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    Gola, il rapporto deformato con il cibo



    I vizi capitali. Le figure dell’esistenza inautentica /2

    Carmine Di Sante

    (NPG 2008-02-63)


    Il primo rapporto dell’uomo con il mondo avviene con il seno della madre dal quale il bambino attinge nutrimento, sicurezza e amore. Per questo, nelle tappe della crescita, la prima per Freud è quella orale, incentrata intorno all’uso della bocca (os-oris in latino), l’organo istitutivo del legame originario con il cibo, condizione di possibilità per ogni altra fase: l’anale, caratterizzata, sempre per Freud, dalla scoperta non più solo del prendere ma anche del dare, e la genitale, caratterizzata dalla scoperta dell’altro con il quale relazionarsi. Oltre che per le altre fasi della crescita, il rapporto dell’uomo con il cibo è anche condizione di possibilità per ogni altra attività umana: da quelle fisiche, come l’arare o il gareggiare, a quelle intellettuali, come risolvere un problema o scrivere un libro, a quelle spirituali, come il contemplare o il pregare. Per questo tutte le religioni, da quelle primitive e più elementari a quelle più complesse e strutturate, da sempre hanno istituito un legame profondo tra il divino e il cibo, tra le divinità e le fonti di sussistenza dalle quali dipende la sopravvivenza degli individui e delle collettività.
    Secondo la lezione di Lévinas, il cibo però, prima che fonte di nutrimento e di sussistenza, sul piano fenomenologico è soprattutto fruizione e godimento.
    Contestando la concezione filosofica tradizionale per la quale il mondo è oggetto alla presenza del soggetto, e la stessa concezione heideggeriana per la quale l’orizzonte ultimo del mondo è l’utilizzabile, in quanto insieme di strumenti per il raggiungimento dello scopo, per il filosofo francese il primo rapporto dell’uomo con il mondo è invece di goderne e possederlo per goderne. Per Lévinas l’io – la sua singolarità o interiorità che lo differenzia da qualsiasi altra realtà esistente – non si costituisce attraverso il semplice riflesso o rispecchiamento dell’essere, ma attraverso il godimento (jouissance):
    «Noi viviamo di ‘grana’, d’aria, di luce, di lavoro, di idee, di sonno, ecc… Non si tratta di oggetti di rappresentazione. Ne viviamo. Ciò di cui viviamo non è neppure ‘mezzo di vita’, come la penna è mezzo rispetto alla lettera che permette di scrivere; né uno scopo della vita, come la comunicazione è scopo della lettera. Le cose di cui viviamo non sono dei mezzi e neppure degli utilizzabili, nel senso heideggeriano del termine. La loro esistenza non è esaurita dallo schema utilitaristico che li mette in luce, come l’esistenza dei martelli, degli aghi o delle macchine. Esse sono sempre, in una certa misura – e anche i martelli, gli aghi, le macchine lo sono – oggetto di godimento che si offrono al ‘gusto’, già ornate, abbellite. Inoltre, mentre il ricorso allo strumento presuppone la finalità e sottolinea quindi una dipendenza nei confronti dell’altro, vivere di… mette in luce proprio l’indipendenza, l’indipendenza del godimento e della sua felicità che è il tratto originale di ogni indipendenza» (E. Lévinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1990, p.114).
    Per il filosofo francese il godimento – di cui la beatitudine del bimbo attaccato al seno della madre del quale si alimenta è come la metafora prima ed esemplare – è, per l’io, l’esperienza originaria che trascende sia la sfera psicologica che quella dell’essere:
    «Il godimento non è uno stato psicologico al pari di altri, tonalità affettiva al pari della psicologia empirista, ma il fremito stesso dell’io. Noi ci situiamo in esso sempre al secondo grado, che però non è ancora quello della riflessione. La felicità nella quale ci muoviamo, già per il semplice fatto di vivere, è, infatti, sempre al di là dell’essere nel quale si stagliano le cose. […]. L’esistere puro è atarassia, la felicità è attuazione. Il godimento […] non esprime, come vorrebbe Heidegger, il modo del mio insediamento dell’essere – della mia disposizione – il tono della mia permanenza. Esso non è la mia permanenza nell’essere ma è già il superamento dell’essere; l’essere stesso ‘accade’ a chi può cercare la felicità come una nuova gloria al di sopra della sostanzialità.[…]. Come se, oltre alla pienezza dell’essere, l’ente potesse pretendere ad un nuovo trionfo» (Ivi, p. 113; corsivo dell’autore).
    In altri termini, per il pensatore francese,
    «la vita non è nuda volontà di essere, Sorge [preoccupazione] ontologica di questa vita. Il rapporto della vita con le condizioni stesse della vita, diventa nutrimento e contenuto di questa vita. La vita è amore della vita, rapporto con dei contenuti che non sono il mio essere ma più cari del mio essere: pensare, mangiare, dormire, leggere, lavorare, scaldarsi al sole […]. Ridotta alla pura e nuda esistenza, come l’esistenza delle ombre incontrate da Ulisse agli inferi – la vita di dissolve come un’ombra. La vita è un’esistenza che non precede la propria essenza. Questa le dà valore: e il valore, qui, costituisce l’essere. La realtà della vita è, da sempre, al livello della felicità e, in questo senso, è al di là dell’ontologia. La felicità non è un accidente dell’essere, dato che l’essere rischia se stesso per la felicità» (Ivi, p. 112).
    La conseguenza è che, per il filosofo ebreo, l’io si costituisce io singolare e unico proprio nella sua felicità e godimento: «essere un io significa esistere in modo tale da essere già al di là dell’essere, nella felicità. Per l’io essere non significa né opporsi, né rappresentarsi qualcosa, né servirsi di qualcosa, né aspirare a qualcosa, ma goderne» (Ivi, p. 120).

