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    Virtù, dalla parte della persona /1


    Le virtù /2

    Paolo Carlotti

    (NPG 2008-03-37)


    Vedere i problemi e le difficoltà della vita di ogni giorno è facile, più impegnativo è cercare di trovare delle soluzioni percorribili e praticabili. Abbiamo appena iniziato non solo un discorso, un pour parler, ma una riflessione, sulle virtù, partendo dai pensieri e dagli interrogativi che, al proposito e al momento, più o meno vagano nella mente di ognuno di noi, uomini e donne eredi del XX secolo, il secolo complesso, plurale, liquido e anche un po’ frantumato.
    Nell’affrontare i problemi non si hanno solo fatiche e dolori, talora si fa l’esperienza di sorprese e di sorprese positive. Certe volte il tasso di problematicità delle questioni si abbassa e quasi scompare, e al contempo il livello di comprensione si innalza, quando si dà una specie di cambio di paradigma, di prospettiva, che dischiude un modo nuovo di vedere le stesse cose di prima.
    È ovvio che prima di parlare delle virtù occorre, per lo meno in modo sommario, parlare dell’etica delle virtù, cioè accennare al quel fondamento dell’etica, da cui possa procedere la plausibilità di un itinerario virtuoso personale.
    Ora questo fondamento dell’etica può essere avvicinato in molti modi, che si possono raccogliere in due prospettive diverse, che sono veri e propri paradigmi, cioè costituiscono visioni globali e sistematiche, il cui cambio o anche la semplice oscillazione procura conseguenze strutturali notevoli, come talora avviene con la «magia» di un nuovo modo di vedere ciò che da sempre si è avuto sotto il naso.
    Il fondamento dell’etica può essere guardato dall’esterno, e abbiamo quella che è oggi definita l’etica di «terza persona», oppure dall’interno, e abbiamo allora l’etica di «prima persona», dove il soggetto osservatore coincide col soggetto agente, a differenza – ed è una grande differenza – della precedente dove questa coincidenza non si riscontra.
    A prima vista, la presenza o l’assenza di questa coincidenza sembrerebbe una cosa da nulla, assolutamente trascurabile; è invece l’inizio di due concezioni paradigmatiche, diverse ed anche opposte, del fondamento dell’etica. Si vedrà meglio più avanti, ma fin d’ora si può affermare che la virtù risulta plausibile, cioè sensata, solo nella prospettiva di un’etica di «prima persona». In altre parole, occorre guardare al fondamento dell’etica dallo stesso punto di vista del soggetto che agisce, per percepire dell’agire il suo profondo senso pratico e quindi attivare la responsabilità della persona su se stessa secondo tutto lo spessore di questa profondità, cioè attivare un cammino virtuoso.
    È ovvio però che la scelta qui operata in favore dell’etica di «prima persona» non è ideologica, non è fatta cioè solo perché a noi interessa per sostenere la nostra previa opzione in favore della virtù.
    È vero piuttosto il contrario, e cioè che la precarietà concettuale dell’etica di «terza persona» e le aporie in cui incorre, ci hanno indotto ad abbandonarla e a dare progressivo ascolto e consenso all’altra impostazione etica, che facilmente si sviluppa in un’etica delle virtù. Prima però di sviluppare l’etica delle singole virtù è bene occuparci del fondamento, senza il quale saremmo fragili e precari.

    La prospettiva consequenzialista dell’etica

    È esperienza comune il fatto che, ponendoci ad osservare un panorama in un punto preciso, si hanno alcune risultanze, che, cambiando posizione, non si hanno più: una cosa è vedere un castello dall’alto o dall’esterno, un’altra è osservarlo dal basso e dall’interno.
    Nell’etica non dobbiamo osservare castelli, ma persone che agiscono; e se le osserviamo dall’interno possiamo percepire alcuni fenomeni che, se ci poniamo dall’esterno, inevitabilmente ci sfuggono, come del resto nulla può dire del colore delle pareti interne di un castello chi non vi entra dentro.
    Siamo di fronte a due alternative: per comprendere la realtà dell’agire della persona è necessario che la persona osservi se stessa nel proprio operare, oppure è sufficiente che sia osservata da un osservatore terzo e altro rispetto a sé?
    La scelta di uno dei due osservatori, se per di più è esclusiva, non è indifferente sulla risposta che poi diamo alla domanda sull’identità dell’agire personale, anzi la predetermina, e non solo in qualche modo, ma in modo rilevante.
    Cerchiamo di addentrarci maggiormente nella questione.

