Pastorale Giovanile

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    Per un incontro autentico: la via della bellezza, la via dei riti


    Domenico Cravero

    (NPG 2008-04-23)


    Colui che fa battere il cuore

    I media, di cui le nuove generazioni sono plasmate, non vanno intesi tanto come mezzi nuovi ed efficaci per l’annuncio della fede, ma devono essere considerati per quello che sono: «medium», intense esperienze emotive dove comunicatori e uditori sono intrecciati in un unicum. Nell’annuncio del Vangelo non è sufficiente utilizzare i linguaggi dei giovani, occorre diventare medium di comunicazione, realizzare una comun-unione con l’«uditorio», diventare una cosa sola con i giovani, praticanti e non praticanti, simpatizzanti e contrari.
    La missione della «buona notizia» deve pensare in termini di legami, di feeling, di comunione, di simpatia.
    Ecco un’efficace definizione dell’evangelizzazione in mezzo ai giovani: «farsi tanti amici e invitarli alla festa delle nozze» (cf Mt 22, 1-14).
    Il kerigma è la trasmissione di questa esperienza.
    Nella società mediatica è cambiato il modo stesso di intendere le parole: comunicare è sempre più trasmettere delle emozioni in un contesto ad effetto. La comunicazione riuscita è considerata come uno scambio di vibrazioni. Diventano importanti i linguaggi che producono effetti, che creano atmosfera: il suono della voce, il linguaggio delle immagini e delle parabole, dei lumi e delle luci, della musica e dei canti, la qualità del suono, le forme e i colori, i ritmi e i gesti. Una fede troppo basata sull’insegnamento non può più essere proposta, se non diventa esperienza, anche emotiva, con tutti i rischi che questo comporta.
    Questo vale anche per i giovani che già frequentano le comunità. Come i loro coetanei, essi vivono momenti di disorientamento o di crisi religiosa, spesso non trovano il nesso tra gli insegnamenti ricevuti nella catechesi e la risposta da dare alle domande che li inquietano; a volte non sembrano avere neppure i parametri per capire l’importanza di ciò che è ritenuto indispensabile ad un’autentica vita cristiana (ad esempio la centralità dell’eucaristia domenicale). Fanno fatica ad orientare le scelte e i significati profondi della loro esistenza alla fede che professano.
    Questa nuova sensibilità, il primato dell’espressione di sé sulla riflessione e sul pensiero è però una sfida da raccogliere, per poter dare della fede un’immagine che conservi tutto l’incanto della bellezza e della verità, in una forma accessibile a tutti, anche ai semplici e ai poveri.
    Nell’attuale stagione storica i giovani sono particolarmente sensibili alla presentazione del Vangelo come manifestazione della vera bellezza.
    La missione in mezzo ai giovani è dunque anche questione di stile. Il profilo, la qualità e l’eleganza della forma non sono secondarie. Non sarebbe consona alla sua natura di segno, se l’opera della evangelizzazione se contenesse solo discorsi e idee, gesti e azioni, se mancasse della cura della forma.
    La pastorale giovanile coordina diverse attività e risorse: l’animazione, la musica, gli spettacoli, il gioco, le riunioni… utilizza locali, campi da gioco, teatri… Essendo aspetti «secondari», dovendo cioè essere segno che rimanda a qualcosa di più grande, devono essere «perfetti». Quanto si riferisce al Vangelo dovrebbe essere «senza difetti».
    Non deve accadere di rendere ridicolo il Vangelo con la scarsa qualità di quanto lo circonda.