    Cibo, culture, religioni

    Proprio perché l’uomo necessita del mondo come «cibo» e «nutrimento» per il suo godimento, le culture da sempre si sono istituite e organizzate intorno alle modalità di procurarsi il cibo, a seconda dei contesti ambientali e delle epoche storiche. Prima che creazione ed elaborazione di idee e ideali, le culture, soprattutto con il passaggio dal «crudo» al «cotto», per alludere al celebre saggio di Levi-Strauss del 1964, sono culture «culinarie», mense o banchetti che godono nel nutrirsi e nel mangiare. Quando nel 1862, con il suo celebre saggio Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia, reagendo al razionalismo hegeliano e allo spiritualismo religioso, Feuerbach sosteneva che l’uomo «è ciò che mangia», il senso irrinunciabile della sua provocazione era che, prima ancora che essere spirito, coscienza, anima, pensiero, linguaggio o qualche entità metafisica o metastorica, l’uomo, ogni uomo, è sempre e necessariamente un essere che, come ogni altro essere, ha bisogno di ciò che è al di fuori del suo essere – aria, luce, pietra, pianta e pane – di cui si nutre e si rallegra.
    Le religioni, lungi dall’essere un movimento di fuga dal materiale allo spirituale, come vuole la vulgata razionalistica che le interpreta come pensiero infantile o oppio, del materiale – le fonti di sussistenza – si vogliono l’interpretazione più radicale e ultima: dono degli dei, progenitori o antenati per il bisogno e la gioia degli umani. Alfonso Di Nola, curatore e autore della grande Enciclopedia delle Religioni (6 voll., Vallecchi Editore, Firenze 1970-76) ha classificato per questo le religioni a seconda delle diverse forme di reperimento e produzione delle fonti di sussistenza: religioni dei popoli cacciatori-pescatori-raccoglitori, religioni dei popoli allevatori e pastori, religioni dei popoli coltivatori, religioni di culture miste o superiori, ecc.
    L’elemento che le accomuna è che gli dèi cui, con nomi diversi, fanno riferimento, si definiscono sempre in rapporto alle fonti di sussistenza di cui sono i benefattori, mentre i fedeli i beneficiari. Questo legame costitutivo tra il divino e il cibo è ancora più esplicito nel racconto fondatore biblico – il racconto esodico – che, come si è visto, narra di un Dio che ha chiamato Abramo e ha liberato Israele dall’Egitto per fargli dono di una terra «dove scorrono latte e miele» e dove Israele può abitarvi solo con la coscienza di restarvi sempre come ospite ospitato da Dio che ne è il proprietario (cf Lv 25,23); e, contrariamente all’apparenza, questo legame costitutivo tra il divino e il cibo è ugualmente importante nella tradizione cristiana se solo si pensa che nella preghiera che Gesù ci ha lasciato, il Padre Nostro, la prima delle richieste rivolta a Dio è «dacci oggi il nostro pane quotidiano».

