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    Libertà e limite



    Giovani cercatori di Dio /6

    L’atto libero: il fragile equilibrio tra liberazione e adesione

    Francesca Moratti

    (NPG 2008-08-45)


    «Non esiste un punto dove si possano fissare i propri limiti
    in modo da poter affermare:
    ‘Fino a qui sono io’…» (Plotino).

    Questo è quanto sostiene anche il filosofo Gilles Déleuze quando paradossalmente afferma che l’esistenza umana non è qualcosa di personale, se per personale si intende una dimensione privata che esclude ogni rapporto con l’esterno che non sia di tipo meramente contrattuale e utilitaristico, come nell’ideologia individualistica. Al contrario, se consideriamo la relazionalità un elemento costitutivo dell’uomo, non è possibile delimitare i confini di un individuo se non in modo molto approssimativo.
    Come afferma lo psicanalista M. Benasayag:

    «la distanza e la separazione, assolutamente reali, tra gli individui, sono ciò che consente a ciascuno di avere un’identità e una storia unica e singolare. Ma la separazione si fonda anche su una base comune (in cui ciascuno è l’altro e gli altri), che costituisce il fondamento collettivo di ogni differenza. […] Individui che, come isole nel mare, sono sicuramente irrimediabilmente isolati, anche se a ben vedere queste isole sono in effetti le pieghe del mare».

    Se questa è la condizione umana è chiaro che un discorso sulla libertà non possa prescindere dal discorso sul limite, ma non banalmente, perché la libertà è superamento del limite (questo facilmente può trasformarsi in fuga, deresponsabilizzazione, illusione) o perché, altrettanto banalmente, la propria libertà è limitata dalla libertà dell’altro, quanto piuttosto perché la libertà autentica è uno stato che si tende a raggiungere, senza mai dimorarvi stabilmente, attraverso un processo di liberazione (e dunque superamento) di una serie di vincoli e condizionamenti per aderire, maggiormente e sempre più consapevolmente, alla radice della nostra esistenza.

    Il cammino di Siddharta

    Trovo che la figura del principe Siddharta sia emblematica per tale percorso; inoltre, considerata la vastità dell’argomento e della bibliografia a riguardo, ritengo utile in questo articolo seguire il filo conduttore di un testo per offrire spunti di riflessione, senza la pretesa di architettare un discorso sillogistico e programmatico inespugnabile. Romanzo del ‘900 tra i più famosi ed amati, soprattutto dai giovani, Siddharta di Hermann Hesse è un testo denso ma, nello stesso tempo, scorrevole e accattivante. Siddharta è il simbolo dei giovani cercatori di Dio a cui abbiamo dedicato questa rubrica: intendiamo seguirlo cercando di calare nel quotidiano dei giovani d’oggi i passaggi fondamentali del suo cammino di autopresa di coscienza che lo conduce gradatamente alla liberazione dall’uomo vecchio per aderire all’uomo nuovo.

    «Tutti amavano Siddharta. A tutti egli dava gioia, tutti ne traevano piacere. Ma egli a se stesso non procurava piacere, non era di gioia a se stesso. Suo padre, i sapienti Bramini gli avevano impartito il meglio della loro saggezza, avevano versato interamente i loro vasi pieni nel suo recipiente in attesa, ma questo recipiente non s’era riempito, lo spirito non era soddisfatto, l’anima non era tranquilla, non placato il cuore. Dove si poteva trovare l’Atman, dove altro mai se non nel più profondo del proprio Io, in quel che di indistruttibile ognuno porta in sé? Bisognava scoprire la fonte originaria nel proprio Io e impadronirsene! Tutto il resto era ricerca, era errore e deviazione».

    Un percorso di ricerca e trasformazione inizia sempre da una percezione di stagnazione e di non senso. Se tale percezione non conduce alla noia cronica e alla disperazione, si trasforma naturalmente in stimolo a partire, a cambiare, liberandosi dai vincoli che fino a quel momento, nel bene e nel male, tenevano legati ad un luogo, ad un ruolo, ad una determinata condizione.
    Così Siddharta decide di abbandonare l’agiata casa paterna per raggiungere nella foresta i Samana, asceti girovaghi.

