Pastorale Giovanile

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    Pastorale alla ricerca dei suoi fondamenti


    (NPG 2008-05-9)


    ICONE BIBLICHE PER UN PROGETTO PASTORALE
    Italo Molinaro

    Nella realizzazione delle finalità del progetto, riteniamo indispensabile avere come orizzonte di riferimento la parola di Dio. Finalità centrale è l’incontro con Cristo; possiamo pertanto riconoscere in tre racconti evangelici le indicazioni più opportune per il cammino di fede dei giovani: i racconti evocano la dinamica dell’incontro e le sue conseguenze.

    Il giovane ricco (Mt 19,16-22)

    Il tema
    Un giovane incontra Gesù e gli pone delle domande. Gesù lo spinge ad approfondire la sua riflessione e alla fine lo interpella con una proposta esigente: «Vieni. Seguimi» (v. 21). C’è in questo episodio un doppio valore: Gesù si propone al giovane come guida esigente, sul cammino di una fede più adulta. Gesù chiede la disponibilità a seguirlo in modo generoso, e ciò corrisponde a un itinerario vocazionale e di crescita nella responsabilità cristiana.

    Esegesi
    Il racconto si trova nel contesto dell’ultimo tratto del viaggio di Gesù verso Gerusalemme. Lì si compirà il suo cammino messianico. È quindi l’ora degli ultimi insegnamenti, in particolare circa l’identikit del discepolo, di colui cioè che segue Gesù. Un giovane ricco diventa simbolo di ogni uomo che si imbatte nel Signore. Gesù è qualcuno a cui porre una domanda per capire «che cosa devo fare di buono per entrare nella vita eterna» (v. 16). Il giovane sa che la sua vita aspira a una prospettiva eterna, cioè superiore, divina, di realizzazione e felicità, che in qualche modo dipende dal suo fare. Sa anche che Gesù è una persona che può offrirgli un parere autorevole. Il fare consigliato da Gesù parte anzitutto dai comandamenti. Ma questa prima risposta non soddisfa il giovane, che si vede solo confermato in ciò che già è e fa. Il giovane rivela infatti di coltivare un’ambizione in più: «che altro mi manca?» (v. 20). Egli quindi si espone per uscire dall’insoddisfazione, desideroso di altro. Ha visto infatti che la sua vita di fedeltà ai comandamenti non gli basta.
    Gesù risponde e alza il tiro. Sta per dare un consiglio che conduce alla perfezione: «se vuoi essere perfetto» (v. 21). La parola perfetto contiene l’idea di un fine, di una meta. Entriamo davvero nell’identikit del discepolo di Gesù, che per natura è un camminatore, uno in viaggio per entrare nella vita eterna. Questo identikit comprende una dimensione fondamentale, la povertà: «va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!» (ibid.). Per Gesù la povertà è un valore e la ricchezza un pericolo. Certo, nella Bibbia la ricchezza era un segno della benedizione di Dio e la povertà era considerata segno di castigo. Il giovane ricco è colpito proprio in una sua certezza: la ricchezza come prova del favore divino su di lui. Gesù gli dice invece che la perfezione sta in una scelta di totale disponibilità per Gesù, di fiducia radicale in lui. Niente e nessuno può rappresentare per il discepolo la prova della vicinanza di Dio. Solo Gesù è questa prova, solo nel seguire lui il cammino dell’uomo si orienta a un fine, a una meta (cf essere perfetto) in grado di superare il suo permanente senso di insoddisfazione.
    L’esito dell’incontro è negativo: il giovane se ne va, ma non dietro a Gesù! Le ricchezze lo hanno trattenuto. La sua ambizione si è scontrata contro un’esigenza che smontava una sua convinzione di fondo. Incapace di mettersi in gioco in modo radicale, si trova triste (v. 22). Niente infatti è più doloroso del ritrovarsi con le proprie frustrazioni, dopo aver cullato per un istante l’illusione di una soluzione magica e facile.