    Cibo e Scritture

    Dono di Dio all’uomo, il cibo – di cui il «pane» e «vino» della celebrazione eucaristica sono la parte che dicono il tutto, avendo l’uomo bisogno, oltre che del pane e del vino, di tante altre cose – è per la bibbia l’espressione del suo amore e, per l’uomo, fonte di godimento in quanto testimonianza della sua (di Dio) relazione gratuita d’amore. Il giusto rapporto dell’uomo con il mondo, con ciò che ne promuove la vita e il godimento, è in questo sguardo che, in ciò che nutre e rallegra, sa leggere la relazione di amore da accogliere e ridonare. L’immagine del «banchetto sacro», comune a molte religioni, secondo la quale mangiare è mangiare alla presenza di Dio o degli dei, forse trova qui la sua interpretazione più pertinente: più che allusione a qualcosa di straordinario, essa dice che ogni mangiare – il rapporto originario con il cibo fonte di godimento – non è evento che accade tra sé e sé, all’interno dell’io identitario e solitario in cerca della sua autosoddisfazione, ma evento che accade tra sé e l’altro, all’interno di una relazione di amore di cui il mangiare è l’espressione.
    Qui risiede la differenza abissale tra il mangiare da soli, dove l’io è io solitario, in compagnia solo di se stesso, e il mangiare da invitati, dove l’io è alla presenza del tu che, amandolo, lo ospita nella sua casa e alla sua mensa. L’affermazione delle religioni per le quali il mangiare è atto sacro, lungi dall’essere affermazione ingenua o irrazionale, è rivelazione dell’umano ontologicamente relazionale che nel suo essere al mondo come essere di bisogno, non è abbandonato a se stesso e consegnato solo alla sua cura, ma oggetto di cura e di premura ed egli stesso, per questo, chiamato a farsi soggetto di cura e premura nei confronti dell’altro da sé o prossimo. Se come ci ha ricordati Buber, l’uomo è relazione, la prima relazione nella quale si è istituiti è quella di essere in un mondo che l’io non ha posto ma nel quale è stato posto – ospitato – e nel quale, nutrendosene, trova gioia e godimento.