    «Dai Samana imparò a percorrere molte vie per uscire dal proprio Io. Ma inevitabile era il ritorno, ritrovava se stesso e di nuovo provava il tormento di non poter sfuggire al circolo delle trasformazioni (al mondo di Maya, delle apparenze, della Samsara). “Troviamo conforti, troviamo da stordirci, acquistiamo abilità con le quali cerchiamo di illuderci. Ma l’essenziale, la strada delle strade, non la troviamo”».

    Dopo i primi goffi tentativi di cambiare vita, di trovare un senso, senza di fatto riuscirci, è normale lasciarsi prendere dallo sconforto. All’entusiasmo della partenza si sostituisce la fatica del camminare da soli su una strada sconosciuta, spesso senza una meta ben definita e degli strumenti utili su cui contare. Si annida il dubbio che si tratti di un’impresa più grande di noi, pretenziosa, forse perfino illusoria; si torna a sprofondare nel non senso e per reazione si cerca lo stordimento: forse per non ascoltare l’intrinseco richiamo a cercare, forse per amplificare certi stati d’animo che, nel bene o nel male, aiutano a sentirsi vivi scongiurando la deriva nella depressione.
    Spesso si ricercano emozioni forti scaturite dal macabro, dal disgustoso, da scene di violenza proprio perché queste garantiscono un impatto più forte rispetto al bello (più delicato, armonico e quindi meno destabilizzante). Lo testimoniano tanti fatti di cronaca e il fatto stesso che la cronaca sia principalmente cronaca nera. Ma inizialmente è sempre la smania di sentirsi vivi a guidarci. Solo in un secondo momento questa preferenza per l’oscuro, il ripugnante, il tragico può diventare preludio di una ricerca dell’auto-annientamento. Quando non si cera lo stordimento tout court, spesso ci si rifugia nell’iperattivismo ansioso o in un’attività particolare che ci assorbe quasi completamente e non ci fa pensare.
    Siddharta, insoddisfatto della via della spersonalizzazione, decide di lasciare anche i Samana per andare alla ricerca del Buddha, l’Illuminato. Ma, incontratolo e ascoltati i suoi insegnamenti, non vuole seguirlo:

    «Una cosa ho ammirato soprattutto nella tua dottrina. Tutto in essa è perfettamente chiaro e dimostrato. Ma in un punto è interrotta questa unità e consequenzialità di tutte le cose: questo varco è la tua dottrina del superamento del mondo, della liberazione; viene di nuovo compromesso l’intero ordinamento del mondo unitario ed eterno. Nessuno perverrà mai alla liberazione attraverso una dottrina! Molto contiene la dottrina del Buddha, ma non contiene il segreto di ciò che il Sublime stesso ha vissuto. Questo è il motivo per cui continuo la mia peregrinazione: non per cercare un’altra e migliore dottrina, ma per abbandonare tutte le dottrine e tutti i maestri e raggiungere da solo la mia meta o morire».

    Decidersi in prima persona

    L’esperienza è chiaramente una cosa personale, non trasmissibile se non in minima parte. Meglio ancora: sono trasmissibili gli strumenti di lettura, ma non l’esperienza in sé. Nessuno, nemmeno il più abile maestro o la persona più cara, potranno mai sostituirsi all’esperienza in prima persona e agli insegnamenti che se ne possono trarre: potranno influire sul contesto e sull’effetto, ma ciascuno porta ed amplia il proprio bagaglio da solo.
    È fondamentale per la crescita umana decidere di giocarsi in prima persona, scegliere una direzione mettendo anche in conto di poter essere talvolta depistati e di sbagliare: nella vita tutto può servire, se sappiamo integrarlo nel cammino verso la meta prefissata perché, sia che crediamo sia che non crediamo in Altro da noi, la vita è una trama complessa di esperienze e relazioni di cui noi siamo i primi tessitori. È insito nella giovinezza l’impulso a partire, a sperimentare, a misurarsi con il diverso sentendosi pienamente liberi di gestire la propria vita.
    La ribellione, il rifiuto di qualsiasi aiuto o addirittura di ascoltare i consigli rappresentano una tappa fondamentale per la formazione della personalità, purché rimanga una tappa e non diventi ottuso modus vivendi fino alla vecchiaia. Per questo è fondamentale fornire al giovane degli strumenti per imparare ad ascoltarsi.

