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    L’altro così vicino: diversità rinnegate e nascoste



    Educare all’intercultura /3

    Per una pedagogia dell’appartenenza

    Roberto Radice

    (NPG 2008-03-63)

    «Uomini,
    uomini del mio presente
    non mi consola l’abitudine
    a questa mia forzata solitudine,
    io non pretendo il mondo intero,
    vorrei soltanto un luogo, un posto più sincero,
    dove un bel un giorno, magari molto presto,
    io finalmente possa dire: questo è il mio posto.
    Dove rinasca non so come e quando
    il senso di uno sforzo collettivo per ritrovare il mondo».
    (Giorgio Gaber)

    «Canzone dell’appartenenza» è il titolo di questa canzone di Gaber. Il continuo richiamo alla diversità, alla differenza, all’alterità non deve essere l’unico centro gravitazionale attorno al quale ruotano le pratiche pedagogiche interculturali. Ogni singolo essere umano, in questo nostro comune quanto solitario condividere le vicende terrene, è comunque e sempre alla ricerca di un luogo, di un senso di appartenenza.
    In termini matematici si definisce la proprietà dell’appartenenza di un elemento α ad un insieme X la relazione che si stabilisce se α è compreso tra gli elementi di X. Se l’elemento a appartiene all’insieme X si scrive α ∈X, in caso contrario α ∈/X.

    Appartenenza è

    Il linguaggio matematico ci permette di evidenziare le condizioni essenziali affinché si possa parlare di appartenenza: l’elemento, nonostante abbia delle particolarità singolari, ne ha alcune che condivide con altri elementi dell’insieme e che di conseguenza gli permettono di fare parte di quest’ultimo. Appartenenza significa prima di tutto avere consapevolezza della propria identità, dell’io partendo dal quale trova fondamento la socialità culturale: «appartenere a sé».
    Questa caratterizzazione individuale e personale, che non bisogna mai rinnegare ma riconoscere e valorizzare, è preliminare alla dimensione sociale dell’appartenenza: «bisogna educare a essere se stessi. […] Ma per essere se stessi occorre accogliere a braccia aperte la propria ombra. Che è ciò che rifiutiamo di noi. Quella parte oscura che quando qualcuno la sfiora, ci fa sentire “punti nel vivo”. Perché l’ombra è viva e vuole essere accolta».[1] Solo se un individuo ha raggiunto un buon livello di autostima può essere parte di un gruppo – e più in generale di una collettività – in maniera sana e autentica per se stesso e per gli altri individui.
    Qui subentra il concetto che fa essere, che concretizza pienamente l’appartenenza e che ritroviamo in matematica come in pedagogia, sociologia e antropologia: la relazione.
    La relazione che si realizza con gli altri soggetti e l’ambiente che costituiscono la comunità di riferimento.
    In seconda istanza quindi appartenenza significa «sentirsi parte di», «essere parte di».
    È solo in questo modo che l’io può compiere un processo di sublimazione, che lo porta a essere Altro da sé, a crescere con e per l’Altro, a conoscersi e a conoscere.
    Qui si apre lo spazio all’identità per una meta-riflessione, ovvero per una riflessione seconda sulla propria identità che possa poi ritornare alla comunità a cui appartiene in maniera rinnovata e arricchente: conoscendo la mia storia, la mia cultura che si intrecciano alla conoscenza della storia e della cultura dell’Altro creo le condizioni di possibilità per comprendere il dissimile e così facendo si dischiudono limpidi spiragli di apertura e di confronto con l’Altro.
    Ovviamente è superfluo ma fondamentale affermare che intendiamo le nozioni di «io», «identità» e «appartenenza» lontano da ogni più sottile interpretazione xenofoba, intollerante, discriminante e da ogni assurda ed eventuale giustificazione razzista.
    Più le idee sono esistenzialmente profonde, più sono ambigue e si prestano a diverse e contraddittorie interpretazioni, ma sono questi i transiti inevitabili dai quali non può esimersi di essere attraversata una pedagogia interculturale che voglia lavorare affinché prenda forma la «convivialità delle differenze».

