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    Sul consumo, tra oggetti e vita di scarto



    Educare all’intercultura /4

    Per una pedagogia che educhi alle cose

    Roberto Radice

    (NPG 2008-04-53)


    «Nel frattempo gli oggetti erano andati al potere. La loro prima vittoria era stata il superamento del concetto di utilità. Piano piano avevano occupato anche gli spazi più nascosti delle nostre case e da lì ci spiavano. Nessuno se n’era accorto all’inizio, anzi la loro silenziosa presenza sembrava piacevole e confortante, era difficile intuirne il senso sovversivo. Dopo anni di schiavitù gli oggetti tentavano la strada del dominio…» (Giorgio Gaber)

    Nel corso della nostra esistenza entriamo in contatto con molteplici alterità, con differenziate diversità. L’interculturalità è una dimensione che l’essere umano trova prima di tutto in se stesso. Si pensi alle età della vita e ai rispettivi cicli biologici che si attraversano lungo questo nostro incedere creaturale: infanzia, giovinezza, età adulta e vecchiaia. Se queste età ci chiamano, a ogni passaggio intra-relazionale, a un rapporto comunque nuovo e inedito con noi stessi, il nostro essere inter-relazionali trova la sua proiezione in tutte le vite e nei volti che incrociamo, anche per fugaci istanti; in ogni luogo presso il quale transitiamo o che visitiamo. Noi siamo sempre in relazione, noi siamo in ogni istante relazionati ad Altro: ci è chiesto di guardare il mondo e al mondo con lo sguardo dell’Altro. Questo canale relazionale per potersi definire e contraddistinguere come una buona pratica interculturale dovrebbe essere biunivoco, ovvero avere un’andata e un ritorno per me e per l’alterità fuori di me. Tra le tante dimensioni che l’interculturalità contempla vogliamo però metterne in risalto una ineliminabile e che molto spesso sfugge a ogni consapevolezza: il rapporto che intratteniamo con gli oggetti e gli strumenti di uso quotidiano.
    In questa epoca che possiamo denominare, senza alcun indugio o timore di essere travisati, di capitalismo monopolistico – cioè di accumulazione del capitale in mano di pochi, quasi sempre grandi imprese multinazionali – è sempre più incontenibile e incalcolabile la proliferazione di oggetti, di strumenti, di cose. «La tecnica è per eccellenza innovazione e perciò novità. Il consumare e il distruggere diventano allora, la conditio sine qua non del produrre».[1] Nell’era delle comunicazioni istantanee tramite il world wide web o cellulare, dei trasporti e dei viaggi ad alta velocità, del «tutto e subito» soggiacente alle pratiche del consumo superfluo, dei pasti senza sosta ai centri commerciali, dell’usa e getta con cui tanto gli oggetti materiali quanto i rapporti umani vengono relegati a ingombranti scarti per altrettante invadenti dis-cariche, della sempre più incombente minaccia nucleare che attanaglia le Nazioni, è doveroso uno sguardo critico nei confronti di questi oggetti che ogni giorno contornano il nostro vivere.
    Gli oggetti educano tramite con-formazioni abitudinarie – ma non consapevoli –, che si insinuano nel corpo, nel linguaggio, nel comportamento e nel pensiero dei bambini, delle donne e degli uomini della società contemporanea.
    È nostra convinzione che questa società della tecnica globalizzata sia molto distante da tutto ciò che si può intendere come interculturale, perché non fa altro che produrre e riprodurre un modello unico e uniformante. Mentre tutto scorre ad altissima velocità, troppi passeggeri stanno perdendo la locomotiva del cosiddetto sviluppo, inteso nell’accezione data da Pier Paolo Pasolini, ovvero come potere che produce beni superflui.[2]
    Responsabilità di una pedagogia interculturale divengono allora anche quelle di indagare i limiti pedagogici della crescita industriale e di scandagliare, antropologicamente, le origini degli odierni stili di vita per scorgerne le tracce passate e storiche al fine, magari, di scoprire che non sempre è stato così e che forse, nell’ottica di una pedagogia che educhi a r-esistere e di una educazione come relazione conviviale con l’alterità, può anche non essere necessariamente così.