    «“Ma che è dunque ciò che avevi voluto apprendere dalle dottrine e dai maestri, e che essi, pur avendoti rivelato tante cose, non sono riusciti ad insegnarti?” Ed egli lo trovò: “L’Io era, ciò di cui volevo apprendere il senso e l’essenza. L’Io era, ciò di cui volevo liberarmi, ciò che volevo superare. Ma non potevo superarlo, potevo soltanto ingannarlo, potevo soltanto fuggire o nascondermi davanti a lui. L’Atman cercavo e volevo smembrare e scortecciare il mio Io, per trovare nella sua sconosciuta profondità il nocciolo di tutte le cortecce, la vita, il divino, l’assoluto. Ora dal mio stesso Io voglio andare a scuola. Quand’uno legge uno scritto di cui vuole conoscere il senso non ne disprezza i segni e le lettere, né li chiama illusione, accidente, corteccia senza valore, bensì li decifra, li studia e li ama. Invece io che volevo leggere il libro del mondo e il libro del mio proprio Io, ho disprezzato i segni e le lettere, a favore d’un significato congetturato in precedenza, ho chiamato illusione il mondo delle apparenze”».

    Vivere l’io come vincolo o come idolo non è poi così diverso come sembra. Molti ragazzi, e non solo loro, anche oggi faticano a conoscersi autenticamente per quello che sono (con potenzialità e limiti) e, di conseguenza, non riescono a trovare una loro collocazione all’interno del contesto sociale e della realtà in generale; non riescono a stabilire rapporti significativi da cui trarre piacere e insegnamenti e attraverso i quali poter crescere liberi, ossia potendo esprimere ciò che veramente sono.
    Così può avvenire che fatichino ad accettarsi per quello che sono (esseri unici ma limitati) perché mossi da un inesauribile desiderio di verità, purezza e assoluto, oppure perché agitati dalla percezione di un’inadeguatezza personale o di un non-senso generalizzato; sperimentano se stessi come peso, vincolo, come parte di un caotico mondo della superficialità. Di conseguenza diventano sempre più insensibili al riconoscimento altrui e, al limite, agiscono in modo da minarlo alla radice. Ma senza riconoscimento dell’altro-da-sé l’uomo non può essere se stesso, perché l’uomo è relazione.
    Altre volte accade invece che i ragazzi si concentrino così appassionatamente sul proprio io, unica certezza, fino ad arrivare a perdere il senso della realtà, assolutizzando se stessi e la propria lettura del mondo e negando ogni limite alla propria persona. L’io diventa l’unico idolo a cui offrire sacrifici e gli altri diventano coloro da sacrificare. In questo secondo caso cercano (per non dire estorcono) riconoscimenti dappertutto. Ma la dinamica di fondo è comune: il padrone non può essere senza il servo e viceversa, spiega Hegel.
    L’io come vincolo e l’io come idolo affondano le radici nella comune concezione che il senso dell’io, se mai vi fosse, non riposa nell’io stesso ma in altro; l’io non ha valore se non gliene si attribuisce attraverso il potere, l’onore, la forza, la sfida. Pensiamo alle dinamiche del branco e del bullismo, agli effetti degli interventi populisti da parte di politici e mass media, ecc. Siddharta si risveglia quando intuisce che il senso e l’essenza delle cose non sono dietro le cose, vuoti simulacri, bensì nelle cose stesse; lo stesso vale per l’Io. Il mondo ci parla e, soprattutto, ci parla di noi; ma noi siamo la voce del mondo, in quanto esseri consapevoli e quindi capaci di prendere le distanze da noi stessi e dalla realtà esterna per osservarci. Proprio questa consapevolezza ci rende liberi, ed è per questo che bisogna continuamente vegliare su di essa, affinché non si offuschi o addirittura si spenga. Questa è l’unica cosa che possiamo trasmettere ai nostri giovani: mantenere sveglia la coscienza, per poi lasciarli percorrere liberamente la propria strada.