    Il «vizio» della gola

    Se per la bibbia il cibo è fonte di godimento perché dono dell’alterità divina – l’alterità del sole, dell’aria, dell’acqua, del seme, della terra e della pioggia tracce dell’alterità divina – il rapporto deformato con il cibo per essa si ha quando la coscienza di questa alterità si eclissa o è cancellata. Il peccato o vizio della gola dice questo rapporto deformato dove il cibo, da fonte di godimento si fa esperienza di disagio e di malessere o perché si mangia troppo o perché si mangia poco o perché si mangia male. Per questo le culture, oltre che organizzazioni deputate al reperimento del cibo, sono anche sistemi regolativi che ne fissano le modalità (come mangiare e con chi mangiare), i tempi (quando mangiare) e i ritmi (quante volte mangiare). Ciò resta vero per le stesse società occidentali individualistiche e frammentate dove, se è indubbio che, soprattutto nei giorni lavorativi e feriali, a prevalere è il fast food dove ognuno mangia se e come vuole, è altrettanto indubbio che si va affermando un quasi culto o arte della cucina e del mangiare che nelle culture del passato non c’è mai stato (se non in alcuni giorni particolari e presso gruppi privilegiati) a causa della penuria che le ha caratterizzate. Ma l’abbondanza che, nelle società occidentali, ha sconfitto la penuria e si è fatta sovrabbondanza creando il modello antropologico dell’homo consumens, il cui tratto che lo definisce è il consumismo compulsivo dove il cibo da fine si fa strumento della catena produttiva (si consuma per consumare e, consumando, si mantiene e potenzia la produzione) e da fonte di godimento sintomo di malessere, in cui, come nei casi dell’anoressia e della bulimia, esplode il cattivo rapporto dell’io con il proprio corpo e con il mondo.
    Rivelativo del cattivo rapporto dell’io con se stesso, il rapporto deformato con il cibo – vizio o peccato di gola che la bibbia pone sotto il nome di «dissolutezza» – oggi più che mai invoca autocontrollo e dominio, cioè, come insegna la saggezza greca, la giusta misura che consiste nel non oltrepassare il limite, e la temperanza, con cui, al momento opportuno si sa decidere, come vuole la radice del termine (da temnein, tagliare), dicendo basta. Per la bibbia, però, che fa del principio alleanza il segreto del reale, più che la giusta misura e temperanza, alle quali l’io, per non nuocere a se stesso, può accedere ragionevolmente o razionalmente, il giusto rapporto dell’uomo con il cibo esige oltre e altro: la riconoscenza, con cui l’io esce da se stesso e si scopre dentro la relazione di amore con cui Dio si prende cura del suo bisogno, e la giustizia, con cui l’io esce doppiamente da se stesso amando e condividendo ciò che ha con chi non l’ha.
    Lo scandalo della ricchezza concentrata nelle società occidentali e «cristiane», prima che una nuova ragione esige un rivolgimento etico, riscoprendo e convincendosi che i beni della terra sono un dono e se, un dono, nessuno, né individui gruppi nazioni o imperi, ha il diritto di appropriarsene; e la fuoriuscita dal consumismo patologico e distruttivo che le caratterizza, prima che il ricorso alla psicologia, alla tecnica o alla scienza, esige la «conversione» profonda della soggettività o «cuore» che consiste in una nuova autocomprensione dell’io dove l’io, da io per sé, teso all’autosoddisfazione, si fa io per l’altro: io che, come vuole Lévinas, va incontro all’altro a mani piene donando ciò che ha e ospitando nella sua casa lo straniero, l’orfano e la vedova, cioè l’altro da sé in quanto altro. In questo gesto di donazione che è ridonazione, e che per la bibbia è la giustizia, il mondo si fa godimento e il rapporto con il cibo, da possessivo ed egoistico, torna ad essere atto di amore che accoglie e ridona.

     

    GOLA
    Il rapporto deformato con il cibo
    Scheda operativa a cura di Giuseppe Morante

    La ricchezza di significati umani personali, sociali e religiosi del rapporto tra l’uomo e il cibo potrebbe essere resa più cosciente, a seconda delle possibilità di comprensione e capacità di confronto dei ragazzi, adolescenti e giovani, attraverso un’analisi che porti alla coscienza della deformazione di tale rapporto, fino a comprendere che diventa per tutti un «vizio capitale».
    Nell’attuale benessere, il mangiare e il bere costituisce una occupazione importante e spesso una ricerca spasmodica che porta a squilibrare il rapporto tra l’uomo e il cibo, rapporto che pure ha una sua origine naturale (dono di Dio), nel legame simbiotico del bambino con la madre, ma che deve essere sviluppato progressivamente nei suoi veri significati umani e religiosi.

