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    Bibbia e pastorale giovanile


    Intervista a Cesare Bissoli

    a cura di Giancarlo De Nicolò

    (NPG 2008-07-18)


    Premessa

    Le domande postemi intrecciano fra loro tre fattori: Bibbia intesa come Parola di Dio, il destinatario (giovanile), il processo educativo che li collega.
    È facile notare l’attenzione su due poli:
    – il concetto di pedagogia ed educazione così come si può ricavare dalla Bibbia in quanto fonte di rivelazione, cioè alla luce della Parola di Dio;
    – l’applicabilità effettiva di ciò alla condizione giovanile. Vi è dunque un momento epistemologico e uno pastorale, dove il primo è necessario per fondare legittimamente il secondo.
    Necessariamente la mia risposta è soggettiva, in rapporto alle idee acquisite in tanti anni di studio e di esperienza pastorale.
    Sarà un intervento essenziale, e dunque anche breve, senza citazioni di autori, che pur stanno alla base di queste riflessioni. Inevitabile sarà il contatto tra le diverse risposte.


    Domanda. Il titolo del suo dottorato, ormai più di 20 anni fa, è «Bibbia e educazione», un lavoro storico e critico sul rapporto tra due realtà che sembrano poste su piani diversi e non comparabili: una appunto di natura rivelata, come la Parola di Dio, l’altra tipicamente «una realtà terrena», laica, che richiama la fatica dell’uomo di costruirsi (e di costruire i suoi figli).
    Certo, è lo studio di un rapporto per lei provocante: entrambe le realtà la appassionano, l’una come biblista, l’altra come salesiano, dunque educatore.
    Ed è un tema che interessa costitutivamente anche la pastorale giovanile.
    Come e perché è stato posto storicamente il problema? E soprattutto come si pone oggi?

    Risposta. In ambito cristiano la prassi educativa, almeno in linea di principio, si è sempre ispirata alla Parola di Dio, data anche la sua forte incidenza nella vita di ogni giorno.
    Il richiamo al IV comandamento, la vita dello stesso Gesù ragazzo e il suo insegnamento morale, i premi e i castighi della Bibbia, il comandamento dell’amore… hanno illuminato i grandi pastori ed educatori, da Ireneo, a Clemente Alessandrino, Filippo Neri, Ignazio di Lojola, Giovanni Bosco, Gemma Galgani, e tanti altri fino ai giorni nostri…
    In maniera riflessa, la questione è diventata oggetto di attenzione scientifica nel sec. XVIII-XIX, in particolare nel mondo tedesco, segnatamente evangelico, alle prese con il tema della pedagogia di Dio nel contesto del razionalismo illuminista, disponendo a questo scopo dell’ esegesi scientifica allora incipiente.
    Oggi si propone con la stessa urgenza pratica, dato il bisogno di ispirazione della fede, ma anche di fondazione scientifica, secondo dunque una corretta epistemologia, contro la duplice tendenza del fondamentalismo deduttivo (l’educazione derivata dalla Scrittura), che è cosa comunque di pochi; e contro la tendenza più diffusa del disinteresse biblico, a sua volta motivato dalla perdita del senso religioso dell’educare, anzi del senso stesso di educare.

    UNA COMPRENSIONE CREDENTE DELLE REALTÀ UMANE

    D. Questo è un problema generale anche rispetto ad altre realtà umane, quando si riflette su di loro in termini di comprensione credente, appunto perché la radice e il fondamento di ogni «teologia» sta nella parola di Dio. Come si può impostare una riflessione credente sulle realtà «laiche», umane, frutto della fatica intellettuale ed etica dell’uomo?