    Mantenere sveglia la coscienza

    E così il principe Siddharta, ora Samana, lascia la foresta per affrontare la città, con i suoi colori, i suoi affari, gioie, divertimenti ed affanni. Lì incontra altre due figure che elegge a suoi mentori: la bella cortigiana Kamala e il ricco mercante Kamaswami. Dalla prima apprende l’arte dell’amore umano, dal secondo l’arte degli affari e da entrambi, oltre che da tutti gli uomini-bambini come loro, conosce la passione che li guida nelle loro azioni.
    Ma nonostante l’entusiasmo per la nuova vita, Siddharta non riesce ad appassionarsi a queste cose come gli uomini-bambini: il suo orgoglio lo fa sentire superiore, ma nello stesso tempo Siddharta li invidia.

    «Li invidiava per l’importanza che essi riuscivano ad attribuire alla loro vita, per la passionalità delle loro gioie e delle loro paure, per l’angosciosa ma dolce felicità del loro stato d’innamorati eterni. Questo non riusciva ad imparare da loro, questa gioia infantile e questa infantile follia, mentre assumeva i tratti che si riscontrano così spesso nel volto della gente ricca, quei tratti dell’insoddisfazione, d’indisposizione, di cattivo umore, di pigrizia, di scortesia».

    Quante volte le curiosità dei bambini ci stupiscono, o magari il loro fermarsi ad osservare un particolare mentre stiamo camminando di fretta ci spazientisce… Spesso gli adulti (o sedicenti tali) hanno perso il gusto dell’osservare e del meravigliarsi, sia perché impegnati a guardare cose apparentemente superiori oppure perché, disillusi dalla vita, sono del tutto disinteressati a guardare: i bambini (e gli uomini-bambini) aiutano a risvegliare questo gusto.
    Anche molti giovani rientrano in questa seconda categoria: sono già vecchi in spirito, insoddisfatti, indisposti, pigri e scortesi, privi di ogni vitalità. Spesso questo è l’effetto boomerang di un’educazione che tutto concede e che, per svariate ragioni, non sa dare dei punti fissi con i quali misurarsi e scontrarsi. Il risultato è che i ragazzi inventano da soli i limiti (a volte estremi) con i quali confrontarsi.
    Ma ancor più preoccupante è il fatto che, a prescindere dall’esito del confronto, si insinua in loro un duplice malessere: la percezione di essere assolutamente trasparenti (ed indifferenti) al mondo degli adulti, i quali non si degnano nemmeno di indirizzarli da qualche parte, una qualsiasi parte; e la sensazione di onnipotenza (soprattutto per i più forti e ribelli) la quale necessita incessantemente di nuove conferme dato che spesso è accompagnata da una bassa autostima, quest’ultima causata dalla non-comunicazione di stima e, in generale, dalla non-comunicazione da parte degli adulti. Vivere così è tutt’altro che stimolante e liberante; al contrario è molto frustrante e la frustrazione, col tempo, corrode il gusto alla vita.
    Siddharta, al contrario, ha incontrato molti maestri e guide e la disciplina a cui è stato sottoposto fin dai tempi della sua infanzia è sempre stata dura. Per questo riesce ancora a percepire che la vita, nonostante tutto, deve avere un senso.

    L’intelligenza emotiva

    Ciò a cui non è mai stato educato, però, è, per dirla con Goleman, l’intelligenza emotiva. Se da un lato è fuorviante pensare di essere pienamente liberi solo se ci si abbandona al rapimento dei sentimenti e delle passioni, è altrettanto vero che l’eccessivo autocontrollo esclusivamente mentale non è comunque la modalità corretta per affrontare la vita e tentare di comprenderla e comprendersi. L’infantile gioia e follia che aiuta a provare com-passione verso gli altri e verso le cose del mondo (nel senso etimologico del patire-con e quindi del con-vibrare insieme, come spiega il filosofo e musicologo Jankélévitch) è dunque la via per avvicinarsi al senso dell’esistere tanto agognato.
    Siddharta lo impara da altri due personaggi incontrati nella foresta in cui si rifugia dopo aver provato la nausea per la città e le vane comodità: suo figlio, avuto da Kamala ed incontrato alla morte della mamma dopo undici anni, e il barcaiolo Vasudeva.