    Esseri di bisogno

    Il primo passo, per non demonizzare la realtà e non semplificare gli oggetti che ne fanno parte, è quello di riconoscere il nostro essere ontologicamente bisognosi. La vita, in quanto bisognosa, per potersi mantenere e per soddisfare la propria dipendenza deve rivolgersi ineluttabilmente all’esterno, quindi l’acquisizione di materia è essenzialmente apertura e incontro con la realtà esterna. In tale esperienza di apertura della vita nei confronti del mondo si ri-produce un costante incontro: «l’aver-mondo, dunque la trascendenza della vita, in cui questa va necessariamente oltre se stessa e amplia il suo essere in direzione di un orizzonte, è già dato tendenzialmente con il suo organico esser-bisognosa di materia».[3] Il nostro essere passa inevitabilmente dall’aver fame – quindi dal cibo; dalla necessità di vestirci – dall’abbigliamento; dal voler incontrare e comunicare – dal telefono e dai mezzi di trasporto.
    Il bisogno cerca Altro, ci dispone alla comunicazione con la realtà materiale fuori di noi, e il tempo creatosi diviene quello del futuro prossimo ritmato dall’imminenza e urgenza interiore.
    Difficile percepire in tutta la sua ampiezza e ricchezza questa nostra apertura al bisogno: dopo un pasto abbiamo ingerito molte più delle calorie che ci necessitano, i vestiti colmano gli armadi, cellulare, internet, treni ad alta velocità e aerei coprono distanze in un batter d’occhio – almeno così vogliono farci credere –. Siamo saturi ma continuiamo ad ingerire come «polli d’allevamento», come già profeticamente ebbe a dire Giorgio Gaber nell’anno 1978. Abbagliante quanto disarmante e salutare è per il sottoscritto l’esperienza ogni volta che vivo per qualche tempo in terra africana: alzarsi da tavola con un leggero senso di fame, non perché non si è mangiato a sufficienza ma perché i cibi sono meno calorici; il dover portare con sé pochi vestiti e farseli bastare; il saper attendere con pazienza africana i tempi dell’incontro con l’altro perché il cellulare non ha segnale, internet non è a portata di mano e i mezzi di trasporto sono lenti; ma più di ogni altra cosa perché per l’Altro c’è sempre tempo sia nell’attesa che nella condivisione.
    Se l’uomo è per sua natura bisognoso, il bisogno della società del consumo è una creazione sociale sconosciuta in epoche passate.