    Una lettura pastorale
    Il giovane ricco rimugina dentro di sé una domanda di senso: vuole dare un fine, una perfezione superiore alla sua vita. È questa la condizione dell’uomo, in ogni tempo, cultura, luogo, età e condizione. Sono però soprattutto i giovani a sperimentare questa domanda, a volte in modo estremamente teso. Come per il giovane del racconto, anche oggi si parte spesso da una frustrazione, da una insoddisfazione per la realtà quotidiana e persino per una forma di religiosità che non basta.
    Gesù è percepito come la persona giusta a cui rivolgere la domanda sul senso. Percepiamo in questo come un’attrazione inspiegabile. Non si sa perché il giovane del Vangelo abbia voluto porre la sua domanda di senso proprio a Gesù. Così avviene per i giovani di oggi. Si nota spesso che Gesù è capace di attirare e interpellare, al di là di ogni fatica educativa esterna. Il grande scoglio è la ricchezza. Il racconto evangelico permette di capire il suo valore simbolico: si tratta di una forza che frena o addirittura impedisce al giovane ricco di trasferire su Gesù soltanto le sue attese di fondo e la sua fiducia.
    Effettivamente Gesù chiede al giovane ricco un balzo enorme e ancor di più oggi! Siamo infatti in un contesto sociale molto centrato sull’individuo. Ognuno si fa centro dell’universo. Anche nuove forme di religiosità esoterica puntano in questa direzione, consolatoria ma non liberatoria. Infatti l’altro grande tratto della nostra società è l’insoddisfazione, la tristezza.
    Comunque non va sottovalutato il fatto che al giovane del Vangelo Gesù chiede tantissimo: il ribaltamento delle proprie fondamenta. La «ricchezza» va sostituita con la «povertà» che è la disponibilità assoluta a seguire Gesù solo, a riconoscere in Lui il senso, il fine, la perfezione. Ai giovani di oggi il Signore chiede tantissimo e loro lo sanno. Ma anche gli educatori devono sapere che ciò che offrono ai giovani è estremamente esigente e quindi non facile da digerire. Sono chiamati però anche a sottolineare la bellezza del sì detto a Gesù: «avrai un tesoro nel cielo» (v. 21). Il cielo non è solo o in primo luogo il paradiso, ma indica l’apertura salvifica e amante di Dio alla terra. Il tesoro insomma è la comunione divina, la salvezza, il regno, che si compiono ormai come in cielo così in terra, secondo l’espressione del «Padre nostro».Di fatto oggi notiamo in modo sempre più chiaro che una risposta parziale a Gesù non è sufficiente.
    O Gesù è seguito con decisione, o difficilmente potrà essere significativo per la vita di una persona. L’abbandono della fede da parte di molti è la prova dell’insufficienza di un cristianesimo sociologico, di una fede ridotta a morale dei comandamenti (soprattutto dei divieti!).
    Il racconto del giovane ricco insegna quindi che ai giovani di oggi Gesù chiede molto, ma promette anche molto! In Matteo, tutto si gioca in un rapido scambio di battute. Per noi oggi il confronto tra la domanda di senso e la proposta di Gesù avviene invece su tempi lunghi, cioè nell’ambito di una progressiva educazione alla fede. Il carattere ultimativo del racconto evangelico sottolinea tuttavia un valore: la scelta del seguire Gesù va sempre posta come orizzonte chiaro: ci sono insomma dei momenti in cui bisognerà effettivamente scegliere. La scelta, tuttavia, non è il traguardo, ma solo l’inizio di un cammino con Gesù e dietro a Gesù, che continua e porta più lontano. Un cammino che solleciterà altre scelte, verso una povertà sempre più radicale, generosa, cioè verso una disponibilità a fondare sempre più saldamente la propria vita su Cristo. Un cammino in cui ci scopriremo accompagnati da tanti fratelli: la Chiesa.

    Gesù sale sulla barca e condivide la pesca (Lc 5, 1-11)

    Il tema
    Cristo condivide il destino dell’uomo, in modo da essere capito dagli interlocutori. Egli è solidale con le diverse espressioni della vita quotidiana e si rende presente proprio là dove l’uomo lavora, soffre e gioisce con tutta la forza della divinità, manifestata nella sua straordinaria umanità. In questo racconto si fa prossimo ai suoi discepoli dando delle indicazioni pratiche per la pesca. Pietro fa l’esperienza di una pesca feconda, dopo essersi fidato di Gesù. L’apostolo può essere considerato qui simbolo dell’educatore, dell’evangelizzatore. Alla base del suo servizio c’è la promessa di Gesù: la pesca funzionerà! Pietro sarà chiamato a radunare «uomini vivi» (v. 10), ovvero per una vita degna di questo nome. I «pesci» ci sono: «basta andarli a pescare»! Come dire: Gesù invia gli evangelizzatori in un mare promettente, non ostile e chiuso. Ma bisogna andarci, però! Andare dove? Dove sono i giovani oggi? Aspettiamo che saltino loro fuori dall’acqua o andiamo noi a pescarli?

    Esegesi
    Siamo all’inizio della vita pubblica di Gesù. L’evangelista Luca intreccia vari elementi: Gesù si presenta come messia, compie il primo miracolo (la suocera di Pietro), offre le prime predicazioni, chiama i primi discepoli. Il racconto della pesca è posto nel contesto di una predicazione: alla folla che dalla riva ascolta Gesù, corrispondono infatti i pesci nel mare; al Gesù annunciatore corrisponde Pietro l’apostolo. La chiamata di Pietro gli lascia già intuire lo scopo futuro della sua nuova vita: pescare uomini vivi. Oggi Pietro è discepolo («lasciarono tutto e lo seguirono»: v. 11); ma sullo sfondo si staglia già la sua missione apostolica.
    La pesca non è facile. Il momento più propizio è la notte, ma persino la notte può rivelarsi infruttuosa (cf v. 5a). Nel racconto, questo elemento serve ad accrescere la meraviglia di fronte all’esito della storia: la pesca miracolosa. Il successo insomma arriverà non per l’abilità di Pietro, ma «sulla parola» (v. 5b) di Gesù.
    Pietro ha già visto Gesù all’opera (gli ha appena guarito la suocera), quindi ha avuto una prova della sua parola potente, ne ha già fatto l’esperienza. Forse è per questo che ora si fida della sua parola e tenta la pesca impossibile. Il risultato è strabiliante: «presero una quantità enorme di pesci e le loro reti si rompevano» (v. 6). La reazione di Pietro non è tanto lo stupore davanti a un evento straordinario. Pietro si comporta invece secondo uno schema tipico da teofania, ben noto nell’Antico Testamento. Dio si rivela, l’uomo si percepisce infinitamente piccolo davanti a lui, Dio lo invita a non temere. Così accade nel testo di Luca: Gesù manifesta il suo potere divino nel miracolo; Pietro gli si getta ai piedi, lo chiama col nome divino di Signore e lo invita ad allontanarsi da lui perché è un peccatore (senso di sproporzione umano-divina), lo stupore contagia tutti i presenti, Gesù invita a non temere e annuncia il senso della manifestazione miracolosa: la missione a cui Pietro sarà chiamato. La vocazione dell’apostolo inizia a concretizzarsi nell’essere discepolo: «lasciarono tutto e lo seguirono» (v. 11).