    «Siddharta capiva che, triste e viziato, il ragazzo non poteva di punto in bianco ritrovarsi tutto allegro e volenteroso nella miseria di quell’ambiente estraneo. Perciò non lo costringeva a nulla; sperava di conquistarlo lentamente, con affettuosa pazienza. Ma cominciò a comprendere che con suo figlio non gli erano piovute pace e felicità, ma dolore e affanno. Tuttavia lo amava e aveva più caro il dolore e l’affanno dell’amore, che pace e felicità senza quel bambino. Vasudeva parlò: “Tu non lo costringi, non lo picchi, non gli dai ordini perché sai che c’è più forza nel molle che nel duro. Ma non lo leghi tu forse in catene con il tuo amore? Non lo svergogni ogni giorno con la tua bontà e la tua pazienza? Non lo costringi forse a vivere, lui ragazzo orgoglioso e viziato, in una capanna? Riportalo in città. Tu credi proprio d’aver commesso le tue follie per risparmiarle a tuo figlio?” Siddharta lo sapeva, ma era un sapere che non riusciva a mettere in atto; più forte che il sapere era il suo amore per il bambino. Gli era mai successo di perdere a tal punto il proprio cuore? Per amore diventava un povero stolto eppure si sentiva inebriato, rinnovato e arricchito di qualche cosa».

    Alla fine il ragazzo scappa. Siddharta

    «sentì in cuore l’amore per il figlio fuggito, come una ferita, e sentì insieme che la ferita non gli era data per rovistarci dentro e dilaniarla, ma perché fiorisse in tanta luce. Sentiva qualcosa come una speranza».

    Grazie all’insegnamento del barcaiolo Vasudeva Siddharta ha imparato ad ascoltare la voce del fiume, una voce che ne racchiude mille.

    «Siddartha cessò di lottare contro il destino, in quell’ora cessò di soffrire. Sul suo volto fioriva la serenità del sapere, cui più non contrasta alcuna volontà, il sapere che è in accordo con il fiume del divenire, con la corrente della vita, un sapere che è pieno di compassione e di simpatia, docile al flusso degli eventi, aderente all’Unità».

    Non si tratta di pura rinuncia all’autoaffermazione, anzi: aderire alla complessità del reale esige una grande forza d’animo. La libertà non è questione di rinuncia ad ogni desiderio né, tanto meno, di violenza per affermarlo ed esaudirlo. La libertà, garante della felicità, si fonda sull’adesione alla verità di ciò che ciascuno di noi è nel proprio intimo, quindi è responsabilità verso se stessi e, di conseguenza, verso gli altri, dato che l’essere umano è relazione. Questa libertà talvolta pesa, ma è il prezzo del suo spessore. Siddharta non lascia una dottrina o una fede, lascia solo dei pensieri. Chi non trova è perché cerca troppo.

    «Cercare significa avere uno scopo. Ma trovare significa essere libero, restare aperto, non avere scopo. Perseguendo il tuo scopo non vedi tante cose che ti stanno davanti agli occhi. Il mondo non è unilaterale. Mai un uomo, o un atto, è interamente santo o peccatore. Sembra così perché noi siamo soggetti alla illusione che il tempo sia qualcosa di reale. La meditazione abolisce il tempo. Per questo a me par buono tutto ciò che esiste».

    Come afferma De Monticelli: non c’è cammino verso l’interiorità che non sia cammino verso l’ulteriorità. La concentrazione, l’attenzione devono essere intese come un lasciarsi andare nella presenza di ogni istante e quindi come la sospensione della volontà di autoaffermazione. Essere liberi significa vivere volentieri piuttosto che volendo – continua De Monticelli – ossia senza un perché razionale unilaterale, bensì con l’infantile gioia e follia che aiuta a provare com-passione verso gli altri e verso il mondo. Il senso è gratuito come la libertà.
    Per questo bisogna mettersi in atteggiamento di ascolto e di attesa piuttosto che di sorda ricerca predeterminata e affannosa: non bisogna cercare troppo! Raggiungere questo status è un dono di vita che si rinnova gratuitamente e che non si può in alcun modo estorcere.
    Educare è educare ad essere uomini liberi e dunque aderenti al proprio Io più autentico in ogni fase della vita, come Siddharta, come Gesù di Nazareth, come le grandi personalità che hanno costellato la storia dell’uomo in ogni angolo della terra. Per questo ogni percorso educativo non può prescindere da due cose: l’esperienza della gratuità e della speranza. E forse, in questo, molti giovani possono insegnare più degli adulti.