    Come una stupenda cattedrale

    La dimensione pubblica dell’evangelizzazione non è immaginata secondo i canoni mondani del consenso. È intesa, invece, secondo la teologia della presenza cristiana nel mondo. È come contemplare una bella basilica cristiana. La cattedrale è costruita sulla piazza sotto lo sguardo di tutti. Non s’impone, non costringe, crea una scena che fa piacere vedere; non è un baraccone, non è un grattacielo, è una chiesa.
    È costruita per essere bella. Qualcuno, soffermandosi, si domanderà: «Se è così bella fuori, come sarà dentro?». E scoprirà che, dentro, non è più questione di forme e di colori. Dentro c’è la presenza di una Persona. Lo splendore e l’incanto della facciata è solo un segno: non si fissa il dito che indica la luna, si guarda la luna...
    Persuade il sostare a guardare, qualche cosa che ha stile ed eleganza. Non basta lasciarsi andare all’entusiasmo: l’ispirazione selvaggia o l’impeto del momento non diventano di per sé stile, non lasciano l’eco interiore di ciò che è giusto e bello, buono e degno. Lo Spirito è forza d’intelletto, è principio di sapienza: si diventa missionari attraverso il rigore del pensiero e della parola, lo scrupolo della razionalità e del senso critico.
    La forza dell’ispirazione cristiana non si combina con la mediocrità e la banalità, ma richiede l’ambizione e l’orgoglio della precisione, del lavoro ben fatto, del discernimento: non tutto ciò che si presenta come religioso è genuino, non tutto ciò che si dice spirituale è cristiano. Testimonianza dei giovani cristiani è la magnanimità (forma affascinante dell’eroismo cristiano) che è l’esatto opposto della volgarità e della piattezza delle false trasgressioni: una grandezza dell’anima che rende puro e lucido l’occhio e lo fa capace di discernere ciò che vale e di vedere in ogni cosa bella una traccia della Grazia che libera e salva. Deve passare l’idea di un lungo lavoro su se stessi, della frequentazione assidua e organica dei professionisti della comunicazione, della formazione, dell’attitudine ad intendere la qualità spirituale delle persone e delle cose.
    Nella «società liquida» che si è costruita non esiste più un discorso dominante, valido per tutti: ogni idea che pretende di essere universale si scontra inevitabilmente con una pluralità di prospettive, in un «gioco linguistico» parziale e complementare.
    I linguaggi più adatti per coltivare il desiderio di Dio non sembrano più i concetti astratti e neppure il richiamo al dovere, ma le esperienze di incontro, di autenticità, di generosità, esperienze che danno senso e lasciare spazio al Mistero.
    Rimane la domanda essenziale e urgente: se la bellezza è un darsi del tutto nel frammento, come dal frammento arrivare al Tutto? Come si accende il desiderio di Dio? Cosa apre il soddisfacimento immediato dei bisogni alla dinamica infinita del desiderio?

    I riti: bellezza e interiorità ¬emozionale per dire il vero

    La forma normale e più efficace per l’annuncio del Vangelo è la comunicazione a tu per tu, il rendere ragione, nell’incontro e nel dialogo, dei motivi della propria speranza, il racconto di un’esperienza singolare che ha trasformato la vita, la testimonianza di un percorso di fede che continua.
    Il tempo dedicato alla relazione personale è più importante di qualsiasi altra attività.
    La testimonianza personale ha però bisogno di un contesto particolare che faccia sorgere le domande, che stimoli l’interesse, che crei comunione. L’annuncio del Vangelo, poi, presuppone una precisa esperienza umana, quella religiosa. Gesù non è un grande del passato, un sapiente o un filosofo, è il Signore, il Figlio di Dio.
    Non si può parlare del Vangelo senza nominare Dio e per dire Dio non sono sufficienti le parole, ci vogliono i simboli, i gesti e i riti capaci di esprimere compiutamente la Verità della fede e di stimolare e intercettare le attese più profonde dei partecipanti.
    Non si può, dunque, parlare del Vangelo senza produrre simboli e riti.