    Una lettura pastorale
    Il punto di partenza è la parola di Gesù, ma la sua chiamata racchiude anche il tesoro di una promessa: «Prendi il largo e gettate le reti» (v. 4). Nessun educatore parte per un suo progetto, ma perché Gesù lo manda. Il successo dell’annuncio dipende quindi dalla promessa di Gesù.
    Ogni timore di Pietro cede di fronte alla parola di Gesù. Quanti timori animano oggi gli educatori, soprattutto nei confronti dei giovani? Il ricordo di tante delusioni può essere sconfortante. E se l’insuccesso fosse legato a una pesca nata male, cioè non realizzata sulla parola di Gesù? Insomma, ogni evangelizzatore è provocato prima di tutto a verificare la sua fiducia in Gesù.
    Pietro ha gettato in un mare pieno di pesci che però non hanno abboccato alla sua fatica notturna. E tuttavia questi pesci ci sono! Dove? Dove si trovano i giovani oggi? E se fosse proprio lì che il Signore ci manda a cercarli?
    Il racconto della pesca miracolosa ci offre un’indicazione di fondo: i pesci ci sono! L’invito di Gesù «prendi il largo» è valido ancora oggi. Significa che anche oggi l’evangelizzazione è possibile. La frustrazione pastorale per le numerose sconfitte educative non deve chiudere la speranza. Il Signore rilancia la sua pesca là dove i giovani ci sono, vivono, si ritrovano, trascorrono il loro tempo libero, secondo i loro interessi. Il Signore spinge Pietro a pescare nella vita quotidiana delle persone, ritentando la via del mare, cioè di una presenza tra le persone concrete. Da soli, i pesci non verranno mai a riva. Il lamento sterile per la notte infruttuosa non porta a nulla. Ma senza una fiducia rinnovata nella promessa di Gesù, nessun evangelizzatore troverà oggi la forza di tentare ancora. In sintesi: tentare nuove vie tra i giovani, fidandosi della parola di Gesù: anche Lui è sulla barca che va al largo.

    Giovanni Battista indica il Messia (Gv 1, 35-37)

    Il tema
    Un profeta è mandato per indicare il Messia presente nel mondo. Si tratta di Giovanni il Battista, protagonista in alcuni significativi episodi evangelici, all’inizio della vita pubblica di Gesù. Troviamo in lui l’identikit dell’educatore alla fede e ne sottolineiamo in particolare un elemento: Giovanni ha il compito di condurre a Gesù, non di tenere i discepoli legati a sé.

    Esegesi
    Giovanni Battista è l’uomo della testimonianza. Egli vede lo Spirito Santo posarsi su Gesù: «E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,34). Nel quarto Vangelo, il tema della rivelazione, del Dio che si manifesta e incontra l’uomo, sta alla base di tutta la vicenda di Gesù. La figura del Battista si inserisce quindi nel contesto di questa catena di rivelazioni. Dio non sta in silenzio, non si nasconde, ma si rivela e incontra l’uomo nel Figlio. Giovanni sarà chiamato proprio a innescare il meccanismo della rivelazione divina.
    L’identità del Battista si forma in questo contesto di rivelazione. Lo scopo della sua vita è una vigilanza permanente, in attesa del momento storico decisivo, il giorno cioè in cui il Messia si manifesterà. Al Giordano, il Battista costituisce una «postazione di vedetta», una comunità di desiderio, che riesce a catalizzare l’attesa delle folle. Il suo battesimo è un atto di purificazione e penitenza, di preparazione all’accoglienza del Messia. Alcuni discepoli costituiscono con lui un gruppo speciale, che vive l’attesa con particolare intensità. Non sappiamo molto di questa comunità, ma la sua esistenza è suggerita con chiarezza dall’evangelista Giovanni, che parla di «due dei suoi discepoli» (v. 35), Andrea e probabilmente lo stesso evangelista.
    Arriva il giorno in cui si compie la vocazione del Battista: indicare il Messia. È il vertice di una storia di attesa durata secoli. Giovanni dice: «Ecco l’agnello di Dio» (v. 36). L’espressione non è chiara: forse allude al valore pasquale del Messia, come agnello immolato per rivelare la misericordia di Dio. L’espressione potrebbe però anche nascondere un «errore» di traduzione dall’aramaico – la lingua originale del Battista – dove la parola agnello è quasi identica alla parola servo. Per questo, forse, il Battista indicava in Gesù il Servo di Dio annunciato dal profeta Isaia: il servo Messia. Anche l’esistenza del Servo, tuttavia, è segnata dall’immolazione, cioè dal dono della propria vita, come nel caso dell’agnello, in vista della rivelazione del Dio-Amore. La figura del Servo e quella dell’agnello sono quindi sovrapponibili proprio nel punto cruciale: la donazione. Giovanni quindi, nell’indicare il Messia pone in prima linea un fatto preciso: Gesù è colui che si dona, e il suo dono è per rivelare la misericordia di Dio.
    Il Battista dà il segnale atteso dai secoli e i discepoli scattano: lasciano lui per seguire il nuovo maestro: «sentendolo parlare, seguirono Gesù» (v. 37). Giovanni ha svolto il suo ruolo: ha coltivato una comunità di attesa, ha colto il momento giusto per lanciare il segnale, ha lasciato che la storia della salvezza proseguisse in pratica oltre se stesso. L’identità del Battista sarà perfettamente riassunta dal quarto vangelo nel capitolo 3, dove il profeta pone a confronto se stesso e Gesù dicendo: «Lui deve crescere, io invece diminuire» (v. 30).