    R. Il punto di partenza della visione cristiana sta in questo: ciò che è umano, ossia esistenzialmente significativo per la persona, non è estraneo alla Parola di Dio: trova nella Scrittura, esplicitamente o implicitamente, delle luci importanti.
    L’educazione umana trova un ampio riferimento pratico nella Bibbia, dove è ben conosciuta una cura attenta delle giovani generazioni (poteva essere diversamente in una religione della promessa, così aperta al futuro grazie al dono del figlio? cf Gen 15; 22): si pensi al rapporto padri e figli nelle catechesi pasquali (Es 12, 26, Deut 6, 20-25), nella tradizione sapienziale (cf Prov 10, 1), nelle prime comunità cristiane del NT (Ef 6, 1-4). Non manca una certa motivazione teoretica: si parla di una educazione da parte di Dio verso il suo popolo (si veda il Deuteronomio; l’azione di Gesù Maestro con i discepoli; la paideia del Signore in Ef 6, 4).
    Dunque l’educazione interessa Dio nei confronti del suo popolo, come Gesù con i suoi discepoli, e consequenzialmente il padre/madre con i figli, il maestro con gli alunni… mediante una azione sinergica e interagente, ove ciascuno, Dio e l’uomo, Cristo e il discepolo, il padre e il figlio… mette il proprio contributo.
    Tutto ciò si fonda sul mistero dell’Incarnazione della Parola di Dio (al vertice Gesù di Nazaret), per cui l’azione di Dio e dell’uomo, qui in terra, si incontrano e interagiscono, nel rispetto della loro continuità all’interno delle loro differenze. Altro è dire «Dio educa», altro è dire «l’uomo educa». Eppure entrambi partecipano all’impegno educativo, in quanto compito altamente umano, ciascuno secondo le proprie energie e obiettivi, nell’unità di un progetto di salvezza proposto da Dio.
    Dire educatore, maestro, formatore, pedagogista… nella visione biblica, vuol dire sempre una identità (una ricerca, dei risultati…) che viene da Dio, sempre che si segua la sana ragione, se ne valorizzino le risorse e se ne riconoscano i limiti. Penso che il Signore abbia nella biblioteca del cielo un settore ampio dedicato a pedagogia e educazione, e che passi periodicamente in rassegna tutti i libri e riviste di pedagogia, che andiamo scrivendo qui in terra, tanto gli stanno a cuore gli elementi giovanili e la loro crescita. Non so però se è sempre contento di ciò che legge e vede.

    Contro il fondamentalismo

    D. Si può ricavare una pedagogia, una modalità di pensare l’educazione e di praticarla, dalla parola di Dio?
    Oggi ha acquisito cittadinanza un certo fondamentalismo religioso che applica categorie o modelli pedagogici direttamente al fatto umano. Ha una certa ragione di essere? E non è un rischio sotteso anche ai concetti di pedagogia di Dio, di sequela di Gesù Maestro, della legge e dei comandamenti come strutture minimali all’interno delle quali pensare e progettare l’educazione (la legge come pedagogo)?
    In che modo dunque accedere all’esperienza dell’uomo biblico e alla Parola di Dio per riflettere e impostare una riflessione e azione pedagogica?

    R. Dalla Parola di Dio (Bibbia) si può ricavare una pedagogia, intesa però non come un insieme di indicazioni specifiche eguali per tutti (insomma delle ricette pronte all’uso), bensì come una modalità globale, o meglio uno spirito, delle motivazioni fondanti, dei perché profondi con cui pensare e fare educazione. Ciò vale del resto anche per le cosiddette «realtà terrestri», quali il potere politico, la polis e il suo governo, l’economia, la bioetica, ecc. Non dunque come si educa, ma perché si educa, sta al cuore della rivelazione biblica.
    Si è sempre dato un certo fondamentalismo educativo, che a mio parere, oggi appare ristretto a certi gruppi e movimenti (dilaga piuttosto il «fondamentalismo del rifiuto educativo»). Può trovare una «certa ragion d’essere» nella trascuratezza e dimissione educativa di tanti adulti anche tra i cristiani, ma non è una buona strada, perché mette in crisi la doverosa sinergia tra azione di Dio e dell’uomo, secondo il dogma dell’incarnazione citato sopra.
    Tale lettura fondamentalista riduttiva (per dare di più a Dio si pensa illusoriamente di togliere qualcosa all’uomo, alla sue risorse e responsabilità) si giustifica concretamente appropriandosi di certe categorie che mostrano una qualche valenza pedagogica, quali pedagogia di Dio, Gesù Maestro, sequela e imitazione…, interpretandole alla lettera così come suona. Come abbiamo detto, ciò avviene a causa di una precomprensione teologica errata (la Bibbia-ricettario) e di una esegesi carente.
    Ma ciò non vuol dire che tali riferimenti connotati pedagogicamente non abbiano il valore di richiami significativi per bene educare. Con altre parole, se Dio si serve di categorie pedagogiche per dire la sua rivelazione, vuol dire che il fatto educativo nella sua globalità ha in sé un potenziale comunicativo che non soltanto è congruo alla logica della rivelazione, ma che da questa solo viene assunto e valorizzato.
    Chiaramente lo sviluppo della rivelazione influisce sull’educazione (teoria e prassi) in modo evolutivo. Se il saggio dei Proverbi afferma che il padre che risparmia il bastone odia suo figlio (cf Prov 13, 24), venuto Gesù, l’amore, e non la rampogna violenta, conquistano il cuore (cf Ef 6, 1-4). Così se la legge potè essere pedagogo schiavizzante, venuto il regime della grazia, grazie allo Spirito di Gesù si è stabilito un regime di figli (cf Gal 4, 1-7).
    Bisogna dunque accedere alla Parola di Dio sull’educazione (come su ogni altra realtà terrestre) avendo presente, secondo una corretta esegesi, quale sia il dato reale della Bibbia, non immaginarselo o proiettarlo; in secondo luogo occorre riflettere il dato singolo in chiave di teologia biblica, ossia come si situa nella globalità della rivelazione, pervenendo necessariamente al duplice risultato: a Dio sta a cuore il fatto educativo nel progetto della storia della salvezza; tale fatto va rielaborato e applicato secondo il criterio dell’incarnazione, in una sinergia continua tra l’opera di Dio e dell’educatore umano.

