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    Ira. Il rapporto deformato con l’altro in quanto altro



    I vizi capitali. Le figure dell’esistenza inautentica /5

    Carmine Di Sante

    (NPG 2008-07-43)


    L’io, nel mondo, non si trova solo in rapporto con il cibo, con il proprio corpo e con le cose, ma soprattutto con l’altro da sé, come lui essere di bisogno e come lui bisognoso di cose e di mondo. Ma quale modalità di relazione tra due esseri di bisogno e, data la pluralità degli esseri di bisogno, tra la pluralità degli uomini esseri di bisogno?
    In un lettera indirizzata a Natalia Aspesi nel noto settimanale «Il Venerdì di Repubblica», una donna separata da pochi mesi dopo 25 anni di matrimonio fatto di complicità e sacrifici scrive e confida: «Di giorno, con i miei ragazzi a scuola o con le mie splendide nipotine, il grumo di rancore si allenta, ma la notte non vi è alcun rimedio. […]; ho una bella casa, faccio del volontariato all’Auser, partecipo ai ‘girotondi’, a manifestazioni per la pace, provo a leggere qualche buon libro: provo a viaggiare. Ma non sono serena. Dentro di me vedo l’orrore di un odio che non trova pace e non lascia spazi ad altri sentimenti. Capisco il delirio […] di chi trova quiete solo nella distruzione fisica di chi ti ha procurato questa sofferenza».
    Il legame tra amore e odio, il sentimento che spinge l’io verso l’altro ma che può anche volgersi contro con furia distruttiva eppure appagante («capisco il delirio […] di chi trova quiete solo nella distruzione fisica») da sempre è registrato dalle letterature mondiali (Catullo: «Odio e amo.
    Me ne chiedi la ragione?/ Non so. Così accade e mi tormento») e nella Medea di Euripide ha trovato la traduzione tra le più alte.
    Sedotta da Giasone per conquistare il vello d’oro e subito dopo ripudiata, Medea cova un odio travolgente che la porterà ad uccidere non solo i due figli avuti da Giasone ma anche Creusa, la sua nuova sposa e il padre Creonte, re di Corinto:

    Quanto m’accingo a far di reo, conosco;
    ma in me più del mio senno, ira è possente;
    ira, cagion d’alte sventure all’uomo.
    […].
    Armati, o cor, su via! Che più si tarda
    grave ad oprar, ma necessario male?
    Prendi, o misera man, prendi la spada,
    e alle mosse del corso di loro vita
    ad assalirli va’. Non avvilirti;
    non rimembrar che tu di loro sei madre,
    che tanto gli ami. Scordati per questo
    breve dì de’ tuoi figli, e piangi poi.
    Ché, sebbene or gli uccidi, a te pur molto
    fur car; …ed io..., ben infelice io sono» (1245-1249; 1422-1431).

    L’ira – termine appartenente allo stesso campo semantico di odio, rabbia, rancore, furore, avversione, prevaricazione, prepotenza, inimicizia, ecc. e per il quale il testo biblico ricorre prevalentemente alla parola orgè – è volontà di distruggere l’altro e di godere della sua distruzione. Nel linguaggio comune e soprattutto profetico il termine ha anche un significato positivo ed è sinonimo di non rassegnazione e indignazione al male. Le celebre invettive di Gesù riportate da Matteo e scandite per ben sette volte dall’incipit «guai a voi» (Mt 23, 13-32) sono esemplari di questa ira che con l’ira vera e propria – con l’ira come peccato e come vizio – non ha nulla in comune perché non mira a distruggere l’altro e a godere della sua distruzione ma ad affermare e custodire l’irriducibile differenza tra il bene e il male, il giusto e il non giusto. Tema ricorrente e centrale della bibbia, l’ira di Dio – che troppo sbrigativamente si vorrebbe ricondurre ad un residuo mitico e ad un linguaggio privo di dimensione veritativa – è istituzione e salvaguardia di questa irriducibile differenza e non va quindi omologata all’ira umana che, come vuole Medea, travolge e acceca la ragione («Quanto m’accingo a far di reo, conosco), domina l’uomo rendendolo impotente («ma in me più del mio senno, ira è possente») e causa orrori e mali sempre più agghiaccianti («cagion d’alte sventure all’uomo»).