    1. Il cibo è necessario alla vita umana sia dal punto di vista corporeo che spirituale
    * A livello personale, nel processo educativo deve apparire chiaro che l’uomo ha bisogno di soddisfare il bisogno del nutrimento; ciò costituisce motivo di «star bene con se stesso». L’obiettivo può essere raggiunto attraverso un equilibrato rapporto tra le cose materiali e il loro significato spirituale, per evitare forme di squilibrio che oggi sono presenti soprattutto tra adolescenti, come la bulimia (bisogno smodato del cibo) e l’anoressia (voglia di conservare la linea per una immagine perfetta del corpo), l’obesità (squilibrio alimentare) che diventano malattie psicologiche molto presenti nella società attuale.
    Si può partire per riflettere da una domanda: si vive per mangiare o si mangia per vivere? Naturalmente senza disprezzare il gusto che può essere abbinato al cibo. L’analisi porta a scoprire:
    – l’origine del peccato di gola. Il cibo, prima ancora che fonte di alimento e di nutrimento, costituisce un termine di rapporto religioso in ogni cultura tra l’uomo e la divinità; per il cristiano il cibo è «dono di Dio». Il Dio cristiano è pregato perché «ci dia ogni giorno il pane quotidiano». E se il cibo è mediazione di una relazione tra l’uomo e Dio che porta ad un godimento non solo fisico ma anche spirituale perché relazionale, allora si capisce dove potrà collocarsi il peccato capitale della «gola»: il cibo, da fonte di godimento alimentare diventa malessere perché o si mangia molto o si mangia poco o si mangia male;
    – le conseguenze del peccato di gola. Esso non è costituito dalla semplice ingordigia o dalla smodata consumazione di cibo, ma è la conseguenza morale del lusso alimentare, della predilezione per la cucina raffinata, della propensione a cibarsi esclusivamente di pietanze pregiate e costose; o semplicemente, per molti ragazzi, dal modo di stabilire il rapporto tra ciò che mi piace (e si può esagerare a scapito della salute) e da ciò che non piace (che pure dovrebbe costituire un alimento equilibrato, ad esempio di squilibrio tra proteine, carboidrati, grassi…);
    – la visione cristiana tra vizio e virtù. Nel rapporto tra vizio (il peccato di gola) e virtù (la temperanza e l’equilibrio…), il vizio è classificato come «abitudine di male», cioè opposizione «della volontà dell’uomo alla volontà di Dio» (nel medioevo); come «espressione della tipologia umana» nella età moderna (illuminismo), o come «manifestazione psicopatologica» nella cultura contemporanea, che trasborda dal mondo morale per cadere in quello patologico: non più vizio, ma malattia dello spirito. Questi limiti aiutano a recuperare il significato del «peccato» come difformità al vero rapporto con Dio nell’uso delle cose create.
    * A livello sociale si può leggere il vizio della gola come sequenza storica sempre presente nella cultura e nella società, anche se interpretata in modo diverso. Oggi si colloca il vizio della gola nella funzionalità propria dell’età della tecnica e dell’urgenza dell’etica.
    Da questo ambivalente sorgono tendenze o modalità comportamentali che sono denominate sociopatia, consumismo, conformismo, mania del corpo ben fatto, culto del vuoto, voluttà dello shopping, dipendenza dalla merce… Tali conseguenze del vizio della gola sono meccanismi che gradualmente stanno portando a squilibri della personalità, oltre che a perdita di valori morali.
    Squilibri umani che, inquadrati nella definizione di vizi, possono essere oggetto di riflessione per far diventare più consapevoli e meno conformisti; e per non scambiare per «valori moderni» quelli che invece sono solo i suoi disastrosi inconvenienti, e conseguenze del «peccato».