    Una lettura pastorale
    La figura di Giovanni Battista interpella per noi anzitutto l’educatore. Il famoso altare di Issenheim, del pittore tedesco noto come Grünewald, bene riassume i valori che ruotano attorno a Giovanni. Al centro c’è il Crocifisso, alla sua destra Giovanni Battista, con un esile ma lungo indice puntato verso Gesù. In quel dito indice troviamo tutta la sostanza della sua persona. Sullo sfondo nero, scritto in rosso, sta il già citato testo di Gv 3,30.
    Giovanni non è un personaggio secondario. Non è una figura minore. Di lui si interessa lo stesso re Erode e anche dopo la risurrezione di Cristo ci saranno gruppi che conosceranno ancora solo il suo battesimo di acqua (cf At 19,3ss). Giovanni quindi deve essere stato un profeta che ha coalizzato attorno a sé enorme attenzione, anche dopo la morte. La sua sfida come profeta è quella di non incollare le persone a sé ma di volgerle a Cristo, anche se non è facile, visto il potere carismatico e la forza di attrazione che possiede. Il suo indice puntato verso il Messia è quindi davvero emblematico. Mostra in pratica una totale spoliazione da se stesso, la capacità di essere al centro e nel contempo di sapersi secondario, finalizzato a un Altro.
    La persona di Giovanni può quindi offrire alcuni punti di riferimento per una figura che nel progetto di pastorale giovanile è decisiva: l’educatore. I giovani che inizieranno un cammino di formazione come educatori di altri giovani e animatori di gruppi sono chiamati ad adottare esattamente l’atteggiamento del Battista, a divenire cioè «indice» che conduce a Cristo. Il ruolo di educatore è rischioso: quando si diventa una guida – anche carismatica – c’è infatti il pericolo di riunire le persone più attorno a sé che non attorno al Signore. È una dimensione da tenere costantemente presente.
    Infine ricordiamo il nocciolo della testimonianza di Giovanni: il Messia è presentato come colui che si dona per amore. È la sintesi del Vangelo, della buona notizia che Dio ha da offrire al mondo. È il succo della testimonianza che anche l’educatore è chiamato a comunicare. Articoliamo la dinamica dell’incontro con Cristo e le sue conseguenze in tre cammini che trovano riscontro nei racconti evangelici indicati e sono sviluppati negli obiettivi pastorali.


    UN INVITO AD APRIRE LO SGUARDO ALLA BELLEZZA
    Cristina Vonzun

    «Nel contesto del nostro mondo occidentale, caratterizzato da demotivazioni e stanchezze – afferma il cardinal Martini – … che cosa ci può dare un colpo d’ala, un cambiamento di marcia, un orizzonte di gioia e di speranza? … Non basta deplorare e denunciare le brutture del nostro mondo. Non basta neppure per la nostra epoca disincantata parlare di giustizia, di doveri, di bene comune, di programmi pastorali, di esigenze evangeliche… Bisogna irradiare la bellezza di ciò che è vero e giusto nella vita, perché solo questa bellezza rapisce veramente i cuori e li rivolge a Dio».
    Riprendiamo alcuni elementi del messaggio del Papa ai giovani svizzeri e cerchiamo di coglierne alcuni aspetti presenti nelle icone bibliche scelte per il nostro progetto. Il loro successivo approfondimento vuole mettere in luce, dal punto di vista teologico, la conformità cristiana ad un annuncio che sia trasmissione del bene e del vero come irradiazioni del bello. Un annuncio insomma, conforme all’epoca post-moderna, dove la verità è coglibile molto di più per la sua valenza estetica. Un itinerario che nella nostra diocesi sta iniziando a tradursi anche in esperienza pastorale.