    Le ragioni del pensiero umano

    Ma perché questa furia distruttiva che si scatena alla presenza di un male o torto subito e che come una ferita sanguina, travolge ragione e sentimenti e a sofferenze aggiunge nuove sofferenze? In quale direzione o dimensione indagare per darsi una ragione e cercare di capire? Nelle inestricabili connessioni dei neuroni cerebrali che le scienze biologiche penetrano sempre più a fondo pretendendo di trovare in esse l’origine del bene e del male, come vorrebbero i due neuroscienziati Jorge Moll e Jordan Grafman i quali, secondo l’articolo apparso sul Washington Post e successivamente sul quotidiano «La Repubblica» il 29 maggio 2007 con il titolo Se la bontà è questione di geni, avrebbero dimostrato la componente genetica dei comportamenti morali quali la bontà e l’altruismo? O nelle profondità abissali dell’inconscio, sede di potenze negative e mostri che, travolgendo la muraglia eretta dalla ragione e dai processi secolari della civilizzazione, come una diga tracima seminando distruzione e morte? O nella volontà malvagia di esseri superiori – potenze divine, dèi, arconti, principati e potestà – che attraverso l’uomo esprimono tutto il loro potere demonico, malevolo e malefico?
    Per la tragedia greca la ragione dell’«ira possente» non va ricercata nell’uomo, nella sua struttura biologica o psicologica, ma nel volere degli dèi che, suscitandola, alimentandola e orientandola, con essa realizzano i loro disegni inafferrabili e sovrani. La prima parola con la quale si apre il poema omerico dell’Iliade è ira (a differenza della celebre traduzione del Monti dove è collocata al secondo verso: «Cantami, o diva, del Pelide Achille/l’ira funesta») attribuita al volere insindacabile di Giove («così di Giove/l’alto consiglio s’adempia») che, attraverso l’ira di Apollo, per il negato riscatto di Criseide, figlia di Crise, suo sacerdote, suscita l’ira di Agamennone, «il re dei prodi Atride», e l’ira di Achille. L’Iliade è la messa in scena di questa ira funesta – ira divina manifestatasi attraverso l’ira di Achille e l’ira di Agamennone – produttrice di dolore («infiniti addusse /lutti agli achei»), di morte («molte anzi tempo all’Orco/generose travolse alme d’eroi») e di umiliazione («e di cani e d’augelli orrido pasto/lor salme abbandonò»).
    Per la filosofia greca che, prende le distanze dal mondo degli dèi e del mito, l’ira affonda le sue radici non nel volere insindacabile degli dèi ma nell’anima sensitiva dell’uomo che, sospesa, secondo la nota distinzione aristotelica divenuta corrente nel pensiero occidentale, tra l’anima vegetativa e l’anima razionale, è il luogo dove sorgono le passioni, intese come reazioni spontanee alle situazioni, che, né buone né cattive in sé, richiedono di essere guidate e regolamentate da quel sapere pratico che si apprende attraverso l’educazione e attraverso soprattutto l’esercizio e l’esperienza e che porta all’acquisizione delle virtù etiche (etiche appunto perché, secondo Aristotele, si apprendono facendole, per cui, come «si diventa costruttori costruendo e suonatori di cetra suonando la cetra, così anche, compiendo azioni giuste diventiamo giusti, azioni temperate temperanti, azioni coraggiose, coraggiosi») che consistono nel trovare la via di mezzo tra il difetto e l’eccesso:

    «la virtù ha a che fare con passioni e azioni nelle quali l’eccesso e il difetto costituiscono degli errori e sono biasimati, mentre il mezzo è lodato e costituisce la rettitudine; ed entrambe queste cose sono proprie della virtù. Dunque la virtù è una specie di medietà, in quanto tende costantemente al mezzo. Inoltre, errare è possibile in molti modi […], mentre operare rettamente è possibile in un solo modo […]. E, per queste ragioni, dunque, l’eccesso e il difetto sono propri del vizio, mentre la medietà è propria della virtù. Si è buoni in un solo modo, si è cattivi in svariate maniere» (in G.Reale-D. Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, I, La Scuola, Brescia 1983, p. 151).