    Incanto e disincanto

    I riti non sono semplici atti di parola, sono testi più ricchi e complessi in cui s’intrecciano narrazioni, metafore, simboli e valori. Sono testi espressi con i gesti e la modulazione del corpo, dove l’interiorità emozionale partecipa con il suo particolare modo di condensare il tempo e di ricostruire lo spazio. Le parole che si pronunciano diventano così performative, capaci cioè di dare forma e rigenerare la percezione della realtà; parole rese essenziali e misurate, che non solo dicono ma compiono ciò che affermano.
    Le ritualità sono, quindi, un potente laboratorio dove si producono allegorie per ridare incanto al mondo e viverlo come abitato da Dio. Sono anche il veicolo di esperienze umane fondamentali: nelle ritualità gli individui fondano i loro legami e costruiscono la comunità, i partecipanti definiscono le loro identità e la loro differenza, creano nuove norme e ne dissolvono altre, raccontano una storia su se stessi e a loro stessi. Sperimentano una potenza emozionale senza precedenti, in uno stato idealizzato d’umanità e in una comunità di eguali.
    Ad un’osservazione attenta alla vita degli adolescenti la descrizione delle ritualità corrisponde, in un certo senso, a quanto essi indicano con un termine sintetico di «divertimento», e cercano di attuare nella loro socializzazione soprattutto notturna, lontano dal controllo degli adulti.
    Ci si dovrebbe quindi aspettare dagli adolescenti una naturale predisposizione alla ritualità, dal momento che l’espressione del corpo raggiunge il loro il vertice della spontaneità (il corpo comunicativo, «aperto») e la massima energia. Nelle ritualità religiose avviene, invece, per lo più l’opposto: l’estraneità e l’imbarazzo.
    La ritualità umana, infatti, per diventare rito religioso richiede una vera iniziazione e un efficace sostegno della cultura dell’ambiente umano.
    Appartiene alla crisi delle ritualità religiose sia la diminuzione dell’adesione di fede, sia la deriva individualistica della devozione «fai da te». Si osservano fatti evidenti: quanto meno si riesce ad entrare con partecipazione e convinzione nella liturgia della Chiesa, tanto più si sviluppa la religiosità popolare o esplode il sacro selvaggio; quanto più va in crisi il rito religioso tanto più prosperano e si sviluppano le ritualità commerciali. La perdita di controllo delle religiosità emozionali, magiche e miracolistiche, il proliferare dei surrogati religiosi commerciali sono la controprova dell’esistenza di problemi irrisolti a proposito dei riti.
    Le pratiche simboliche, infatti, possono anche fallire e arrecare danno. In questo caso si produce un disincanto del mondo, si diventa incapaci di produrre simboli, di generare significati, come condannati a vivere nell’età dell’artificio, un mondo di rappresentazioni standardizzate, manipolate, mediate. Il disincanto non deve essere interpretato come perdita di sensibilità o di valori e meno ancora come prova che la complessità della società significhi necessariamente relativismo. Indica, piuttosto, una pratica culturale non convincente, una performance simbolica fallita. Una vera delusione per gli adolescenti.