    D. Per quanto riguarda la teologia pastorale o pratica: quale è il ruolo della Parola di Dio rispetto ai tre momenti in cui, secondo il prof. Midali, la teologia pratica si struttura, e cioè la comprensione della situazione attuale (la fase kairologica), la progettazione, la strategia?

    R. Per quanto riguarda il nostro tema, la Parola di Dio, ossia il riferimento biblico, va inteso come criterio di discernimento della situazione attuale (ossia del problema educativo), va elaborato come lievito prezioso e indispensabile nella progettazione, e naturalmente influenza di responsabilità e speranza la strategia operativa.

    UNA PASTORALE GIOVANILE DALLA BIBBIA?

    D. Veniamo alla pastorale giovanile.
    Anzitutto una curiosità. È lecita la domanda se si può ricavare una «pastorale giovanile» dal Vangelo o comunque dalla Bibbia? O che tipo di «apporto» è possibile trovare in esso?

    R. Nel mio libro Bibbia e educazione parlo di «inizi» di PG nel NT, nel senso che indagando sulla figura dei giovani nelle prime comunità cristiane (nei Vangeli, negli Atti e nelle Lettere), si vede che si afferma la loro presenza come dato immancabile e si riconosce loro un certo ruolo costruttivo (cf 1Gv 2, 14), costituendoli così come soggetto di una cura pastorale.
    Ricordiamo che la figura del minore (da bambino a giovane) assume sovente nella rivelazione il ruolo di segno del piccolo, del povero, del debole (cf Samuele, in 1Sam 1-2; Davide, 1Sam 16; i bambini in Mc 10, 13-16), mentre nella società antica (biblica), prevale la figura dell’adulto maschio. In una visione biblico-teologica globale, ciò porta a valutare la figura giovanile, non soltanto come membro di diritto del popolo di Dio, ma anche come portatore in se stesso di un significato, anzi di una promessa di benedizione divina per il futuro. Chiaramente sono germinalità luminose, che dovranno svilupparsi lungo la storia della fede.
    Mai come qui la grande Tradizione educativa ebraico-cristiana diventa ermeneutica fondamentale. Ci piace citare, come testimone convincente, S. Giovanni Bosco.
    Perciò non si può dedurre dalla Bibbia una PG prefabbricata, ma si riceve l’annuncio che l’obiettivo primario della rivelazione è la salvezza, non per sé l’educazione (cf l’episodio del giovane ricco in Mt 19, 16-22); tale salvezza riguarda anche i giovani, li riguarda come membri potenzialmente costruttivi e responsabili della comunità; il processo di salvezza facendosi nel tempo coinvolge l’impegno educativo di maturazione umana e cristiana (cf Ef 4, 12-16). Sono pochi, ma chiari cenni che diventano una sorta di mandato da parte della Parola di Dio di continuare ad interessarsi dei minori nella prospettiva della salvezza, dunque dell’urgenza del Regno, con il potenziale di speranza costruttiva che loro appartiene dentro il popolo di Dio.
    Come è stato detto, nella visione biblica, il giovane è (vale, è chiamato a conoscere e fare…) la sua vocazione.
    Sono tutti concetti da tradurre nella prassi, ma non certamente da dimenticare.

