battigia residui di profondità nascoste… e la speranza del lavoro educativo è quella che i volti possano riconoscersi, valorizzarsi e incontrarsi perché almeno una volta si possa vivere la differenza nell’uguaglianza.

    «Si tratta del metter la coscienza in discussione, non di una coscienza dell’esser messo in discussione. […] Mettere in discussione se stesso vuol dire, appunto, accogliere l’assolutamente altro. L’epifania dell’assolutamente altro è viso in cui un altro mi interpella e mi significa un ordine. […] Essere Io significa, in conseguenza, non potersi sottrarre alla responsabilità, come se tutto l’edificio della creazione posasse sulle mie spalle. […] L’unicità dell’Io è il fatto che nessuno possa rispondere in vece mia».[6]

    Una pedagogia del volto deve educare lo sguardo, il corpo e il pensiero affinché

    «possiamo scoprire gli altri in noi stessi, renderci conto che ognuno di noi non è una sostanza omogenea e radicalmente estranea a tutto quanto non coincide con l’io: l’io è un altro. Ma anche gli altri sono degli io: sono dei soggetti come io lo sono, che unicamente il mio punto di vista – per il quale tutti sono laggiù mentre io sono qui – separa e distingue realmente da me. Posso concepire questi altri come un’astrazione, come un’istanza della configurazione psichica di ciascun individuo, come l’Altro, l’altro o l’altrui in rapporto a me; oppure come un gruppo sociale concreto al quale noi apparteniamo».[7]

    Chiedo a Claudia se sta un po’ meglio. Lei mi dona un sorriso leggero e nascondendosi la voce dietro al viso mi dice di sì e si avvia verso la porta.

     
    NOTE

    [1] Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti Editore, Milano 1990, p. 55.

    [2] Ibidem.

    [3] Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», Einaudi, Torino 1992, p. 51.

    [4] Ibidem.

    [5] Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1988, p. 448.

    [6] Emmanuel Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova 1998, p. 78-79.

    [7] Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», Einaudi, Torino 1992, p. 5.


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