    Il consequenzialismo

    L’osservazione «terza» – tipica dell’etica di terza persona – dell’agire personale non può che cogliere ciò che è percepibile dall’esterno, appunto l’esternalità, la transitività, cioè gli effetti, le conseguenze che ha sull’ambiente circostante, sia personale che non. Il furto crea un danno ad altre persone perché toglie loro una lecita disponibilità di un bene materiale e al tempo stesso incrina un rapporto di fiducia sociale e interpersonale.
    Ora nessuno nega che l’agire abbia anche delle consequenzialità; ciò che invece la teoria dell’agire consequenzialista rivendica è che la loro individuazione è criterio, non solo necessario, ma anche sufficiente, per così dire esaustivo, per identificare ogni agire personale.
    Da quest’assunto il consequenzialismo e anche il proporzionalismo, detti entrambi anche teleologismo, procedono prima al reperimento di tutte le conseguenze e poi alla loro valutazione ponderativa, connotandole come buone o come cattive, come vantaggi o svantaggi, come costs and benefits.
    L’azione sarà quindi buona o cattiva se il saldo delle conseguenze sarà rispettivamente positivo o negativo.
    In altre parole, se l’azione produce più beni pre-morali che mali, sarà buona, diversamente risulterà inevitabilmente cattiva.
    In questo modo il codice binario dell’etica, cioè l’attribuzione del giudizio di bontà e di malizia, verrebbe reso praticabile in modo molto semplice e chiaro, per il carattere incontrovertibile dell’evidenza materiale delle conseguenze, che trancerebbe inoltre le interminabili discussioni che sulle questioni etiche persistono nel presente frangente interculturale e pluralistico. Il metodo si lascerebbe raccomandare per essere spiccio e sbrigativo, chiaro ed evidente per tutti.

    Il consequenzialismo e i suoi dilemmi

    Non è certo raro il fatto che nella nostra vita dobbiamo constatare che ciò che in prima battuta si raccomanda come ideale, subito dopo mostra le sue carenze.
    Il consequenzialismo si rivela presto limitato nel perseguire l’obiettivo stesso che si è proposto, per esempio nel reperire tutte le conseguenze delle azioni umane, intento certamente difficile per ciò che oggi concerne per esempio l’ambito biotecnologico, dove siamo alle prese coi principi di previsione e di precauzione che cercano di gestire appunto l’imponderabile. Ma giustamente si replica che mai nella riflessione morale si è richiesta la certezza assoluta per essere moralmente abilitati ad agire: è sempre stata sufficiente appunto quella morale.
    Il problema tuttavia non è qui: risiede invece nella difficoltà a reperire un unico criterio di misura delle conseguenze, senza il quale è impraticabile la loro ponderazione. In realtà le conseguenze dell’agire interessano talora beni tra loro difficilmente commensurabili. Se è facile dichiarare che è meglio la morte di una persona piuttosto che di due, per ritornare all’esempio sopra addotto, come commisurare se è più dannosa la sottrazione di un bene o la violazione di un rapporto di fiducia? Siamo di fronte a beni di natura così diversa che è giustamente ritenuto impossibile da molti, e tra questi mi ci ritrovo anch’io, una loro commensurabile ponderazione. Questo forse segnala che il criterio consequenzialista adottato è selettivo e riduttivo rispetto alla realtà morale della persona.
    Del resto non si può non notare una certa collateralità tra questo modo di ragionare in etica e quello tecnologico, oramai preponderante nella cultura contemporanea, soprattutto occidentale. Siamo nell’era della tecnica e la razionalità tecnologica, cioè una razionalità da prestazione – in cui si misura la «bontà» dello strumento in base alle sue prestazioni, alle sue esternalità, alle sue effettività consequenziali – diventa prevalente tanto da catalizzare ed omologare a sé ogni altra razionalità, ivi compresa quella morale. Una radicale e profonda differenza riguarda la razionalità morale, perché essa attiene profondamente ad una realtà che è un soggetto e non un oggetto come uno strumento e una macchina. Se nella nostra azione di promozione delle persone adottiamo una razionalità da prestazione, mutuata dalla tecnica e dalla tecnologia, ci troviamo ad operare con una concettualità impropria e inadeguata, perché non tiene in giusto conto l’originalità e l’eccedenza della persona su ogni altra realtà mondana. La persona così promossa avrebbe un profilo inevitabilmente burocratico, sarebbe un uomo senza qualità, come in modo superlativo ha stigmatizzato Musil (R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1974).
    Si delinea anche la figura debole, adolescenziale, sperimentalistica del soggetto morale.

    «Il soggetto sperimentalistico non agisce a procedere da persuasioni previe che lo autorizzino in tal senso; cerca invece le proprie persuasioni esattamente attraverso le forme dell’agire. Il suo agire assume di conseguenza, almeno in prima battuta, la forma di un semplice esperimento: non scommetto su quello che faccio, agisco senza impegno, riservandomi di adottare o meno il mio comportamento alla luce dei risultati che ne conseguiranno. Quando manchi l’evidenza previa di ciò che è degno, appare inevitabile che l’agire assuma la forma del semplice tentativo. Ma quando l’agire sia senza impegno, d’altra parte, quando esso non implichi alcuna promessa di sé, neppure può offrire al soggetto alcun messaggio univoco; esso rimane esperienza vaga, staccata dalla storia personale del soggetto stesso» (G. Angelini, Teologia morale fondamentale. Tradizione, Scrittura e teoria, Glossa, Milano 1999, 50).