    I contenuti dell’essere credente oggi

    D. Ma soprattutto, che tipo di relazione si può pensare, che non sia di strumentalizzazione ma di reciproco rispetto e dialogo?
    Intanto, quali contenuti «significativi» e profetici dell’essere credenti la Scrittura offre ai credenti (ai giovani credenti) di oggi? Quali secondo lei i temi caldi e da riscoprire-far sperimentare ai giovani oggi, appunto come «parola» di Dio per la vita dei giovani?

    R. Sostanzialmente la risposta si trova in quella precedente.
    Qui aggiungo qualche notazione.
    Per principio la Parola di Dio, concretamente il testo biblico, non dona ricette immediate e specifiche, ma scelte di campo, direzioni di marcia entro cui muoversi. Più che dire come fare educazione, propone perché farlo, la forza per farlo e le modalità che scaturiscono dal perché.
    Così la Bibbia, anche sulla carità verso il prossimo, di cui parla moltissimo nei due Testamenti, non propone come Parola normativa la modalità del racconto, ma le ragioni di amare e dunque le modalità congrue che possono essere materialmente del tutto nuove rispetto al racconto stesso (così nella parabola del samaritano, la cura concreta non può essere fatta con «olio e vino» di allora, ma con gli antibiotici di oggi: v. Lc 10, 29-37).
    La strumentalizzazione non avviene se si fa una buona ermeneutica che prima coglie il nucleo del messaggio e poi lo trasferisce nell’oggi. Purtroppo oggi non si è capaci di creatività fedele alla Parola di Dio: o si è fedeli fino al fondamentalismo, o liberi fino al soggettivismo fantasioso.
    I contenuti «significativi e profetici» che la Scrittura offre ai credenti (giovani) si possono dire in molti modi.
    Mi piace ricordare che li ha messi bene in risalto e in sintesi essenziale Benedetto XVI in Deus caritas est. Facendo riferimento alla Bibbia, ha mostrato che la religione ebraico-cristiana ha per dominante centrale, l’amore di Dio in Gesù Cristo che ci ama per primo in modo appassionato e gratuito, fedele e vitale, e ci rende responsabili di tale amore mediante una condotta concreta verso il prossimo.
    In termini più larghi, è tutto il Credo che diventa significativo se si sa tradurlo esistenzialmente, a partire dal Dio creatore alla vita eterna.
    In prospettiva pastorale ritengo che il tema dell’amore, come Papa Benedetto propone, sia non solo teologicamente, ma anche antropologicamente il più vero e insieme il più toccante.
    Nell’enciclica si avverte una forte attenzione all’uomo, si cerca il dialogo rispettoso e leale con le culture, si apre l’orizzonte dell’altro (povero…) prospettandolo come orizzonte di vita, orizzonte ben maggiore dei piccoli cieli che si aprono sul mondo giovanile, non si demonizza la sessualità…
    Dovremmo rileggere tutta la Bibbia da questa angolatura «agapica» e insieme «erotica» (si pensi alla potente testimonianza di profeti come Osea, Geremia, di Gesù stesso al proposito) entro cui ridire tutto il resto. Solo l’amore è credibile. Esso fa da universale concreto, il più universale e il più concreto elemento che mai possa esistere, che coinvolge contemporaneamente Dio, uomo, cosmo in un unico grande mistero.

    Processi evangelici di educazione alla fede

    D. E poi a riguardo dei modelli e processi di educazione alla fede. Si sa che la Chiesa ripropone icone, concetti, modelli, processi legati alla parola (annuncio, celebrazione…) e molto vicini all’esperienza delle prime comunità, come ad esempio il modello del catecumenato. Come assumerli senza essere fondamentalisti o semplicisti?
    Rispetto ai modelli del venire alla fede (come quando pensiamo a itinerari di educazione alla fede per i nostri giovani) … c’è certamente un accostarsi alla pagina biblica, ad esempio l’esperienza della Samaritana, di Nicodemo, i due viandanti di Emmaus, la storia di Filippo e del funzionario etiope, ecc. Modelli e processi suggeriti come icone (o come «costringenti») in tanti documenti ecclesiali.
    Come porsi di fronte ad essi? Cosa assumere di queste «storie»? Sono esemplari solamente in termini di bella narrazione, o indicano logiche e strategie… necessarie?