    Il punto di partenza: i richiami del papa e le icone bibliche

    Veniamo raggiunti nel magnifico anfiteatro della BernArena dal messaggio del Papa ai giovani svizzeri che risulta essere il primo testo «di pastorale giovanile» a valenza unitaria per la Chiesa in Svizzera. Una parola incentrata sul tema dell’incontro «Alzati» (cf Lc 7,14) per mettere in evidenza «il faccia a faccia» con Colui che invita a rimettersi in piedi, Cristo «luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9) e «verità che ci fa liberi» (Gv 14,6), vita che il Padre dona in abbondanza (Gv 10,10). Al momento indicato dall’«Alzati», il Papa fa seguire un forte appello all’Ascolto, sia della voce del Signore sia della coscienza «assetata di verità, felicità, bontà e bellezza», presentata come via per scoprire la propria vocazione e per esclamarne la pienezza: «è bello potersi spendere fino alla fine per la causa del Regno di Dio!». E poi, ultima tappa del messaggio e momento forte è l’esortazione a camminare «Cammina»: il «tempo dell’azione» situato dal Papa nel contesto di un mondo «spesso senza luce e senza il coraggio di nobili ideali, nel quale non è tempo di vergognarsi del Vangelo (cf Rm 1,16). È tempo piuttosto di predicarlo dai tetti (cf Mt 10,27)». Questo impulso positivo, questo cammino «alzando lo sguardo», lo ritroviamo nel secondo grande testo consegnato ai giovani svizzeri, quello dell’omelia alla Messa all’Allmend di Berna, il 6 giugno 2004.
    L’omelia si apre con un invito alla contemplazione della natura, per ritrovare in essa l’opera della Sapienza divina sia nel creato, sia nell’attenzione «alle presenze umane intorno a noi». Una parola, quella pronunciata davanti ai 70.000 dell’Allmend in occasione della festa della Trinità che poi ripropone alla Chiesa in Svizzera l’appello a vivere la comunione «tenendo fisso lo sguardo del cuore sul mistero della Trinità che abita in noi e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli», affinché cresca una «spiritualità della comunione».
    E di nuovo, la ripresa del tema della verità, quella verità che è Gesù Cristo stesso e l’invito alla missione: la «Chiesa è missione», e ancora «è giunto il tempo di preparare giovani generazioni di apostoli che non abbiano paura di proclamare il Vangelo». Una Chiesa missionaria, «libera da false paure perché sicura dell’amore del Padre». Di nuovo, ancora, un richiamo alla dignità iscritta «in ogni essere umano» in cui si rispecchia «l’immagine di Dio»... di un Dio che è amore.
    Tornando al nostro progetto diocesano, cogliamo in esso alcuni elementi «teologici» che si riallacciano bene ai temi espressi dal Papa. Nel commento biblico alle tre icone, Italo Molinaro – presentando l’incontro tra Gesù e il giovane – ha parlato «dell’attrazione inspiegabile» dalla quale nasce la domanda. Come don Molinaro stesso constata dall’esperienza diretta con i giovani: «Gesù è capace di attirare e interpellare, al di là di ogni fatica educativa esterna». Se il cammino non è facile, tuttavia gli educatori possono presentarlo al giovane nella pienezza del suo fascino. Essi infatti, è ancora scritto: «Sono chiamati però anche a sottolineare la bellezza del sì detto a Gesù: avrai un tesoro nel cielo» (Mt 19,21). Nel secondo brano, (Lc 5,1-11), siamo stati aiutati a cogliere, tra i diversi aspetti, la dimensione «teofanica» dell’incontro tra Cristo e Pietro nell’evento della pesca miracolosa: «Dio si rivela, l’uomo si percepisce infinitamente piccolo davanti a lui, Dio lo invita a non temere», in una scena nella quale «lo stupore contagia tutti i presenti». Quanto all’ultima icona, quella di Giovanni Battista, figura dell’educatore, Molinaro sottolinea nel suo commento quanto il profeta «possieda una forza di attrazione», che non usa per un fine personale ma per «indicare» il Messia.
    Queste brevi considerazione ci aiutano ad addentrarci nella riflessione successiva che vuole audacemente approfondire alcuni tratti del rapporto evangelico tra verità, bontà e bellezza. Lo compiamo nella certezza che si tratta di un cammino ancora tutto da approfondire, ma che il recente magistero del Papa per i giovani (vedi il messaggio alla Veglia della GMG di Toronto e quello per la GMG di Colonia) già offre. Un aiuto estremamente efficace lo incontriamo nell’enciclica Veritatis Splendor che, guarda a caso, si riallaccia a molti degli aspetti da noi affrontati e ci consente un approfondimento ulteriore.

    Rapporto tra la verità, il bene e la bellezza

    Il nostro punto di approccio all’incontro con la bellezza prende avvio da un’osservazione che Bruno Forte riprende dal teologo svizzero H. U. von Balthasar:[1] davanti alla crisi della postmodernità, nota Forte, non è sufficiente affermare che Cristo è vero e buono, ma occorre mostrare che è bello. Cosa attrae infatti l’uomo postmoderno?[2] Risponde Forte, non tanto la costrizione logica del Vero e neppure solo un’etica del Bene, ma lo «splendore della Verità e del Bene», cioè la loro Bellezza.[3]

    Il postmoderno e la sua proposta

    L’attuale condizione postmoderna è dominata dal nichilismo esistenziale, dalla crisi della verità universalmente intesa, dal relativismo concettuale ed etico. Il pluralismo postmoderno è l’humus nel quale cresce e si sviluppa il modo di pensare e vivere dei giovani di oggi. Un pluralismo, non da ultimo, sempre più connotato e per certi versi corroborato dalla condizione multiculturale che pervade e invade le esistenze delle attuali generazioni. La condizione postmoderna è quella di una realtà personale e sociale in continua (e infinita) costruzione. Quanto alla dimensione etica, essa è accettata e accolta dalla maggioranza dei nostri contemporanei tra l’altro, non certo per l’asserzione di principi universali che sono di gran lunga messi fuori gioco dall’intersecarsi di diversi sistemi di pensiero, sostenuti anche dalle scienze sociali, ma semmai per la sua valenza estetica che pur nella frammentazione della morale resta quasi l’unico punto comune tra i diveri approcci etici. Si tratta di un’etica della forma, del bello, che però è priva di contenuto [4] e non si riferisce più ad una natura precisa. Lo «stile» diventa il valore; la vita dell’uomo consiste nel realizzarsi nell’universo superficiale del «modo». Un’estetica che occupa – nell’etica postmoderna – lo spazio lasciato aperto dalla metafisica, essendo la stessa ridotta ad una somma di metafore. Per sopravvivere al nichilismo, al relativismo, all’evidente e successiva mancanza di speranza e buio esistenziale, l’uomo postmoderno, secondo il filosofo francese Lyotard, deve modellare la vita secondo il piacere estetico e la ricerca di uno stile.

    Il cristianesimo e la postmodernità

    Preso atto di questo contesto è necessario tentare di entrarvi in dialogo con una proposta cristiana che parli e riparli di fascino, splendore e bellezza, introducendo quel riferimento alla verità che il pensiero debole, relativista e pluralista, sostanzialmente rifiuta. Non si tratta in ciò di «inventare» qualcosa di nuovo, ma semmai di riprendere e approfondire quanto la Parola di Dio e la tradizione già hanno trasmesso, rileggendoli alla luce dei tempi. Si tratta di una proposta che non può permettersi di scindere la ricerca religiosa da quella etica, il senso della vita dal comandamento, seguendo lo stesso approccio contenuto nell’insegnamento di Giovanni Paolo II nella Veritatis Splendor e nel brano dell’incontro tra Gesù e il giovane ricco (Mt 19,16-21) che fa da sfondo al primo capitolo dell’enciclica stessa.