    Per Aristotele l’ira è un eccesso di reazione al comportamento altrui, fallendo il giusto mezzo: «Ci sono anche nel dominio dell’ira un eccesso, un difetto e una via di mezzo, ed essendo all’incirca queste disposizioni senza nome, poiché chiamiamo mite il giusto mezzo, denomineremo mitezza la medietà. Di coloro che stanno agli estremi, chi eccede chiamiamo iracondo, e iracondia il vizio corrispondente, chi difetta una sorta di indifferente e indifferenza il difetto» (Etica Nicomachea II, 7, a cura di Marcello Zanatta, Rizzoli, Milano 1986, p. 173).
    Per il filosofo greco, che distingue tre tipi di iracondi, quelli «acuti» «pronti all’ira», nei quali l’ira non dura molto tempo, quelli «amari», i quali covano dentro la loro rabbia senza riuscire a sfogarla, e quelli «difficili», i quali si placano solo dopo essersi vendicati, l’ira nasce dalla mancanza o insufficienza di controllo della propria istintualità animale ed è tanto più violenta quanto più si allontana dalla medietà o giusto mezzo.

    Le ragioni del testo sacro

    Per la bibbia l’ira attinge il suo potere devastante non al volere insindacabile degli dèi e neppure solo all’incapacità della ragione di controllare le passioni e le pulsioni della dimensione sensitiva dell’io ma al suo volere che, negandosi all’alterità di Dio, si nega all’alterità dell’altro nel cui volto l’alterità di Dio risuona come appello ad amarlo e prendersene cura.
    L’ira, il cui esito estremo è l’omicidio, prima che dall’incapacità dell’uomo di controllare le sue pulsioni, per la bibbia è traccia abissale, cicatrice o stigma, dell’oblio della sua vocazione originaria per cui, da essere per l’altro, si è costituito contro l’altro, da «angelo custode» messo al suo fianco per proteggerlo, se ne è fatto «angelo sterminatore» che odia e procura morte.
    Per la bibbia il primo omicidio della storia, che ogni altro omicidio riproduce e legittima, è la messa in scena dell’ira di Caino, figura dell’umano che ha tradito la logica dell’alleanza e non sa più di essere il partner di Dio da lui amato e chiamato ad amare:

    «Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: ‘Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto’?» (Gn 4, 3-7).

    Caino è l’io fuori dalla spazio dell’alleanza e, fuori da questo spazio, non si sente più accolto e amato dall’alterità divina ed è convinto – autoinganno! – di subire da Dio un torto perché egli «gradì Abele e la sua offerta ma non Caino e la sua offerta»: linguaggio paradossale il cui significato è di mettere in luce che la logica con cui Dio si rapporta all’uomo è la logica del gratuito e non del merito (come invece Caino equivoca!) ed è in seguito a questo equivoco che egli è preda dell’ira che lo sconvolge.
    L’ira, per il testo biblico, è segno di questa fuoriuscita dalla logica dell’alleanza o relazione con l’alterità di Dio che è amore, fuoriuscita che invece di liberarlo e pacificarlo lo fa bruciare e, bruciando, lo distrugge e distrugge. Il testo biblico («ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto») alla lettera dice che «per Caino l’aria che usciva dal suo naso diventò fuoco e il suo volto cadde per terra» (nel greco dei LXX: synepesen, da synpipto, precipitare, collassare), come cade un vaso di cristallo frantumando la sua forma. L’ira deforma Caino, ne distrugge l’identità e, da custode di Abele, lo trasforma in omicida del fratello.
    Se per la saggezza greca l’ira è l’espressione dell’uomo incapace di controllare le sue pulsioni e di trovare il giusto mezzo tra la spinta aggressiva e l’indifferenza, per la sapienza biblica, incentrata sulla centralità dell’alleanza che fa dell’uomo il partner di Dio chiamato a rispondergli, essa è soprattutto sintomo del tradimento dell’alleanza, del rapporto deformato che l’uomo ha nei confronti dell’alterità divina e dell’alterità dell’altro dove Dio risuona come appello alla bontà e alla responsabilità.
    L’ira – in tutte le sue forme, dalla parola sprezzante al gesto omicida – è traccia di questo tradimento e di questa deformazione. Volontà di distruggere l’altro, l’ira è negazione della relazione e della responsabilità. È negazione dell’alleanza. È la contro-alleanza o l’anti-alleanza. È l’anti-creazione, essendo la creazione, per la bibbia, creazione della relazione prima che del mondo.
    E se per la saggezza greca la mitezza, come vuole Aristotele, è «il giusto mezzo» tra l’ira e l’indifferenza, tra la volontà di eliminarlo e la volontà di ignorarlo, per la bibbia è soprattutto purificazione e kenosis per fare spazio all’altro, accoglierlo e servirlo. Nel mondo dove la creazione è stata dissolta dalla colpa, proclamando le beatitudini nel suo discorso sul monte («beati i poveri», «beati gli affamati», «beati i piangenti», «beati i perseguitati»), Gesù propone, a chi lo segue, il segreto che spezza la catena dell’odio e della violenza, facendo riscoprire nell’altro, al di là della sua stessa rabbia e inimicizia, il volto del fratello che attende di essere riconosciuto e accolto.