    A ben vedere poi insospettisce il fatto che a seguito dell’adozione del consequenzialismo diverrebbero superflui sia la formazione della persona sia l’esercizio della coscienza morale, entrambe sostituite da un’informazione precisa ed accurata sulle conseguenze delle diverse azioni, informazione che solo un gruppo di esperti potrebbe assicurare e garantire. La coscienza non avrà più perplessità e dubbi su come agire in situazione, perché è una soltanto l’azione da prescegliere, quella che gli studiosi diranno essere la più vantaggiosa.
    L’influsso di questo modo consequenzialista di ragionare è molto diffuso.
    Quando due giovani nel vivere la loro sessualità prematrimoniale hanno soltanto cura delle possibili consequenzialità indesiderate, e si dimenticano di considerare che tipo di persone diventano a seguito di un vissuto sessuale spersonalizzante, mostrano di valutare il proprio agire solo in termini di danno fisico e non anche in termini di danno spirituale o personale. La persona che cosifica la propria sessualità non è casta. La virtù della castità e il vizio della lussuria esprimono al positivo e al negativo una preoccupazione che attiene alla qualità della persona stessa e non semplicemente ai danni che può fare o evitare.

    «C’è tuttavia un indizio che fa pensare che l’etica teleologica [cioè il consequenzialismo, NdR] diverge profondamente dall’etica tomista [che è etica deontologica, NdR]. Infatti i moralisti teleologi suppongono come ovvio che l’azione vada intesa esclusivamente come una modificazione d’uno stato di cose nel mondo, in quanto essa produce valori o disvalori, beni o mali premorali per i coinvolti. Essi trascurano che, sia per Aristotele sia per Tommaso, principale è, rispetto all’azione così intesa (cioè come póiesis, facere), la praxis o l’agere (vivere) e che la prassi può essere eccellente o difettosa, virtuosa o viziosa, a seconda che realizza o no i fini che restano immanenti ad essa, e che consistono in certi modi o misure del desiderare e del volere (fines virtutum). Mentre l’etica tomista concerne principalmente la cura dell’anima, l’etica teleologica è tutta centrata sulla formazione d’uno stato di cose nel mondo» (G. Abbà, Quale impostazione per la morale? Ricerche di filosofia morale 1, Roma, LAS 1996, 2000).

    L’oblio della persona nella valutazione del suo agire

    È esattamente l’oblio della persona nella valutazione del suo agire che costituisce tuttavia l’aporia più rilevante del consequenzialismo. L’agire infatti ha la persona come suo autore e come suo attore. L’agire nasce dalla persona che lo concepisce e lo esegue. Proprio per questo l’agire non solo e non prima di tutto passa: transita all’esterno della persona, ma permane nella persona stessa, avendo quindi prima di tutto un carattere intransitivo che transitivo. L’agire prima di tutto plasma la persona che lo compie, il soggetto agente, e poi interessa altri ed altro. Per questo del proprio agire la persona è radicalmente responsabile e, per lo stesso motivo, la eventuale modificazione dell’agire su di essa deve far leva e non tanto su agenzie ad essa esterne, che possono molto meno sulla persona di quanto non possa essa stessa su se stessa.
    Si capisce meglio – oso così sperare – perché lo sguardo esterno al soggetto agente per osservare il suo stesso agire non è pertinente. Non lo è semplicemente perché non permette di vedere il permanere dell’azione nel soggetto che la compie, permanenza che solo la coincidenza del soggetto agente col soggetto osservante permette di cogliere. Questa permanenza o, come altri preferiscono parlare, questo ritorno dell’azione sul soggetto interessa cioè tutte le dimensioni della persona: interessa i suoi pensieri, interessa le sue emozioni, interessa il suo operare e il suo fare.
    Ora una teoria etica, che in modo strutturale e paradigmatico esclude dalla sua considerazione un ambito così rilevante della moralità etica della persona, mi sembra che tralasci elementi, la cui obliterazione rende inattendibile la teoria etica che è stata costruita su queste premesse. Un esempio può forse meglio chiarire quanto abbiamo appena detto. Se a chi deve definire che cos’è un’automobile sfugge il fatto che essa abbia quattro ruote, la definizione che ne segue risulterà per forza inficiata e quindi inattendibile.
    Se poi il suo punto di osservazione gli impedisce di per sé di vedere le quattro ruote dell’automobile, allora la carenza è costitutiva e non semplicemente occasionale.


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