    Cristo, verità che risplende e bene che attrae

    Come ha osservato lo stesso teologo Livio Melina, commentando la Veritatis Splendor, l’etica è nata dall’estetica, cioè dall’aver colto la bellezza di Cristo che ci provoca all’amore.[5]
    L’enciclica Veritatis Splendor – e il titolo stesso lo sottolinea – parla di «Splendore della Verità»: «dobbiamo, prima di tutto, mostrare l’affascinante splendore di quella verità che è Gesù Cristo stesso» (VS 83, cf Gv 14,6).
    Nel primo capitolo dell’enciclica, costruito attorno all’incontro tra Gesù e il giovane «ricco» (Mt 19,16-21) che è la prima delle icone bibliche del nostro Progetto diocesano di pastorale giovanile, si afferma che «la luce del volto di Dio splende in tutta la sua bellezza sul volto di Gesù Cristo» (cf VS 2). La Parola di Dio, citata sempre nel documento magisteriale, ricorda che Cristo è immagine del Dio, invisibile (cf Col 1,15), splendore della sua gloria (cf Eb 1,3), pieno di grazia e verità (cf Gv 1,14). Non facciamo fatica a ritrovare queste espressioni paoline nella teologia dei Padri, in primo luogo in Ireneo. Questa teologia dell’immagine è quella, in fondo, che sta dietro ad una proposta che vuole unire la dimensione estetica a quella etica, la religiosa a quella morale. In una sua opera, molti anni prima dell’Enciclica, il teologo tedesco Bernard Häring, riprendendo il pensiero di San Tommaso, aveva analizzato il significato «cristiano» della bellezza, anzitutto nel rapporto con Dio, individuato dall’autore tedesco nella categoria biblica della «Gloria»: La «Bellezza è uno dei nomi divini». Dio è visto come la fonte della bellezza, lo splendore senza limiti (cf 1 Gv 1,5). La Bellezza è partecipata nelle cose create e in sommo grado tale bellezza risiede nella Gloria divina, nell’amore trinitario e in quel Dio che è il «Padre della gloria» (Ef 1,17). Questa «gloria» condivisa dal Padre al Figlio, fa di quest’ultimo «l’irraggiamento della sua gloria e l’immagine della sua sostanza» (Eb 1,3). Per questo Cristo è la bellezza, in quanto Figlio incarnato, immagine visibile del creatore di ogni bellezza. Una bellezza dunque che risiede in Dio ed è da Egli stesso partecipata all’uomo.[6]
    Il filo conduttore costituito dalla proposta di Häring di una morale della bellezza che è morale della gloria, si riallaccia al teologo svizzero von Balthasar che osserva il legame neotestamentario tra charis, bellezza e grazia: «Charis significa incontro del bello e quindi anche grazia».[7] Nel mondo, pertanto, ciò che appare come bello possiede una dimensione di chiamata alla decisione morale.
    Per il teologo svizzero questo dato conduce inevitabilmente anche alla dimensione religiosa, la quale possiede e include la risposta definitiva alla domanda su Dio e la risposta stessa che l’uomo dà alla domanda che Dio gli pone.[8] Temi che rivediamo nella brillante esposizione dell’incontro tra Gesù e il giovane così come viene descritta nella Veritatis Splendor, laddove domanda religiosa e domanda etica coincidono.
    Come Balthasar, anche Häring vede l’attenzione al bello che si offre in ciò che permette all’uomo di avvertire il bene nel suo fascino e nel suo carattere di dono che genera gratitudine.[9]

    La bellezza della verità e il fascino del bene nelle proposte della PG

    Abbiamo avuto alcuni assaggi tratti da uno sguardo all’Enciclica Veritatis Splendor e alla Parola di Dio che evidenziano la naturale dimensione estetica della domanda etica e la naturale dimensione iconica della natura umana. Si tratta di un’approccio estetico «teologico», cioè costituito da termini, espressioni e modalità proprie della teologia. La stessa antropologia contiene tratti definibili esteticamente e così la morale ad essa legata. Quali piste pastorali possiamo dunque evidenziare da questi accenni della presenza di un’estetica teologica interna al messaggio della Veritatis Splendor e al capitolo matteano che ne fa da filo conduttore?
    Senza voler essere esaustivi, ma proponendo alcune esperienze già in atto, indichiamo:
    – La via dello stupore, la via della meraviglia, la via della bellezza e dell’armonia sono le valide proposte pastorali che prendono avvio da questo cammino. La via che trasforma la domanda del giovane da ricerca di significato in stupore si accende davanti all’incontro con Cristo, cioè davanti al darsi di qualcosa o qualcuno che affascina (vuoi per lo stile di vita che conduce, vuoi per una particolare coerenza esistenziale). Per questo dobbiamo insistere sulla «qualità» più che sulla quantità degli incontri pastorali. Curare la proposta affinché l’incontro avvenga e accenda il desiderio nel giovane a compiere passi ulteriori nei quali la crescita spirituale accompagni progressivamente anche un cammino etico.
    – La via della contemplazione del volto di Cristo (come indica la Novo Millennio Ineunte) è anch’essa via estetica da percorrere. Ed è una via che attraversa la storia dei santi e dei martiri, di coloro che nella vita hanno concesso allo splendore della Verità e del Bene di irradiarsi dalle loro esistenze. La teologia dell’immagine è la teologia della santità e dei santi, modelli di vita che i nostri giovani, in un tempo oscuro e dai tratti tristi e imprecisi, sono chiamati a riscoprire per affermare che credere oggi è possibile ed è bello.
    – In un tempo in cui la vita umana nei suoi inizi e nelle fasi terminali è minacciata anche dalle stesse legislazioni vigenti o in fase di studio, urge ricuperare il valore della dignità umana partendo proprio dalla dimensione della bellezza e dello stupore davanti ad essa. All’approccio scientifico va affiancato quello contemplativo. Non possiamo inoltre mai dimenticare il valore accertato dello stupore nel campo della conoscenza scientifica10, testimonianza anche della sua validità epistemologica.
    – L’adorazione eucaristica, fonte del rapporto personale con Cristo è uno dei punti del percorso. Esso si iscrive proprio nel binomio comunione-missione su cui si appoggia l’ecclesiologia post- conciliare. Le nostre esperienze decennali di adorazione eucaristica con i giovani (soprattutto ai ritiri spitiuali) è sempre stata molto fruttuosa.
    – La relazione tra fede e arte può essere una strada per incontrare attraverso le opere belle dell’uomo la bellezza portata dal cristianesimo tra gli uomini di tutti i tempi. Essa può avere come ambiti privilegiati la pastorale del pellegrinaggio, quella dello sport e del rapporto con la natura, ovunque mezzi e luoghi consentano all’uomo di lasciarsi vincere dallo stupore, premessa ad ogni atto di fede.
    – La carità, volto concreto dell’amore, di un amore che affascina (pensiamo alla figura di Madre Teresa di Calcutta). Occorre educare i giovani in rapporto con esperienze concrete di carità (dunque stabili e non sporadiche, vissute comunque educando a capirle nel loro rapporto con la trascendenza).
    – I santi, sul cui volto «risplende» la luce di Cristo vanno ripresentati e riproposti ai giovani di oggi, così bisognosi di incontrarsi con modelli affascintanti (Vs 88; cf 1 Gv 1,7 e Mt 5,14-16).
    – La «forma» degli incontri pastorali, dei raduni, dei ritiri deve essere curata per permettere alle nuove generazioni, sensibili allo spirito estetico, di partecipare ad esperienze belle ma anche ricche di senso, dove incontrare una «verità» che si accoglie con più efficacia nella misura in cui si lavora sulla forma in cui viene presentata.
    – Un cammino vocazionale (a tutte le vocazioni) va iscritto nella prospettiva di un’etica del dono.