    Far parte o essere esclusi

    La matematica, come indicato in precedenza, esprime simbolicamente la possibilità di appartenere o non appartenere. Anche la nostra società, il nostro vivere sociale fra altri esseri umani ha le sue forme simboliche ed espressive per apporre etichette su coloro che fanno parte di e coloro che non fanno parte di. Stiamo parlando dei diritti negati e dei doveri non rispettati: infatti la condizione esclusiva affinché una persona sia considerata tale e possa vivere un’esistenza dignitosa è il riconoscimento di una condizione giuridico-politica che ne difenda e ne rispetti la sacralità ontologica (intendiamo il termine «sacro» così come lo pensa la concezione ebraica: «fare una siepe attorno a qualcosa», ovvero proteggere e custodire).
    Nella nostra società umanistica e razionale molto spesso queste etichette di spersonalizzazione sono latenti, sfuggenti e agiscono attraverso i discorsi riduzionisti, gli spazi irraggiungibili, i consumi voraci, gli sguardi taglienti, la vetrina della televisione e il mondo incantato della pubblicità. Si trova un Altro da sé per sentirsi potenti, capaci, riconosciuti. Non è altro che la banalità del male: la perdita completa della concezione del male che si può arrecare anche tramite la violenza delle belle maniere, del rendere le persone sole e trasparenti – come se non fossero al mondo.
    Queste dinamiche sono di complessa lettura e ardua codificazione, però, come la sociologia ci insegna, «se qualcuno ritiene che un fatto sia vero questo lo diventerà nelle sue conseguenze»: se qualcuno crede che quella persona debba essere esclusa e non ha diritti, quella persona alla fine molto presumibilmente sarà estromessa e non avrà realmente diritti. Noi scorgiamo gli effetti evidenti di tale neutralizzazione, che rende le persone invisibili, sui loro corpi e sul loro vivere quotidiano.
    «Le attenzioni verso una persona si basano su una reciprocità almeno esteriore o formale, ma in ogni caso simmetrica, orizzontale. L’infantilizzazione riservata a certe categorie di persone è indizio sicuro del fatto che le stiamo trattando come non-persone o almeno come sub-persone. La persona dunque, in quanto pelle sociale e culturale, non è un attributo fisso o invariabile, e tanto meno un universale antropologico, ma una variabile della condizione sociale, provvista oltretutto di una storia specifica. […] Dietro le vicende in apparenza lineari e rassicuranti della persona, si cela la costante possibilità per gli esseri umani di scivolare nella condizione di non-persone».[2]
    Chi decide però chi appartiene e chi non appartiene a un determinato corpo sociale? Perché se molti appartengono a una compagine, a un gruppo, a un entità riconosciuta molti altri non appartengono: sono non-persone, persone definite per sottrazione.
    Non-persone come mi raccontano sentirsi e viversi Agostino, Salvatore e Gora. Con loro ho condiviso molte ore delle mie giornate, momenti intensi, appassionati, gioiosi e dolorosi – spesso anche carichi di tensione – nella ricerca di un cammino che sia diverso, alternativo a quello seguito finora nella loro storia di vita. Li incontro in un tranquillo sabato pomeriggio invernale, quando le attività comunitarie si fermano e i ragazzi hanno del tempo libero da dedicare al riposo e allo svago. Agostino, Salvatore e Gora sono quelli che vengono chiamati «tossicodipendenti». Se è indubbiamente vero che una parte sostanziale della loro esistenza è stata o è caratterizzata dall’uso di droghe e da un vivere tossico, ciò non è sufficiente per ridurre il loro essere al solo ruolo di «tossici», la loro identità di uomini e persone al loro problema. Il primo compito di ogni educatore dovrebbe essere quello di intra-vedere prima la persona e non agglomerare quest’ultima nel suo problema o nella sua condizione vincolante. Guardare alla persona, provare a guardare il mondo con i suoi occhi per cercare una riduzione, un superamento, un miglioramento delle situazioni soggettive, oggettive e strutturali che fanno di questa persona un diverso, un escluso, un etichetta. Ma tutto deve sempre partire dalla persona, dal vincolo e dalla possibilità che ogni esistenza racchiude in sé: solo partendo da un’esperienza umana e antropologica, che sappia tenere unite la dimensione teoretica e quella pragmatica, è attuabile un lavoro educativo ordinato per immaginare scenari nuovi qui e ora.
    Se essere diagnosticati tossicodipendenti da un lato comporta spazi di aiuto concreto – come cure mediche gratuite e soggiorni riabilitativi presso comunità terapeutiche – dall’altro lato dobbiamo porre attenzione ogni qual volta, nonostante i cambiamenti effettivi della persona e la sua autentica volontà di impegno, questo «segno particolare» si atrofizza e diviene l’unica statica fotografia che si persiste a riconoscere nell’incontro con queste persone.
    Ci sono due giustificazioni per lasciar solidificare l’impronta del tossico su di una persona: riconoscerlo come consumatore di droghe e quindi parte attiva e redditizia del mercato dell’illegalità – e il nostro tipo di società ti riconosce solo se consumi – oppure assimilarlo a vita di scarto, a rifiuto umano e quindi eccedenza da tenere confinata. Non vogliamo qui analizzare il problema e la cultura della droga, bensì porre sotto la lente d’ingrandimento della riflessione educativa ciò che un ragazzo tossicodipendente sperimenta nel momento in cui tenta di rimettere piede nella società.
    Assumendosi consapevolmente la responsabilità delle proprie scelte passate senza cercare rifugio in stratagemmi sbrigativi del tipo «è colpa della società» e con tanti rimpianti per quello che si sarebbe potuto fare di meglio è si è scelto di non fare, dai pensieri dei tre ragazzi emerge quanto ora la diversità sia vissuta come una seconda pelle che fa male, che non ti appartiene; quanto sia arduo ritrovare il contatto autentico con gli altri. Ci si sente isolati.
    Agostino racconta che tutte le volte in cui entra in un’agenzia di lavoro temporaneo in cerca di una proposta lavorativa, lo sforzo leale di non nascondere il suo passato carcerario e tossicomane lo pone immediatamente in una posizione di scarto. Tale rinnegamento indebolisce ogni minimo tentativo di ricerca di una «vita normale» e abbatte le speranze già provate da tanti anni di «vita da strada».
    Salvatore dice di sentirsi addosso questo essere vita di scarto, il non riconoscimento e il misconoscimento dell’imperativo dettato dagli altri: «tu sei diverso» e «i diversi devono stare con i loro simili».
    Gora, nato nella terra africana del Senegal ma da molti anni in Italia come lavoratore regolare, non comprende perché proprio ora che vede un esito positivo nella sua storia da tossicodipendente gli hanno comunicato, con una sentenza di tribunale, che è «socialmente pericoloso» e «non è desiderato sul suolo italiano». Un grido sento emergere, dalle ferite che sono divenute feritoie, all’unisono dai loro racconti, un grido che chiede inesorabilmente di «non guardare a quello che siamo stati ma di guardare a quello che siamo in questo passaggio della nostra storia».