    IRA
    «Il rapporto deformato con l’altro in quanto altro»
    Scheda operativa a cura di Giuseppe Morante

    Il vizio dell’ira si colloca in una relazione «squilibrata» che una persona ha nei confronti delle cose del mondo, verso gli altri e con Dio. Nel rapporto con l’altro, l’iracondo nutre in sé la malizia di distruggerlo, di godere del suo annientamento, vivendo di emozioni negative senza controllarle con la ragione.
    L’ira, secondo la bibbia, esprime atteggiamenti di odio, rabbia, avversione, prepotenza, inimicizia… verso qualcuno; ma anche – soprattutto nel linguaggio dei profeti biblici – acquista il significato positivo di non rassegnazione o di indignazione per il male in se stesso, fatto da altri o attribuito ad altri. Il vizio capitale dell’ira riguarda solo l’atteggiamento negativo dell’iracondo.
    Per tradurre in comprensione significativa le caratteristiche storiche, filosofiche, culturali e religiose del vizio dell’ira descritte nell’articolo, si può avviare con il gruppo dei ragazzi la seguente riflessione sull’analisi dei comportamenti irosi.

    1. Educarsi a distinguere i sintomi dell’ira
    Se l’ira, secondo il vocabolario, indica collera, malumore, indignazione, rabbia, desiderio di vendetta…, per il cristiano essa non si volge solo contro altri in generale, ma può volgersi contro colui che permette di piantare i semi dell’odio nel suo cuore; e l’odio normalmente porta all’auto-distruzione. La fede crede che il castigo per il male commesso non può essere comminato dall’uomo, ma la sua paga appartiene solo al giudizio di Dio.
    Per questo fin da fanciulli, durante la nostra vita terrena, per imparare a dominare l’ira, è necessario esercitarsi a conoscerne i sintomi, distinguendoli a seconda delle reazioni personali a situazioni provocatorie:
    – se si tratta di reazioni emotive, l’ira provoca indignazione, che è una conseguenza della percezione di un’ingiustizia subita. A volte è un’indignazione che deriva da un sentimento giusto per lo zelo della difesa di una verità che sta a cuore alla persona; altre volte è una indignazione sproporzionata all’ingiustizia percepita, e in questo caso diventa atteggiamento di permalosità. La reazione emotiva diventa tracotan¬za se fa il passo successivo della vendetta;
    – se si tratta di reazioni con parole, l’iroso le indirizza verso persone o verso Dio e il mondo in generale. Se queste parole sono pronunciate a voce alta contro qualcuno diventa clamore. Si tratta spesso di domande vaghe e offensive. Ne segue perciò l’insulto con parolacce coscienti. Fra gli insulti si trovano anche, specie nelle culture mediterranee, non solo parolacce prese da un frasario preciso, ma espressioni va¬riopinte e spesso colorite, magari inventate al momento che, dentro una precisa contesto linguistico comune, svolgono la stessa funzione di un insulto, ma in modo più originale…; ad esempio è tipico l’insulto rivolto agli arbitri negli stadi di calcio! Vengono poi le parole contro Dio, la Madonna, gli angeli e i santi, che sono normalmente bestemmie. Alla stessa categoria appartengono anche le parolacce universali, che esprimono cioè la rabbia non contro qualcuno in particolare, ma in generale: «porco mondo», «porca miseria» (percepiti come simbo¬lo del male universale), «porco Giuda» (visto come l’essenza di tutto il male del mondo);
    – se si tratta di azioni irose, si cade in vere risse, che portare anche a lesioni e omicidi.
    A conclusione di questo prime riflessioni, si può chiedere in quale categorie di reazioni cadono più spesso i membri del gruppo e perché… L’esercizio può portare ad un primo dominio di sé e alla comprensione delle reazioni che non sono controllate in un primo momento dalla ragione.