    R. La domanda si addentra sempre di più nel discorso del metodo. Indubbiamente la Parola di Dio non si presenta come aforisma o massima astratta, ma dice il proprio messaggio nel concreto della vita, come un annuncio, una provocazione, una interpellanza. Occorre non perdere la metodologia intrinseca alla proposizione dei contenuti. Che Gesù dica il Regno in parabole non è secondario. La via didattica con cui va alla gente resta la stessa con cui la gente va a lui…
    Circa i processi di educazione alla fede come il catecumenato, va colta anzitutto la ragione per cui è stato elaborato. È l’avvenimento del «diventare cristiani» per iniziativa di Dio e con la nostra risposta, che ha determinato questa pedagogia catecumenale fin dai primi tempi della Chiesa.
    Adesso si tratta di re-inventarla, partendo dall’esame di come si diventa cristiani oggi, se è soddisfacente il modo (di certo non lo è con l’attuale prassi catechistica), se non occorre inventare una pedagogia adeguata, se dunque il catecumenato, attentamente esaminato, non possa darci un itinerario ricco di elementi. È perciò indispensabile in pastorale giovanile recepire una tradizione tanto importante, capirne le ragioni, tanto più se raccomandata dal Magistero (v. le tre Note dell’iniziazione cristiana della CEI) e farne un discernimento adeguato.
    Rispetto ai modelli del venire alla fede, che si trovano nei racconti del Vangelo, vanno presi seriamente (sono una pedagogia in atto), mettendo a fuoco la relazione che si stabilisce tra Gesù e le persone che incontra. In tale ottica i suddetti modelli evangelici vanno creativamente elaborati e proposti nella condizione attuale, senza farne però una pedagogia rigida. Le storie evangeliche vanno conosciute, ma anche ri-fatte dai giovani, tramite un cammino di esperienza. Si noterà come indice emblematico, quel «Rabbi, dove abiti? Venite e vedrete. E si fermarono presso di lui» (Gv 1, 38-39; cf Mc 10, 21). I racconti biblici tanto è facile leggerli, altrettanto chiedono tempo di riflessione e maturazione per assimilarli. È di questa fase meditativa bene guidata che vi è bisogno oggi nella strategia operativa.

    Il racconto di storie di salvezza

    D. Il bel documento dei Vescovi del Quebec sulla pastorale giovanile suggerisce «storie» (bibliche) da raccontare ai giovani di oggi, come interpretazione-risposta alle loro domande di senso, di felicità, di vita. Quali sono secondo lei le storie che si possono raccontare ai giovani di oggi? E come raccontarle?

    R. Vi è una «storia delle storie», ed è quella di Gesù, a sua volta rifratta nei tanti episodi evangelici, che va messo in primo piano. Come secondo nucleo vi è la «storia» della Chiesa» in Atti. Come terzo vi è il nucleo della Torah o Pentateuco (dalla creazione all’entrata nella terra), seguita dalla storia della monarchia, dell’esilio e della restaurazione. Vi si inserisce il nucleo biografico dei profeti. E poi i racconti dei libri spirituali (Tobia, Giuditta…). Tutto nella Bibbia è narrazione o suscettibile di diventarlo.
    Ma qui bisogna intendersi. Non è che il raccontare abbia in sé poteri miracolistici, esso ha forza se si colgono le ragioni che hanno spinto al racconto, e in particolare il nesso di relazioni che si manifestano tra le persone: Dio e l’uomo, io e gli altri.
    Concretamente, partendo magari da un problema attuale come oggetto di una riflessione comune (ad esempio il fatto di un omicidio efferato) si ascolta con attenzione il racconto biblico (ad esempio Caino e Abele in Gen 4) e se ne fa argomento di dibattito, incrociando così la storia biblica con la storia del lettore o auditore. Compimento ideale sarà riscrivere con parole moderne il tema di partenza nella prospettiva della Bibbia.
    Un elemento integrativo importante, oggi sempre più rimarcato, è in certo modo completare il racconto biblico con «storie» che provengono dalla storia della Chiesa e anzi dalla storia dell’uomo di tutti i tempi (religioni, culture). Si parla di un incrocio di storie, magari tra loro divergenti, che portano a riflettere sulle differenze e maturare meglio la propria posizione a riguardo del dato biblico.
    La preferenza al narrativo non deve essere tale da non innestare il dibattito, anche dialettico sul senso del racconto. Il narrativo da preferire non quello è che rende tutto più facile, ma fa comprendere meglio la realtà secondo il punto di vista di chi ha composto il racconto. Solo così restano storie sempre ripetibili, anche se «sappiamo come vanno a finire», perché è la realtà divino-umana ivi racchiusa, che è inesauribile. Si pensi alla parabola del figlio prodigo (Lc 15).