    La creazione sociale del bisogno

    La nascita del concetto di sottosviluppo risale al 10 gennaio 1949, giorno in cui il presidente degli Stati Uniti, Truman, nel suo «Programma dei quattro punti» definì come regioni sottosviluppate la maggior parte del mondo. Con la nascita della parola sottosviluppo, come ogni parola avvolta da variegate connotazioni, nasce anche la concezione secondo la quale tutti i popoli della terra devono seguire un’unica via, un pensiero unico e perseguire un unico scopo universale: lo sviluppo. Parola che recentemente è stata anche camuffata, in modo da nascondere i più impliciti interessi economici, dietro l’arrogante principio dell’esportazione della democrazia.
    Uno sviluppo che ha perseguito e persegue unicamente i bisogni di quella parte del mondo già eccessivamente opulenta, poiché abitata dall’Homo oeconomicus, che vive consumando merci prodotte altrove da altri, non ha fatto altro che promuovere una crescente onnimercificazione e una definizione del bisogno come uno stato di privazione, una deficienza che si può individuare nell’Altro per mezzo di esperti specializzati. «Ricorrere ai bisogni per definire la condizione umana è ormai diventato un assioma: l’essere umano viene così concepito come animale bisognoso. Conseguenza ultima della metamorfosi delle culture in economia, dei beni in valori, è lo sradicamento del sé individuale. Sembra quindi naturale definire la persona a partire da deficienze astratte anziché per la peculiarità del contesto».[4] Questa percezione dell’essere umano come soggetto bisognoso genera una alienazione reciproca: chi già ha molto, ha bisogno di avere sempre di più; invece chi ha troppo poco o niente necessita di assistenza ed è etichettato come miserabile, poveraccio, straniero, affamato. Il sistema industriale-assistenzialista dei bisogni media «la nostra responsabilità per l’altro, ma è proprio questo che ci esime dalla responsabilità verso di lui».[5]
    Finché aprendo il rubinetto l’acqua sgorgherà limpida e senza limitazione alcuna non capiremo che cosa rappresentano, per il nostro corpo, i bisogni primari di bere e lavarsi; anche in questo caso è forse solo provando a sperimentare la pochezza dell’oro blu che comprenderemmo quanto la mia responsabilità per l’Altro e il suo diritto all’acqua passa anche da una mia limitazione e da un uso razionale di questo prezioso liquido. Quanta sapienza ritrovo nelle donne keniane nel vedere i loro gesti rapidi ed essenziali nel lavare indumenti e piatti con il minimo di acqua indispensabile, affinché rimanga sempre un po’ di acqua per coloro che ne avranno bisogno successivamente.
    Questa avida imposizione dei nostri bisogni all’Altro sta trasformando le culture in economia, e tale economicismo imperante anestetizza a livello socio-relazionale proprio coloro che sembrano apparentemente godere di tutte le possibilità. Un degrado che però sta coinvolgendo anche le culture tradizionali, l’ambiente di uso comune e rende insostenibili e impraticabili certi modi di procurarsi da vivere. Degrado che – concordiamo con Ivan Illich – è possibile definire con il termine disvalore, infatti il prefisso dis indica sempre un’anomalia.
    La diffusione globale dello stile di vita moderno ha inserito il soddisfacimento dei bisogni all’interno dell’economia monetaria, quindi nella possibilità di avere sempre più denaro, ma «non solo la promessa dell’uguaglianza umana, ma anche quella di un’uguale probabilità di sopravvivenza suona oggi vuota. Su scala mondiale è ovvio che la crescita ha concentrato i benefici economici, svalorizzando simultaneamente persone e luoghi, in modo tale che la sopravvivenza è divenuta impossibile al di fuori dell’economia monetaria. Più persone sono oggi miserabili e impotenti che mai in passato. Inoltre, i privilegi accessibili solo grazie a un reddito elevato consistono sempre più nella possibilità di fuga dal disvalore che tocca le vite di tutti».[6]
    La svalorizzazione di persone e luoghi ha messo in moto «quantità enormi e sempre più crescenti di esseri umani, privati dei loro modi e mezzi, finora sufficienti, di sopravvivenza nel senso sia biologico, sia socio-culturale della parola».[7] La classificazione degli individui avviene in base agli oggetti che possono acquistare, consumare e scartare.
    Si potrebbe rileggere il fenomeno della globalizzazione proprio come un processo economico-politico e sociale che genera scarti e rifiuti. Il concetto e la realtà del rifiuto non fanno parte del corso naturale della storia umana, bensì hanno fatto la loro comparsa soltanto nel 1830. Il capitalismo necessità di formazioni sociali non-capitalistiche come cornice per il proprio sostentamento poiché l’accumulazione di capitale cresce divorando queste ultime formazioni sociali: non si può parlare di Povertà senza parlare di Opulenza, infatti ogni opzione in più di scelta per l’Occidente è una Povertà in più per i Paesi Impoveriti. La Povertà nel mondo riguarda una persona su tre, e le migliaia di baraccopoli che stanno proliferando in tutte le megalopoli del Pianeta non sono altro che il luogo dove segregare, rinchiudere e nascondere esseri umani impossibilitati del diritto alla propria sopravvivenza: un luogo dove sta gente in esubero, un immondezzaio dove buttare il passivo più irritante e costoso della società dei consumatori, ovvero i consumatori difettosi. La gente degli slums è costretta ad assumere una topologia mentale di autodegrado, autosvalutazione, autorifiuto.
    I bisogni indotti della società dell’economia monetaria sono dei capricci da soddisfare sempre e subito, costi quel che costi, ma essendo bisogni edonistici e puramente di consumo superfluo creano comunque disvalore nelle relazioni umani e sociali: non c’è mai tempo per l’altro, i valori sono valori solo nella misura in cui sono idonei a un consumo istantaneo e ogni esperienza è momentanea – lavoro precario, relazioni transitorie. Siamo clienti e merci intercambiabili a seconda dell’uso/consumo e quindi sempre sospesi nell’incertezza del divenire vittime collaterali.
    «Il ritmo vertiginoso del cambiamento valorizza tutto ciò che potrebbe essere desiderabile e desiderato oggi, contrassegnandolo fin dall’inizio come lo scarto di domani, mentre il timore di essere scartati che trasuda dall’esperienza del ritmo vorticoso del cambiamento induce i desideri a essere più avidi, e il cambiamento stesso a essere più rapidamente desiderato».[8] Consumo che in quanto nuova idolatria sopprime fortemente anche la spiritualità intrinseca del nostro vivere.