    2. Educarsi a dominare i sintomi attraverso il controllo della ragione
    Se, come si spera, ordinariamente non si è assassini, ma semplici e normali iracondi, bisogna individuarne le caratteristiche potenziali: l’offesa facile dovrebbe metter su¬bito in allarme, perché può essere segno di propensione all’indignazione. Ne sono segni:
    – i repentini cambiamenti di volume della voce (specie poi in corrispondenza di discorsi su ingiustizie subite e persone responsabili di esse) che sfociano nel clamore e nell’insulto;
    – le parolacce, seppur am¬messe e persino simpatiche, anche se in contesti diversi;
    – la gesticolazione ri¬dondante durante il discorso (indice di passio¬nalità) è «qualità indispensabile» dell’iracondo;
    – ma esiste anche la possibilità di un iracondo nascosto dietro l’atteggiamento di «un’acqua stagnante»: non sem¬bra permaloso, non alza la voce, non usa parolacce, non ge¬sticola, parla con calma studiata. Ma esprime un nervosismo in reazioni tremolanti del corpo (ad esempio le gambe) che sono simbolo di una bomba a orologeria.
    Ma la vera ira è un impeto dell’animo che si sfoga fino alla vendetta. Uno vi cade perché vuole respingere un’ingiuria superandola di gran lunga non solo con altre ingiurie verbali ma anche con azioni concrete. Si vuole colpire l’avversario, come sfogo di bassi sentimenti, mentre la mente perde lucidità e la volontà viene privata della sicura libertà di azione. In questo momento uno scoppia e l’ira si impossessa di lui. Allora non c’è ragione che tenga e neppure servono intermediari.
    Si può colpire a morte, o venire duramente alle mani, non solo in un momento in cui uno perde la testa, ma anche a sangue freddo, in perfetta lucidità. L’ira, se non viene domata, può sempre esplodere anche contro i propri principi morali. Quando però nel proprio cuore si annida l’odio, che è un profondo sentimento, deliberatamente voluto, di grave avversione e ostilità verso una o più persone, sì da essere indotti a fare o anche solo a desiderare per loro del male, allora l’ira ha il suo campo aperto incontrollato.

    3. L’insegnamento evangelico come invito alla perfezione
    Gesù ha detto: «Beati i miti perché erediteranno la terra».
    Ogni cristiano ha preso degli impegni precisi da quando è stato battezzato. L’odio e la collera sono banditi dal proprio comportamento, non perché la natura umana sia stata cambiata, ma perché la Parola di Dio è potenza per il credente. Una potenza che lo aiuta fortemente a vincere ogni passione cattiva, e quindi l’ira e ogni sorta di collera, non per una sorta di miracolo, ma perché la Parola di Dio che si attinge alla Bibbia è per lui come un balsamo che con l’esercizio lo guarisce.
    «Non uccidere» dice Gesù, e subito aggiunge: «Non andare in collera contro il tuo fratello» (Mt 5, 21ss). Un buon esame di coscienza rimprovera un po’ tutti, specialmente quelli che vivono nell’ambito familiare. Le parole volano per un nonnulla, per una inezia, e feriscono fortemente. Il proprio io personale, il proprio modo di vedere le cose vuole avere sempre ragione. Ma Gesù dice senza mezzi termini: «Amate i vostri nemici, pregate per quelli che vi perseguitano» (Mt 5, 43). E poi; «Non condannate e Dio non vi condannerà» (Mt 7, 1). Purtroppo molti discorsi di tanta gente comune (forse anche noi del gruppo) sono infarciti di giudizi, di condanne. Soltanto noi siamo i più bravi, quelli che hanno ragione, invece gli altri sbagliano sempre, sono cattivi, ingiusti.
    Questo comportamento indica chiaramente quanto si è collerici, iracondi: il volto si altera e uno diventa verde dalla bile. Si preferisce guardare la pagliuzza che sta nell’occhio del fratello e la si vuole togliere, piuttosto che vedere la trave che offusca la propria vista. Effettivamente, insegna San Tommaso d’Aquino, l’ira è quella passione che maggiormente impedisce l’uso della ragione.
    Ogni persona possiede, nell’arco della vita, mille tesori per i quali uno è sempre pronto a lottare: la vita, il proprio io, i genitori, i figli, gli amici, le proprie idee, quanto possiede (poco o molto che sia), il lavoro, il tempo libero… Ma nella vita il bene più importante deve essere il rispetto reciproco, il riconoscimento dei valori di ciascuno, il perdono dato generosamente in modo che vi regni la pace e l’armonia.
    La sapienza storica e l’esemplificazione positiva (attraverso il commento dei membri del gruppo) a queste provocazioni) può essere motivo di riflessione da cui appendere degli insegnamenti che potranno essere capaci di modificare i propri atteggiamenti irosi e assumere l’equilibro dei sensi, dominati dalla capacità riflessiva e razionale.


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