    I riti al tempo dell’individualismo

    È in atto nella società una profonda trasformazione delle ritualità. La vita comunitaria che un tempo era molto articolata e conosceva un fitto repertorio di usanze, costumi, feste e appuntamenti, oggi si è come frantumata e impoverita, nell’individualismo vincente e nella crisi dei legami familiari e amicali. I riti sociali diventano spesso monotoni e ripetitivi, standardizzati. Lo scambio degli auguri o l’uso sociale dei regali e dei doni si sono commercializzati, perdendo molto del loro significato di gratuità, imprevedibilità e misura. Si sono molto allentate le regole che imponevano il consumo dei pasti insieme e alla stessa ora e si sono drasticamente ridotti di numero i pasti di tutta la famiglia unita. Il pasto rituale è in declino a tutto vantaggio del pasto «industriale», dove il valore del cibo e del gusto ha altri criteri. I rituali e le cerimonie sociali nei grandi eventi della vita (nascita, morte, matrimoni) sono finiti nel controllo del mercato che li ha standardizzati e uniformati. Solo ai bambini è permessa la spontaneità, per il resto prevalgono le formalità, agisce il controllo sociale. I campi da gioco sono un grande contenitore di ritualità collettive, dove si scatenano e si compongono emozioni, sentimenti, simboli. Entrato nel vortice della commercializzazione, lo sport diventa spettacolo individualistico, dove la competizione si scatena come aggressività diventando, negli stadi, un pericolo costante.
    I riti non possono in alcun modo essere cancellati dall’esperienza umana; possono, invece, subire un radicale stravolgimento, una regressione selvaggia, come avviene spesso nelle discoteche per gli adolescenti o nei campi sportivi degli adulti e nei supermercati delle famiglie. Nel vivere sociale è possibile, infatti, osservare un paradosso: da una parte si abbandonano o si detestano i riti, dall’altra s’inventano continuamente nuove forme di ritualità. Le ritualità continuano ad esistere: ogni volta che si vuole produrre un’intensificazione energica del vivere o liberare forti emozioni collettive si costruiscono cerimoniali e ritualità. Dopo un periodo di svalorizzazione del rito, si assiste, oggi, ad una certa riscoperta e riconoscimento della ritualità. Come immaginare, infatti, una convivenza umana senza riti? Le ritualità hanno accesso alle regioni più nascoste del mondo interiore. Il rito rende accessibile l’invisibile e l’indimostrabile, colma la distanza che separa gli individui, allontanandoli dalla loro interiorità emozionale e dai legami vitali. È come vincere con l’immaginazione, l’arte e la religione ciò che con la scienza continuamente fallisce; recuperare con l’estetica quello che si è perduto nel disorientamento dei costumi.
    Le attuali ritualità sociali sono, piuttosto, lo specchio di cosa diventano i riti al tempo dell’individualismo. Stadi, discoteche, palestre, supermercati ritualizzano il consumo, lo regolamentano e lo promuovono attraverso cerimoniali che ricordano spesso quelli religiosi. Gli sport sono vissuti da masse di persone come nuovi grandi riti sociali. Concerti, meeting, spettacoli di massa producono un’effervescenza sociale ritualizzata. L’identificazione con gli atleti o con i divi dello spettacolo esercita un fascino e un’attrazione capaci di stimolare, per moltitudini di persone (non solo adolescenti), una passione che sostituisce l’interesse e la partecipazione alle grandi questioni della collettività e del suo futuro, al punto che la salvezza personale per alcuni consiste nell’assomigliare a loro. La moda, la danza, gli spettacoli di massa, che sono forme rituali, hanno un crescente successo, pari al valore che le società avanzate attribuiscono ai prodotti emozionali, alle espressioni ludiche, all’effervescenza della socialità. Ognuna di queste manifestazione vede la partecipazione degli adolescenti massiccia, attiva e convinta.
    Nonostante il condizionamento commerciale invasivo, la domanda di ritualità vera e sana è, però, in costante aumento. Cresce, per esempio, l’importanza degli anniversari. Non c’è oggi amicizia che non si accompagni ad un suo rituale. Si accolgono gli amici, si fanno regali, ci si ritrova in piazza, secondo copioni semplici ma precisi. Si ama la proprietà nel comportamento e nel vestire, per presentarsi più accettabili e dignitosi. Si riconosce che non giova mangiare abbondantemente ma sano. Si accettano diete e controlli, campagne contro il fumo, rinunce ai superalcolici e a quanto nuoce alla salute. Avviene una modifica lenta del modo di pensare se stessi, una domanda di qualità anche delle ritualità umane. In questi ambiti gli adolescenti sono sempre più attivi, in base alle nuove sensibilità (per esempio al valore della salute) che l’evoluzione sociale stimola in loro.