    Pregare con la Bibbia, pregare la Bibbia

    D. L’utilizzo della Parola di Dio nella preghiera… soprattutto i salmi, ha certo il vantaggio di far percepire la bellezza della parola e di avvicinare all’uomo biblico, di vedere come la vita (ringraziamento, supplica e domanda, richiesta di perdono, gli stessi dubbi e paure…) deve entrare nel dialogo con Dio, assieme alla gratuità della lode; ma a volte è anche distante dai problemi e dai moti interiori dei giovani. Dunque, pregare con la Bibbia? pregare la Bibbia? che cosa e come?

    R. La risposta è affermativa alle varie domande. Però ci tengo a dire che prima occorre assicurare un minimo di sintonizzazione tra giovane e proposta di preghiera. Altrimenti i Salmi oltre all’intrinseca vecchiaia culturale, si trovano esposti ad una estraneità vitale.
    Un tracciato formativo potrebbe essere questo: partire dal fatto che si prega sotto tutti i cieli (anche i non credenti pregano!); analizzare il fatto umano del pregare (la rilevanza antropologica); proporre la preghiera dell’uomo biblico dall’AT al NT, al centro la preghiera e il pregare di Gesù; spiegare elementi culturali inerenti alla preghiera biblica (i Salmi); evidenziarne la valenza antropologica (le componenti esistenziali); cogliere la preghiera nella storia biblica, per apprendere che la preghiera in chiave biblica è in fondo il credo fatto preghiera, con le tante accentuazioni di certezze e di dubbio, di gioia e fiducia, di apertura e partecipazione al destino altrui...
    Sì al pregare con la Bibbia (il salterio e le tante preghiere dell’AT e NT); sì al pregare la Bibbia, ossia traducendo in preghiera un tema, un racconto… ma anzitutto scoprire e accogliere il valore teologico e antropologico del pregare biblico e umano. E farne e insieme laboratorio.

    UN ITINERARIO DI FEDE PER GIOVANI

    D. Come vedrebbe un itinerario di fede per i giovani, dal suo punto di vista di biblista… ma anche di educatore; meglio, di un educatore innamorato della Parola di Dio?