    2. Il rapporto equilibrato col cibo per una giusta dimensione umana, sociale e religiosa
    Chi non ha mani sentito il bisogno di «voglia di qualcosa di buono? È certamente un giusto desiderio che può far apprezzare umanamente quelli che sono il dono del gusto e del sapore delle cose. Purché si vada al di là delle cose e se ne apprezzi il significato umano e spirituale. Il gustare le cose buone fa parte dei doni della creazione. Per evidenziare tale squilibrio si può far riflettere sul:
    – giusto desiderio del qualcosa di buono a livello personale. Gesù stava volentieri a pranzo (episodi del vangelo…). Ma se l’esercizio dell’uso del cibo si fa ricerca smodata, allora si trasforma in vizio alimentare. Pecca di gola chi è ingordo, chi consuma quantità esagerate di cibo, il più delle costoso. Proprio qui si colloca il concetto vizio capitale come peccato, perché diventa trasgressione della legge di Dio: cioè atto consapevole e responsabile compiuto dalla persona, anche se è presente a volte la non volontà trasgressiva. In tale visione il mondo occidentale ha superato «la misura», trasformando il vizio in malattia, in peccato sociale, in squilibrio mentale;
    – disagio sociale provocato dall’uso esagerato dei beni materiali. Nel nostro ambiente il vizio della gola, inteso come sfrenato soddisfacimento del bisogno di cibo, si è eccessivamente allargato a danno della giustizia sociale, che porta ad altre conseguenze squilibrate della società. Ma si pensa che mangiare troppo non è peccato, solo disagio sociale: problema cui porre rimedio con qualche espediente caritativo. E diventano comuni anche degli squilibri quali l’obesità, la bulimia, l’anoressia. In breve, oggi chi è goloso – o soggiace ad altri irrefrenabili bisogni, spesso socialmente indotti, quali il tabacco, l’alcool, o le droghe – è malato e quindi non pecca, ma deve essere curato, o, nel migliore dei casi, è semplicemente giudicato come un individuo che non ha abbastanza cura di sé. Ma non è in fondo proprio questo il peccato provocato dal vizio della gola che fa danno a se stesso e agli altri? Perciò nella letteratura moderna è difficile trovare personaggi emblematici del vizio della gola inteso in senso tradizionale, come nel passato (si pensi a Dante che colloca in un girone dell’inferno i viziosi del «maledetto vizio della gola»). Oggi il peccato si è trasformato nel male del progresso e dell’abbondanza, dove si è più ossessionati dal cibo… e dalle diete; e dove l’obesità infantile è diventata ormai un problema sociale. Viene a mancare proprio la dimensione morale e religiosa, che potrebbe aiutare a recuperare l’equilibrio con le cose e le persone;
    – rapporto religioso tra «vizio» e «virtù». Se il vizio può essere considerato un deteriorarsi di una virtù, in questo caso il peccato di gola è opposto alla virtù della temperanza, all’uso delle cose in modo eccessivo, ad una specie di «cupidigia» del corpo. Esso non è solo un atto singolo ma una rivolta verso Dio, elevando ad idolo le cose materiali. Per questo non solo trasgredisce i suoi comandamenti, ma gli nega anche la riconoscenza e se ne misconoscono i benefici. Per questo nella Bibbia il peccato di gola non è solo una trasgressione di un ordinamento morale, ma una condizione di allontanamento da Dio, una interruzione di un rapporto personale con lui, un tradimento della fiducia che egli ha riposto nell’uomo (cf Isaia 6:5; Salmo 51:1-9; Luca 5:8). Il peccato ha delle conseguenze sia personali che sociali; costituisce una specie di strada sbagliata, di un bersaglio mancato. Il peccato di gola diventa vizio capitale, perché si trasforma in una categoria morale che denota una condotta negativa rispetto a un determinato sistema di valori, codificato sia a livello naturale che a livello religioso, in ambito comportamentale personale e sociale.
    Può essere utile concludere con una testimonianza di Sant’Agostino: «Sebbene io mangi e beva per la mia salute, vi si aggiunge come ombra una soddisfazione pericolosa, che il più delle volte cerca di precedere, in modo da farmi compiere per essa ciò che dico e voglio fare per salute. La misura non è la stessa nei due casi: quanto basta per la salute è poco per il piacere, e spesso non si distingue se è la cura indispensabile del corpo, che ancora chiede un soccorso, o la soddisfazione ingannevole della gola, che, sotto, richiede un servizio» (Le confessioni, 44).


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