    La complessa costruzione dei riti

    Alla ritualità riuscita (umana o religiosa) contribuiscono diversi fattori: i testi e il ritmo del rito o della celebrazione, gli attori (l’animatore, il celebrante), i partecipanti (spettatori, osservatori, uditori), i simboli (segni, oggetti materiali, forme e colori, abiti e paramenti), lo scenario in cui essa si compie.
    Il rito è tanto più convincente e performativo quanto meglio gli elementi sono combinati e armonizzati. In questo caso i testi (come quelli sacri della liturgia) hanno piena attinenza alla vita, le ritualità esprimono direttamente la verità dei testi simbolici e sono collegati alla realtà sociale, la partecipazione è attiva, attori e spettatori si fondono in un unico e vibrano all’unisono. Nelle performance ritualizzate le credenze sono percepite come personali, vere e immediate. I ruoli simbolici che attivano la partecipazione emergono direttamente, senza mediazioni. Attorno al rito si costruisce un’intera comunità, come avviene, per esempio, nel pasto rituale. Gli spettatori non si limitano a guardare ma partecipano, acclamano, cantano, gridano, piangono... I riti non si limitano a simbolizzare una relazione ad auspicare un cambiamento ma lo attualizzano, hanno un effetto diretto senza mediazione. I riti riusciti non sono mai innocui, per questo possono incutere paura, essere osteggiati dal potere (i riti cristiani sono stati proibiti per secoli) o esposti al ridicolo per neutralizzarne la forza.
    Nelle società più semplici testi e rituali sono naturalmente intrecciati e la religione coincide con la cultura. Nella complessità moderna, con la frammentazione dei cittadini, e i sottosistemi multipli e autoreferenziali che ne derivano, con il pluralismo anche etico che le accompagna, gli elementi delle performance rituali si scombinano, producendo processi incompleti. La ritualità non scompare ma si nasconde nel dilagare dei suoi surrogati.
    Discoteche e stadi, supermercati e centri fitness, pub e bistrot si presentano come grandi templi del divertimento e dell’eccitazione collettiva, ma non riescono comporre gli elementi della ritualità in un tutto coerente. I partecipanti sono ancora resi omogenei, ma il distacco dei significati e dei testi dalla massa degli attori è evidente: l’epopea raccontata dal vocalist è virtuale, i «vip» (attori, campioni, artisti) si distinguono nettamente dalla massa, il divertimento è separato dalla vita (il tempo di loisir è vissuto come evasione), l’apparenza di intero, che rende l’azione simbolica rituale, diventa artificio e pianificazione (si svolgono eventi tecnologici o emozionali più che relazionali). L’azione performativa diventa mediatica, simulata, controllata, artificiosa, nel trionfo della razionalità strumentale (come nei mondi Macdonald).
    È la performance che diventa culto e non il rito che si fa performativo.
    Le ritualità commerciali sono un succedaneo dei riti, non la loro continuazione in forma nuova. Sono un surrogato dei riti religiosi, possono provvisoriamente riempirne il vuoto ma non sostituirli. La «funzione» svolta, infatti, è la stessa del rituale sacro: produrre un’identificazione psicologica forte, stabilire una connessione emozionale con l’audience (il receptionist, l’animatore), costruire una certa relazione tra attore e testo (per opera del dj e vocalist), creare le condizioni per diffondere significati culturali (fidelizzare l’utenza), generare miti per simulare l’effervescenza collettiva di cui l’individualismo è rimasta orfana. Del tutto diverso è però il risultato.
    Il successo delle performance della ritualità simulata dipende dall’abilità degli attori nel convincere i partecipanti circa la verità della performance, nel trasformare la veracità in affidabilità, con tutte le ambiguità che ciò comporta. L’efficacia rituale esige sempre, infatti, che attori e osservatori condividano la validità del contenuto della comunicazione simbolica e accettino l’autenticità dell’intenzione dell’altro.