    La mercificazione della vita

    Questa società di oggetti consumati non può essere altro che una società dell’eccesso e dello sperpero, realtà peraltro evidente in un dato statistico che dovrebbe far riflettere: nel corso dell’anno 2006 i rifiuti urbani prodotti dal nostro Paese sono stati nell’ordine di 32,5 milioni di tonnellate, con un aumento dal 2000 al 2006 di oltre 3,5 milioni di tonnellate. Ogni abitante produce in media ogni anno 550 chilogrammi di rifiuti (dati APAT, Rapporto Rifiuti 2007). È sempre più urgente un intervento concreto che vada ad agire sulla progettazione dei prodotti, sui cicli di produzione e sulla produzione di consumi sostenibili. La raccolta differenziata da sola non basterà ad evitare di essere sommersi dalle cose che scartiamo e buttiamo.
    Tale mercificazione dei processi della vita diviene esplicita anche nell’analisi del linguaggio e della terminologia utilizzata: i lavoratori non sono più chiamati tali, bensì «risorse umane», cosificazione atroce e alienante della ricchezza irriducibile insita in ogni persona. Il famoso detto «il tempo è denaro» è stato assunto e manipolato dalla società dello sviluppo incondizionato poiché il tempo ora viene quantificato in base al denaro che se ne può trarre; mentre il «tempo è denaro» significa che il tempo è prezioso solo se vissuto e donato nella relazione. Una nota marca di telefonia mobile raggira l’acquirente attraverso lo slogan «tutto gira intorno a te», ma questo ingannevole sistema tolemaico mette al centro l’oggetto intorno al quale il consumatore gira senza sosta: «il consumismo – in contrasto con la promessa dichiarata (e ampiamente accreditata) degli spot – non riguarda il soddisfacimento dei desideri, ma l’evocazione di un numero sempre maggiore di desideri».[9] Oltre all’adulto, le attività di marketing vengono rivolte direttamente ai bambini affinché essi assumano il prima possibile il ruolo di consumatori informati: loro stessi divengono i decisori delle scelte che riguardano la loro crescita, la loro educazione e di tutti gli altri oggetti che in quel momento vanno e di altre cose che invece sono già superate. L’habitat del mercato mette sotto assedio da subito l’infanzia: «i bisogni senza fissa dimora e liberamente fluttuanti vengono imbrigliati dai ‘grandi marchi’ e la fedeltà al marchio si sostituisce ai legami umani nel plasmare le aspettative e capacità di vita dei consumatori del futuro».[10]