    Scheda didattica

    • L’esistenza umana non è qualcosa di personale, afferma paradossalmente Deleuze. Si possono invitare i ragazzi a riflettere sull’origine della vita di ciascuno e sul suo svilupparsi tra e attraverso gli altri membri della comunità di appartenenza. Come si forma la personalità di ciascuno? Come si definiscono i propri gusti, le proprie capacità? Quanto ciascuno di noi è frutto dell’ambiente in cui ha vissuto?

    • Libertà e limite sono due realtà che vengono comunemente presentate insieme. Non è invece molto frequente trovare il binomio libertà-adesione o la triade libertà-liberazione-adesione. Approfondire con i ragazzi le differenze e le affinità tra questi tre termini. Liberazione da cosa o di cosa? Adesione a chi o a che cosa e perché? Liberazione e adesione possono effettivamente essere considerate le due radici da cui la libertà prende nutrimento? È maggiormente libero chi è totalmente svincolato da tutto e tutti oppure chi è radicato in un contesto del quale si prende cura? O si tratta semplicemente di stili di vita diversi e la libertà si gioca su un altro piano?

    • L’io come vincolo o l’io come idolo. Chiedere ai ragazzi di pensare a degli episodi della loro vita in cui hanno sperimentato fortemente di essere limitati, legati, impossibilitati a fare quello che avrebbero desiderato e, per questo, hanno provato particolare disistima di sé. E poi pensare ad episodi di auto-esaltazione in cui sembrava di essere al centro del mondo. Come si modificavano le relazioni con gli altri nelle due diverse esperienze? Erano comunque relazioni significative o si era in ogni caso rinchiusi e concentrati su se stessi?

    • Ripensando a Siddharta: domandare a ciascun ragazzo di scegliere l’episodio della vita di Siddharta che sente a lui particolarmente vicino; in base alle affinità di risposte, dividere i ragazzi in gruppetti da due o tre e chiedere di raccontare la scena scelta attraverso uno sketch, una canzone, un’immagine da commentare, ecc. Non importa chi tu sia, a che punto della vita e della ricerca tu sia: l’importante è porsi delle domande e tentare di rispondervi in modo coraggioso.

    • «La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce/di se stessa non cura, che tu la guardi non chiede» (Angelo Silesio).
    Il valore e la bellezza della rosa sono intrinseci, non dipendono da attribuzioni di senso esterne. Lo stesso vale per la vita dell’uomo: il senso è intrinseco, non dipende da mode e modelli dettati dalla maggioranza o da chi ha più potere.
    Il senso è gratuito come la libertà. Per questo bisogna mettersi in atteggiamento di ascolto e di attesa piuttosto che di sorda ricerca predeterminata e affannosa: non bisogna cercare troppo!

    Suggerimenti musicali
    Timoria: Senza vento
    Fabrizio Moro: Pensa
    Rats: Indiani padani
    Vasco Rossi: Libero liberi
    Nomadi: La libertà di volare
    Mirko Kiave: Digli di no (dall’album «7 respiri»)
    Negrita: L’uomo sogna di volare

    Suggerimenti cinematografici
    – Freedom writers
    – Hurricane
    – Nel nome del padre
    – Mission
    – Hotel Rwanda
    – L’attimo fuggente
    – Jesus of Montreal
    – Karate Kid
    – La storia infinita

    Suggerimenti bibliografici
    – Benasayag M. e Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2007.
    – De Monticelli R., L’ordine del cuore, Garzanti, Milano 2003.
    – Fausti S., Occasione o tentazione, Ancora, Milano 2005.
    – Hesse H., Siddharta, Adelphi, Milano 1987.
    – Hosseini K., Il cacciatore di aquiloni, Piemme, Milano 2006.
    – Phillips A., I no che aiutano a crescere, Feltrinelli, Milano 1999.


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