    I riti religiosi nel mondo secolarizzato

    La complessità sociale rende difficile oggi collegare i testi alla vita. Anche in gruppi omogenei le performance possono apparire vere per alcuni, inautentiche per altri.
    In epoca di diffusa secolarizzazione, nella complessità culturale e nelle contraddizioni tipiche della società pluralista, l’integrazione dei gruppi e della collettività avviene ancora attraverso comunicazioni simboliche. Le performance sociali devono, però, tendere ad armonizzare gli elementi che le costituiscono per diventare efficaci: solo attraverso processi integrativi si crea il senso dell’identità condivisa (così funziona la socializzazione degli adolescenti quando l’indipendenza è cercata nella fusione del gruppo). Le credenze mantengono, quindi, la loro centralità ma assumono un ruolo nuovo. La società complessa e tecnologica non produce solo disincanto, ma inventa costantemente anche performance simboliche. Il processo di razionalizzazione non è mai completamente realizzato. Le società più razionalizzate, infatti, sono anche quelle più alla ricerca d’incanto e di mistica. Ne è un segno il vasto ritorno al linguaggio del mito (un esempio per tutti è il successo multimediale di Harry Potter che affascina non solo i bambini ma anche gli adolescenti!). Sotto questa potente spinta culturale il discorso religioso tende oggi a codificarsi sull’espressività delle emozioni e dei sentimenti, sul linguaggio simbolico evocativo piuttosto che su quello logico, percepito troppo contiguo alla tecnologia imperante che riempie e ossessiona la vita.
    Si avverte il bisogno di esperienze liberanti, di emozioni sacre per dare un nuovo respiro alla vita. L’accusa che gli adolescenti rivolgono alle celebrazioni liturgiche non è, infatti, che esse siano alienanti ma che non tocchino il cuore (e il corpo) e non diano emozioni, che siano noiose. Il mito, invece, intercetta il sentimento e dischiude nuove dimensioni della realtà (una vera modificazione dello stato mentale).
    Neppure Gesù utilizzava il linguaggio logico per parlare di Dio, ricorreva piuttosto alle parabole e alle metafore («non parlava loro che in parabole») e lo faceva in modo efficace, non solo con il linguaggio ma anche con i fatti. Era una parola che toccava anche il corpo fino a trasformarlo.
    La bellezza e l’emozione per parlare di Dio, non sono tuttavia esenti da rischiose ambiguità. Da sole restano un’esperienza rappresentativa che, diversamente dalla Parola della Rivelazione, non suscitano un appello, non chiedono un’adesione della vita concreta, si limitano ad una suggestione estetizzante. Gesù invece parlava di Dio come di uno che chiama e interpella: un appello decisivo e urgente che stabilisce una differenza nella vita e nella qualità del tempo: «cambia la tua vita e credi al Vangelo, adesso è il tempo» (Mc 1,15).
    La ritualità performativa (che compone tutte le dimensioni del rito) sostiene proprio questo difficile passaggio che il linguaggio cristiano chiama conversione e intende come sacrificio.