    R. Vorrei anzitutto evitare una indigestione biblica, del tipo «apri la Bibbia e ne avrai effetto sicuro», perché sarebbe una sorta di miracolismo fondamentalistico, e di sicuro vi sarebbe l’estraneità.
    Ritengo proprio in nome della Bibbia, di quel largo mondo umano che è il mondo biblico, percorso dai tanti fremiti di umanità, ora dolorante, ora lieta, ora scettica, ora carica di fiducia, che si domanda sull’ieri e sul domani per illuminare l’oggi, dove si intrecciano vita e morte, malattia e salute, dolore e gioia, dubbio e certezze…, ebbene in sintonia con questo mondo ritengo che il cammino di fede debba muoversi in maniera che il parlare di Dio (non se ne potrebbe fare a meno nella Bibbia!) non sia a sé stante, ma richiami contemporaneamente – in nome del rapporto di alleanza, asse centrale del mondo biblico – l’umanità del giovane uditore, sottolineando che la sua vita è il primo interesse di Dio stesso, amante della vita (Sap 11, 26), il quale propone, non impone, al giovane, non una legge, ma un dono carico di senso, ricco di valori, di cui Gesù Cristo è il paradigma supremo.
    Si tratta di arrivare a far sentire l’audace affermazione di Benedetto XVI ai giovani della GMG di Colonia. «Dio non intende togliere niente all’uomo, ma anzi riempire la sua vita di gioia».
    Se si arriva a questa «umanità aperta», anche se non pienamente credente, ma disposta a credere, allora la Bibbia risuona come Parola di Dio che aiuta a comprendere, quanto meno a non prendere turbamento, delle tante parole, vicende apparentemente poco edificanti dentro il Libro Sacro.
    Per raggiungere e fomentare questa «apertura di umanità» e porla in dialogo con la Parola biblica, vanno tenuti presenti certi passaggi.
    Eccoli a forma di slogan:
    – far entrare in scena, magari risvegliandolo, l’uomo che è in te;
    – mettere a fuoco la Bibbia come storia di uomini, ritrovabili sotto tutti i cieli e in tutti i tempi;
    – cogliere la specificità della visione biblica sottolineando le ragioni di credibilità, ma anche le condizioni di accoglienza (si tratta sempre di una visione religiosa di cui Dio è primo attore) e soprattutto evidenziare il potenziale di liberazione e di speranza per la vita. Un nodo va affrontato, in quanto snodo centrale dell’esistenza specialmente giovanile: il senso del tempo, dall’archè all’escaton, dunque la componente di un futuro ultimo decisivo, da affrontare dentro una progettualità di Dio riconoscendovi la vocazione ad un proprio progetto di vita;
    – focalizzare e approfondire questo dialogo Dio e uomo (in fondo qui si concentra il messaggio biblico nelle sue tante sfaccettature, giacché la persona umana è «prismatica», a forma di diamante, non uniforme e monocorde) incontrando e confrontandosi direttamente con Gesù di Nazaret, a lungo, in dettaglio, avvalendosi del migliore esame fenomenologico e insieme non dimenticando il «mistero» di questa persona, che ti risponde, ma che anche ti chiede: «E tu, chi dici che io sia?»;
    – in questo incontro tramite i racconti evangelici, non si può dimenticare il mondo di testimoni e testimonianze che popolano la Chiesa, questa ammirabile storia degli effetti evangelici manifestata da uomini e donne lungo venti secoli. Purtroppo questa considerazione della Chiesa nella storia è pressoché ignorata nella catechesi e nella scuola di religione;
    – infine – ma il confronto comincia durante il processo – non può mancare il dialogo interculturale e interreligioso, che permette di appurare nelle vicende ed esperienze umane sia le tante prossimità (desiderio, invocazione, ricerca) che si hanno con il dato evangelico, sia le differenze e anche le opposizioni ad esso, cercando di darsene una ragione, per essere «capaci di rendere conto della speranza che è in noi» (1Pt 3, 15).

    Per una crescita spirituale

    D. Può dare suggerimenti praticabili a dei giovani che vogliono confrontarsi sulla Parola per un loro cammino di fede e una crescita spirituale?