    Una relazione conviviale con gli oggetti

    In quanto uomini abbiamo bisogni di strumenti e di oggetti. Ma la logica che soggiace all’uso consumistico delle cose e al monopolio radicale del consumo obbligatorio ha trasformato gli oggetti in padroni e carnefici dell’uomo: il telefono in sé non è il male, anzi, ma è l’uso e l’abuso che sono indotto a fare del telefonino che può essere male. «Una società che definisce il bene comune come il soddisfacimento massimo del maggior numero di individui mediante il maggior consumo di prodotti e servizi industriali, logicamente arriva a imporre il consumo e mutila in modo intollerabile l’autonomia della persona».[11]
    È essenziale tornare a marcare le soglie – concetto così caro alla pedagogia – della sopravvivenza, dell’equità e della autonomia creatrice perché si ritrovi una relazione conviviale con gli oggetti: «nella misura in cui io padroneggio lo strumento, conferisco al mondo un mio significato; nella misura in cui lo strumento mi domina, è la sua struttura che mi plasma e informa la rappresentazione che io ho di me stesso».[12]
    Utile al fine di un buon utilizzo degli oggetti può risultare la distinzione tra oggetto maneggiabile e oggetto manipolabile: mentre il primo conduce l’energia metabolica che ognuno di noi possiede – è il caso della bicicletta –, il secondo può servire a potenziare l’energia umana – come ad esempio l’automobile. Gli impoveriti sono ancora più Impoveriti perché privati addirittura della loro energia metabolica – non mangiando adeguatamente non riesco nemmeno a usare l’aratro. Quando l’oggetto manipolabile supera le soglie suddette, rischia di cambiare sembianze e diventare distruttivo. Una società interculturale e conviviale non deve bandire telefoni, televisori, internet, automobili, ma deve sapere trovare un equilibrio multidimensionale «fra gli strumenti che producono una domanda per creare e soddisfare la quale sono stati concepiti, e gli strumenti che invece stimolano l’invenzione e l’adempimento personali».[13]
    Pedagogicamente dobbiamo saper lavorare, senza mai sostituirci all’Altro, per educare a un uso sostenibile, se non a volte, a una limitazione volontaria del consumo e dell’utilizzo degli oggetti e degli strumenti per liberarci dall’asservimento dei prodotti ed essere persone e non consumatori-utenti. Ma responsabilità pedagogica non declinabile è anche incominciare già un tempo che non è ancora, e provare a mettere in questione la struttura di base del capitalismo monopolistico.
    Il senso è nell’Altro che viaggia in questo mondo accanto a me, non in chi conduce a tutta velocità la locomotiva dello sviluppo «perché non c’è una fine, non c’è un termine. Il Desiderio dell’assolutamente Altro non verrà a spegnersi, come il bisogno, nella felicità».[14]

    NOTE

    [1] Salvatore Natoli, Stare al mondo. Escursioni nel tempo presente, Feltrinelli, Milano 2002, p. 67.

    [2] Per approfondimenti: Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti Editore, Milano 2004.

    [3] Hans Jonas, Dio è un matematico? Sul senso del metabolismo, Il Melangolo, Genova 1995, p. 47.

    [4] Ivan Illich, Nello specchio del passato, Boroli Editore, Milano 2005, p. 43.

    [5] Ibid.

    [6] Ivi, p. 81-82.

    [7] Zygmunt Bauman, Vite di scarto, Editori Laterza, Bari 2005, p. 10.

    [8] Ivi, p. 135.

    [9] Zygmunt Bauman, Vita liquida, Editori Laterza, Bari 2006, p. 99.

    [10] Ivi, p. 129.

    [11] Ivan Illich, La convivialità, Borli Editore, Milano 2005, p.31.

    [12] Ivi, p. 43.

    [13] Ivi, p. 47.

    [14] Emmanuel Lévinas, L’umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova 1998, p. 39.


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