    I riti della fede

    Per resistere al dominio del mercato (che è il vero problema della degenerazione dell’adolescenza), per orientare eticamente le scelte della vita, per superare la diffidenza e imparare a stare insieme, per rinsaldare i legami e contrastare l’individualismo indifferente di oggi, le ideologie e gli inviti morali sono insufficienti: servono i riti, i riti della fede. Nella ritualità, infatti, si radicano simboli, dai simboli nascono i significati: le verità e i valori per contrastare la crisi dei legami interpersonali della società evanescente. Le ritualità non si limitano a celebrare, di volta in volta, uno specifico evento o ad attualizzare qualche simbologia. Confermano il senso che si attribuisce alla vita, l’ordine che rende abitabile il mondo. Costituiscono, quindi, i modelli della fiducia di base. Insegnano ad agire in maniera ordinata per vivere il mondo come un tutto dotato di un senso.
    I riti religiosi generano la speranza (non soltanto la organizzano!).
    La tendenza ad abbandonare i riti o a stravolgerli emotivamente è naturalmente amplificata dalla scarsa cura della celebrazione, che, di fatto, manca di investire le esperienze della quotidianità. La liturgia, celebrata come si deve, apre, invece, la speranza a reali alternative al primato economico dell’utile, produce il riscatto e la critica del tempo della prestazione, sostiene la fede nelle promesse di Dio e nei beni escatologici (quelli che riguardano il futuro e fondano l’amore).
    Il discorso su Dio, terreno indispensabile per introdurre l’incontro con il Signore Gesù, ha bisogno di una polifonia di linguaggi e di metodologie: la forma narrativa, innanzitutto, per parlare del Vangelo in relazione a racconti importanti della vita, la profezia come interpretazione del senso degli eventi e delle condizioni della società, le esigenze etiche come conseguenze degli eventi raccontati, le domande sul senso e non senso della vita, la ricerca della felicità…
    La vita quotidiana cui deve fare riferimento la proposta dell’evangelizzazione è, però, definita dalla cultura del tempo, dalle sue sensibilità e contraddizioni. Per realizzare il loro obiettivo di testimonianza e di annuncio, gli eventi di evangelizzazione rivolti agli adolescenti nelle loro aggregazioni spontanee, devono diventare anche performance culturali che i partecipanti vivono come affidabili e autentiche. Performance culturale è il processo sociale in cui degli «attori» (nell’evangelizzazione i missionari) dispiegano per gli altri i significati della loro vita (nell’evangelizzazione l’esistenza che cambia in conseguenza all’incontro con Gesù, la missione) e costituisce un ambiente umano opportuno sia per l’evangelizzazione prima, sia nella cura della fede (i sacramenti) poi.
    La celebrazione dei sacramenti presuppone sempre la fede. La liturgia è fonte e culmine della vita cristiana ma non può sostituire il kerigma, altrimenti rischia di diventare pura ricerca emozionale. Teatro, poesia, produzione musicale, danza, immagine, multimedialità sono espressioni creative che, liberando le persone dalla materialità del consumismo superficiale, si prestano a rivelare la Bellezza e l’Amore. Performance che evangelizza è quella che non ricerca (anzi schiva) la ribalta dell’immagine e della gratificazione individuale ma, nella competenza artistica e nella fedeltà all’Evangelo, punta al cuore delle persone in un incontro che comprende anche la parola, ma comunica soprattutto attraverso il linguaggio estetico ed emozionale. Garanzia indispensabile per la riuscita della performance pubblica è la capacità di mettersi sulla lunghezza d’onda degli adolescenti, comunicando con la loro corporeità, accogliendo i loro gusti, intercettando la loro domanda di religiosità al di fuori degli schemi già preconfezionati per orientarla all’incontro con il Vangelo. L’autenticità consiste in una relazione in cui le persone agiscono senza artificio o secondi fini, senza manipolazione, né suggestione, né plagio, ma spontaneamente. Nella società della comunicazione mediata una proposta è considerata vera non tanto quando è razionale e motivata, quanto piuttosto se riesce a produrre un effetto di fusione per «l’audience», quando si crea un flusso emozionale dove simboli e referenti diventano uno. Nella frantumazione dei legami e nell’insicurezza affettiva dell’individualismo, questo tipo di performance produce una comunione di massa che supera la frammentazione e fa sentire vive le persone. Le esperienze di flusso (musica, spettacolo, animazione, drammatizzazione delle testimonianze di vita, ma anche sport, gare, meeting, sagre…) sono una specie di ricovero temporaneo dei processi rituali di cui la società tecnologica è divenuta sempre più incapace.
    L’evangelizzazione è la proclamazione della morte e risurrezione di Gesù, fatta sotto l’azione dello Spirito Santo. Non è quindi una «predica» e neppure una conversazione ma un evento. Incontra le persone (gli adolescenti) le tocca e le riguarda, le interpella e le convince solo se (per quanto possa il contributo umano all’opera dello Spirito) diventa una «performance culturale» che apre la strada alla ritualità religiosa (che richiede in ogni caso un’iniziazione specifica). Non va dimenticato che nell’esperienza sorgiva della Chiesa, il giorno di Pentecoste, lo Spirito ha operato all’interno di una performance culturale di grande effetto.
    Nell’evangelizzazione riuscita il messaggio diventa azione, il Vangelo si fa cultura in una rappresentazione collettiva dove ognuno si sente «nativo» nella lingua e nella cultura dell’altro. È nell’azione performativa che si supera la frattura tra il vangelo e la cultura, tra la fede e la vita, tra la verità e la veracità, tra l’autenticità e l’imitazione.
    A cosa mira tutto questo dispiegamento di pensiero, di energie, di creatività per non perdere alcuna delle incredibili occasioni che i tempi nuovi offrono e per continuare a proporre in ogni modo il Vangelo, «in ogni occasione opportuna e non opportuna» (2Tm 4,2)?
    Ad un solo obiettivo: che appaia chiaramente che Gesù è stato un capolavoro di vita umana, ha amato l’amore, la vita, la felicità. È stato pienamente «libero, indipendente e felice».
    Oggi si è interessati a Gesù solo se si riesce a percepire che la sua vita è stata bella. Ci vuole qualcuno che racconti che aver incontrato lui è stato proprio «una bella storia».
    E che sia credibile.

    (Il dossier è una sintesi di un testo più ampio che è in preparazione)
    Ho approfondito questi temi, in particolare, in: Corpi allo specchio, EDB Bologna, 2006; Ragazzi che ce la fanno, Effatà, Cantalupa, 2006; Una speranza per i genitori: le ritualità che rigenerano l’amore e che costruiscono la comunità delle famiglie, Effatà, Cantalupa, 2007


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