    Conclusione

    Questo ampio quadro sulla pastorale giovanile nella Chiesa in Svizzera e sulla pastorale giovanile in generale ci ha permesso di incontrare la situazione variegata e differenziata della Chiesa cattolica in terra elvetica, il contributo di Giovanni Paolo II con la sua visita avvenuta nel 2004, lo sguardo rivolto al futuro di una pastorale giovanile della Svizzera italiana tesa tra nuove proposte pastorali e passi già riscontrabili nella sua recente storia. La parte finale con il tema della bellezza dischiude ad una nuova possibilità che costituisce per la stessa PG un oggetto di riflessione da approfondire, anche se già presente in alcune esperienze e in qualche tratto del progetto diocesano. Con l’avvento di papa Benedetto XVI questo tema assume nuova rilevanza.


    LA DANZA SACRA: VIA SPIRITUALE CHE IRRADIA BELLEZZA

    Marco Dania

    Spesso la vita di fede è stata concepita con l’osservanza di alcuni obblighi, mentre è dono dello Spirito, rappresentato biblicamente con immagini vive: fuoco, acqua, vento, dono che gratuitamente si riceve e solo gratuitamente si offre. La Chiesa, attraverso l’arte, può rendere non solo percepibile, ma anche affascinante il mondo dell’invisibile. La bellezza, infatti, come sostiene Giovanni Paolo II, «è richiamo al trascendente. È invito a gustare la vita e a sognare il futuro. Per questo la bellezza delle cose create non può appagare, e suscita quell’arcana nostalgia di Dio che un innamorato del bello come sant’Agostino ha saputo interpretare con accenti ineguagliabili: ‘Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato!’».
    Nell’ambito di questa ricerca del Bello con la «B» maiuscola, nel tentativo di rendere in qualche modo visibile la realtà futura del paradiso, la sua armonia e la sua gioia, anche la danza sacra riveste un ruolo determinante, come autentica forma di trasfigurazione dell’uomo, come apertura al trascendente, come proposta di preghiera contemplativa.
    La danza sacra cristiana ha radici molto antiche ed è riconducibile alla danza sacra ebraica, che pur non essendo codificata era un’espressione libera e spontanea di tutto il popolo. Con la danza gli ebrei accompagnavano i momenti più importanti della loro vita ed era piuttosto naturale che la utilizzassero nelle manifestazioni di lode.
    L’episodio biblico più importante per la comprensione della danza sacra ebraica e di quella cristiana, per via dell’uso chiaramente religioso e di lode che ne viene fatto, è quello riguardante la danza del re Davide. Un passo del secondo libro di Samuele ci presenta Davide che, mentre sta trasferendo l’arca dell’alleanza alla sua città natale, è preso da una gran gioia per il Signore e si mette a danzare (cf 2 Sam 6,14-15).
    Alle origini della nostra cultura, nel mondo ebraico, dunque, la danza era utilizzata come mezzo per esprimere la lode al Signore. Nel corso dei secoli l’autorità della Chiesa si è preoccupata che le forme di danza sacra esistenti non degenerassero e ne ha impedito la diffusione. Di recente, a seguito della riforma liturgica operata col Vaticano II, a poco a poco, la liturgia si è arricchita di forme gestuali, soprattutto in quei continenti come in Africa e in Asia, dove la danza sacra è sempre stata praticata.
    Da allora, anche in Europa sono in atto diverse sperimentazioni, fra le quali merita particolare attenzione la danza meditativa, ideata da Gazelle all’interno della comunità dell’Arca di Lanza del Vasto, e realizzata su canto gregoriano, perché risulta essere particolarmente coerente con la spiritualità e la cultura europee.