    R. Nelle cose fin qui dette tanti elementi sono stati dati. Volendo riassumerli in relazione a dei giovani disponibili ad un cammino di fede, mi sento di richiamarne alcuni.
    - Fondare e incrementare le motivazioni di fede, e quindi abilitare i giovani ad averle, per un fruttuoso incontro con la Bibbia. È una condizione presupposta per ogni altro incontro religioso, tanto più necessaria data la inevitabile estraneità tecnica, culturale e affettiva del documento biblico, specie tra i giovani, in cui l’ignoranza oggettiva si coniuga con un certo autocentramento di interessi e attese che ostacola l’apertura al Libro Sacro come comunicazione significativa che non dipende da me, non è «opera delle mie mani».
    - In questa dinamica motivazionale, diventa indispensabile una certa introduzione, anzi iniziazione alla Bibbia, segnatamente ai vangeli, dal versante sia scientifico esegetico (identità del Libro Sacro come storia, letteratura, messaggio) che teologico (in che senso e come è Parola di Dio, Parola di Dio in linguaggio umano, per cui l’evento dell’Incarnazione continua). Gesù Cristo, morto e risorto, la sua vita, diventa il centro di interesse unificante l’immensa vicenda biblica (73 libri) e quindi «oggetto» primario di interesse, ma entro il vasto mondo che lo prepara (anche l’AT ha un eminente senso pedagogico a Cristo, cf Gal 4, 1-7) e che lo segue (la prima Chiesa nella sua configurazione apostolica voluta da Gesù). Va spiegata e vissuta la fondamentale mediazione dello Spirito Santo o Spirito di Gesù nel sacramento che è la Chiesa.
    - Promuovere un cammino biblico «in compagnia» (gruppo, comunità, con animatore…) come segno ecclesiale (il tu cui Dio rivolge la sua Parola sono sempre io con gli altri). Il che è insieme un incentivo educativo primario che fa da sostegno alle personali fragilità, ma impegna anche ad un confronto, stimola una ricchezza di percezioni, provoca quindi un atteggiamento di comunione e forma una soggettività responsabile.
    - La lectio divina, opportunamente adattata (v. la Scuola della Parola del Card. Martini, espressamente citato quale «buon maestro» da Benedetto XVI) è la proposta esplicita che Papa Benedetto va indirizzando ai giovani dalla GMG di Colonia 2005 fino ad oggi. Intorno ad essa, si allarga il campo per una formazione biblico-catechistica alla sorgente, sia facendo conoscere i fondamentali insegnamenti di Dei Verbum, sia proponendo corsi biblici di varia grandezza abilitando a saper leggere e interpretare testi biblici più semplici e dove ricorrere per i passi difficili.
    Senza una crescita mirata di cultura biblica tra i giovani, vi è poca speranza per una spiritualità biblica che regga a stanchezza, noia, deformazioni.
    - Non si dimenticherà la dinamica intrinseca alla Parola di Dio, resa così palpabile nella vita di Gesù:
    * la Parola va annunciata, fatta conoscere; la lectio divina e altre forme di incontro con la Bibbia lo permettono, non tralasciando quella integrazione della Parola che proviene dalla intelligenza di fede della Chiesa codificata nei «Catechismi»;
    * la Parola annunciata richiede di diventare parola celebrata. L’incontro sacramentale, segnatamente l’Eucaristia e la Confessione, altro non è che il testo biblico che si fa qui e ora. Questo della preghiera liturgica e personale è un passaggio essenziale, ancora poco ancorato a questa logica dinamica dell’evento della Parola. Bisognerà fare celebrazioni che manifestano in modo affascinante questa radicalità biblica;
    * la Parola annunciata e celebrata, riconosciuta come gesto di amore trinitario, diventa un mandato di fare altrettanto, di diventare cioè azione di amore nella concretezza della vita, personale e anche sociale. La carità rende credibile la Parola. Non si può leggere il racconto della moltiplicazione dei pani senza farne celebrazione eucaristica, ma anche senza obbedire al comando di Gesù «Date voi da mangiare!» (Mc 6, 37);
    * la Parola compiutamente accolta genera comunione, rende servitori della Chiesa come comunione all’interno di essa, e verso il mondo si fa missione.
    - Vi sono tre altri elementi che per dei giovani stimo centrali. Proprio il contatto così in presa diretta con la Parola di Dio e d’altra parte il pieno inserimento nel mondo e nella storia del proprio tempo richiedono tre attenzioni:
    * apprendere un corretto esercizio interpretativo, cioè imparare ad attualizzare la Parola nella vita seguendo le indicazioni riferite alla risposta seconda. «Leggere la vita con la Bibbia e la Bibbia con la vita», afferma un protagonista come C. Mesters;
    * assumere di fronte alla Parola ciò che la Parola richiede: la propria responsabilità nel mondo, quindi conoscenze e competenze che il sapere umano va proponendo tra luci e ombre sui temi centrali nella Bibbia stessa. Il mondo per la Bibbia è nato laico (cf Gen 1, 26ss), con la sua autonomia piena, da coniugare non con un restrittivo senso sacrale, ma con un leale e riconoscente senso religioso.
    Anche per il credente, anzi per lui in certo modo, più che per i non credenti «due più due non fanno Dio, ma quattro», con la coscienza però che l’intelligenza e il suo uso viene da Dio e che le leggi della matematica e di ogni altro scibile sono per la vita della persona secondo il progetto di Dio;
    * questa genuina laicità alla scuola della Bibbia, porta il credente giovane ad un duplice impegno:
    ^ saper discernere, con la Parola di Dio, il complesso spesso oscuro della vita e della realtà, cogliendo ombre e luci in questo divenire umano, quindi non adagiandosi al relativismo per cui non vi è nessuna verità assoluta, né al funzionalismo per cui è vero ciò che serve. È un esercizio che domanda competenza sulla Parola di Dio e insieme sulle parole degli uomini (sistemi di significato, stile di vita…);
    ^ «saper rendere conto della speranza che è in noi» (1Pt 3, 15), capaci e disposti di testimoniare con franchezza e cordialità, con i fatti, ma anche con le parole, il dono di una fede lucida per quanto è possibile, ma certamente capace e disponibile di amare la vita propria, e dare calore a quella altrui.


    T e r z a
    p a g i n A


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