    Guardare dentro l’Altro

    Colgo in questa ultima frase un basilare principio di prassi educativa: attuare quella fatica pedagogica di guardare dentro all’Altro – non per diagnosticarlo in maniera violenta, scovarne anfratti privati, nudi e divenire padrone della sua anima – ma per intrecciare le reciproche esistenze, comprendere la marginalità e trasformarla in tipicità. Poiché è realistico pensare che «tu solo puoi farcela ma non puoi farcela da solo», è la logica della reciprocità, con l’attenzione alle rispettive posizioni di educando ed educatore, che «il capire «come l’altro ci ha visto» ci pone nella condizione di migliorare noi stessi e la nostra gestualità. […] L’altro/a viene sottratto dalla banalità e diventa protagonista di un film che ha come unico scopo restituirgli una parte di sé, filtrata dallo sguardo di un altro/a, e per aiutarlo infine a porsi nella difficile ricerca della propria irripetibile, rassicurante normalità».[3]
    Ognuno di noi – come Agostino, Salvatore e Gora – teme l’abbandono, l’essere respinto, escluso, segregato. Temiamo che ci venga rifiutato di essere ciò che desideriamo essere. Per fare in modo che ciò non avvenga, perché forse quando un/a ragazzo/a si sente abbandonato/a o magari imbocca la strada senza uscita della droga è già troppo tardi, è importante creare una vicinanza tra il senso del vivere e un’educazione che dia senso al vivere. «La difficoltà nasce dal fatto che l’altro è la differenza e che esistere significa essere differenti. Ora, l’altro con la sua differenza è sempre qualcuno che ci provoca, ci ferisce, scatenando in noi sentimenti che portano a tentativi più o meno espliciti ed efficaci di marginalità».[4] Una pedagogia dell’appartenenza chiede a tutti noi di avere più coraggio nel cercare, in uno sforzo collettivo, di dare colore e sembianze a quel luogo in questo nostro mondo dove ognuno possa trovare un posto che sente appartenergli, dove nessuno sia più estraneo all’altro e dove infine diritti e doveri siano dolci perché realmente universali.

    NOTE

    [1] Umberto Galimberti, L’ospite inquietante. I giovani e il nichilismo, Feltrinelli, Milano 2007, p. 54.

    [2] Alessandro Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 2004, p: 214.

    [3] Raffaele Mantegazza, Manuale di pedagogia interculturale. Tracce, pratiche e politiche per l’educazione alla differenza, Franco Angeli, Milano 2006, p. 180.

    [4] Enzo Bianchi, AIDS. Vivere e morire in comunione, Ed. Qiqajon, Magnano 1997, p. 19.


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