    Da oltre 20 anni sono in contatto con Gazelle, ho studiato l’argomento, e ho conseguito il dottorato in teologia con una tesi sulla danza sacra pubblicata presso l’università del Laterano. Nel 1997 ho costituito nella nostra diocesi un gruppo (Schola coreutica san Lorenzo) che svolge un servizio di animazione spirituale e liturgica nell’ambito della pastorale giovanile. L’iniziativa è nata in occasione della giornata mondiale della gioventù di Parigi; da allora ho creato circa una ventina di danze sacre rappresentate in varie circostanze, fra le quali: nel 2000 alla GMG di Roma, durante una delle diverse Messe organizzate per gruppi linguistici prima dell’incontro di Tor Vergata e, di recente 2004, a Berna, di fronte al Santo Padre Giovanni Paolo II, in occasione del primo incontro nazionale dei giovani cattolici svizzeri.
    La nostra proposta si ispira a quella di Gazelle e ne conserva la stessa dignità, ma le danze sono realizzate su musica usuale e non su canto gregoriano. Sono, perciò, meno complesse di quelle di Gazelle, ma lo stile è il medesimo, molto sobrio ed estremamente interiore. Il linguaggio gestuale è piuttosto semplice, basato sulla combinazione armonica di alcuni gesti universali di preghiera e sulla rappresentazione mimica stilizzata del testo sacro, proposto dal canto. Non si ricorre a nessun artificio, ma ci si lascia guidare dalla melodia e soprattutto dal testo. Chi danza non esprime tanto se stesso, quanto piuttosto cerca di imprimere su di sé il testo sacro e, sotto l’azione dello Spirito, è invitato ad essere un’icona vivente della Parola e ad abbandonarsi con fiducia nel Signore che, teneramente, plasma la sua vita. La danza sacra, quindi, non è assolutamente uno spettacolo, ma una disciplina spirituale, un mezzo per trasfigurare se stessi, e rendere visibile la gioia e la pace che vengono dal Signore.
    In questi anni, circa una ventina di ragazze hanno fatto parte del nostro gruppo: ciò ha consentito loro di crescere umanamente e spiritualmente e di lodare Dio con tutto il proprio essere.
    Tantissime persone di tutte le età, inoltre, sono rimaste edificate assistendo a questa forma di preghiera, e hanno avuto l’opportunità, come dice Sant’Ambrogio, di danzare anch’esse con lo spirito.

     
    NOTE

    [1] Cf Balthasar, H.U., Gloria I, Jaca Book, Milano, 1975, p. 11.

    [2] Il teologo e vescovo italiano considera la postmodernità come il tempo in cui, da un lato si rifiutano le ideologie cercando una verità che non sia astratta, ma neppure violenta e forte, bensì umile come la verità dell’amore, dall’altro lato in questa epoca di vuoto, di mancanza di orizzonti, si è alla ricerca di una visione unitaria che dia senso, ragione, vita. C’è dunque un profondo bisogno di un Tutto e al contempo una necessità di affermare il valore del frammento. Forte, riferendosi a H. U. von Balthasar, vede questo «Tutto nel frammento» nella bellezza (cf Forte, B., «Bellezza splendore del vero», in Cristianesimo e Bellezza tra oriente e occidente, Ed. Paoline, Milano, 2002, pp. 53-71, qui 57).

    [3] Cf Forte, B., «Bellezza splendore del vero», Ibid., p. 58.

    [4] Lyotard, J.F., Moralités postmodernes, Paris, 1993.

    [5] Cf Melina, L. Sharing in Christ’s Virtues, for a renewal of Moral Theology in Light of Veritatis Splendor, The Catholic Univ. Press of America, Washington, 2001, p. 9.

    [6] Per riferire succintamente il rapporto bellezza-gloria nell’Aquinate, riportiamo quanto segue:»la gloria sta ad indicare una certa chiarezza (claritatem quandam significat); infatti a detta di Agostino, «essere glorificato» equivale ad «essere chiarificato». Ora la chiarezza include la bellezza e manifestazione

    ­(decorem et manifestationem). Quindi il termine gloria implica la manifestazione di qualche cosa che gli uomini considerano bellezza (decorum videtur), sia essa di ordine materiale o di ordine spirituale. E poiché le cose che sono di una chiarezza assoluta possono essere percepite da molti e di lontano, col termine gloria si vuol indicare il fatto che il bene di una persona incontra la conoscenza e l’approvazione di molti» (S.T. II-II, q. 132, a. 1, citato da: MONDIN, B., «Gloria», Dizionario Enciclopedico del pensiero di S. Tommaso, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1991, pp. 290-291).

    [7] Balthasar, H.U., Gloria 1, p. 25 (cf Haering, B., Liberi e fedeli in Cristo II, Op. cit., p. 137).

    [8] Cf Balthasar, H.U., Ibid., p. 25.

    [9] Questo aspetto che lega la bellezza al moralmente buono è biblico e giudaico. Nella LXX l’uso di «kalos» e «kalon» è sinonimo di «agatos», secondo la traduzione ebraica di «tob», come ad esempio per i testi della creazione (cf Gen 1,4.12.18.21.25). Così nel NT incontriamo i «kaloi karpoi» (cf Mt 3,10) oppure i «kala erga» (cf Mt 5,16) a cui Gesù invita affinché gli uomini «vedano le vostre buone opere e diano gloria al Padre vostro che è nei cieli». Tali opere sono poi descritte quali opere di carità (cf Mt 25,35-45), come ci rende attenti Grundmann, avendo già nell’Antico Testamento come modello il tipo e il modo di agire di Dio (cf Gen 3,22ss) (Cf Grundmann, W., kalos, Grande lessico del Nuovo Testamento V, Paideia, Brescia, 1966, pp. 5-47, qui pp. 32-34).


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