Educare il corpo /8
Pierangelo Barone
(NPG 2008-02-60)
Ripercorrendo i temi affrontati fino a qui, nel tentativo di riflettere sull’educabilità dei corpi nell’epoca della surmodernità (utilizzando la definizione dell’antropologo Marc Augè, per parlare della fase economica e culturale del nostro tempo), ricavo l’impressione di avere lungamente insistito sulle dimensioni esistenziali di una corporeità che ci situa spazialmente e temporalmente costringendoci ad un confronto continuo con le contingenze fisiche e materiali, da cui scaturisce l’ipotesi di un’educazione prevalentemente orientata a riconoscere e valorizzare i limiti: un’educazione dei corpi come competenza umana «nell’abitare il limite». Mi sembra necessario, di conseguenza, rivolgere l’attenzione ad un aspetto di grande rilevanza per il discorso pedagogico essendone una dimensione imprescindibile. Si tratta della irrinunciabile necessità di «progettarsi» dell’essere umano rispetto alla propria possibilità di realizzazione esistenziale, ovvero della spinta soggettiva a divenire finalmente «adulti» non solamente dal punto di vista biologico. In che termini, quindi, questo corpo che ci richiama sempre al «qui e ora» della condizione che stiamo vivendo, che ci impone il peso della sua materialità e l’ingombro della sua fisicità, può rappresentare il punto da cui si irraggia il sogno e la speranza di quello che potremmo divenire ed essere? In che senso possiamo parlare in modo appropriato dell’importanza di educare un corpo al «progetto»?
Per rispondere a questa domanda facciamo ricorso, ancora una volta, a Michel Foucault che con una felice intuizione è riuscito a ribaltare la prospettiva intellettuale di un corpo pensato essenzialmente come materia del visibile,[1] come un «qui irrimediabile», per accedere all’idea del corpo come continua apertura dell’altrove, il corpo in quanto autentica «utopia». Riprendendo le parole stesse del filosofo francese:
«[…] il mio corpo, in effetti, è sempre altrove, è legato a tutti gli altrove del mondo e, in verità, è altrove rispetto al mondo. È, infatti, intorno a lui che le cose si dispongono, è rispetto a lui – e rispetto a lui come rispetto a un sovrano – che ci sono un sopra, un sotto, una destra, una sinistra, un avanti, un indietro, un vicino, un lontano. Il corpo è il punto zero del mondo; laddove le vie e gli spazi si incrociano, il corpo non è da nessuna parte: è al centro del mondo questo piccolo nucleo utopico a partire dal quale sogno, parlo, procedo, immagino, percepisco le cose al loro posto e anche le nego attraverso il potere infinito delle utopie che immagino. Il mio corpo è come la Città del Sole, non ha luogo, ma è da lui che nascono e si irradiano tutti i luoghi possibili, reali e utopici».[2]
L’istanza di apertura
Foucault, con straordinaria efficacia, ci suggerisce una prospettiva davvero carica di implicazioni pedagogiche, dal momento che definisce il corpo come un «piccolo nucleo utopico»:[3] senza negare la materialità che lo costituisce, ne afferma l’originaria istanza di apertura al possibile che fa del corpo stesso un corpo «intenzionale».[4] Dunque, come sottolinea Galimberti: «Il corpo è sempre fuori di sé, è intenzionalità, immediato sbocco sulle cose, apertura originaria, continuo progetto e perciò proiezione futura».[5] Riconosciamo in questa interpretazione del corpo progettuale tutta la densità pedagogica a cui siamo responsabilmente chiamati oggi, come adulti, nel nostro ruolo di educatori. È proprio in virtù dello scarto che sempre più si produce tra la percezione di sé e del proprio corpo in rapporto ad una temporalità sfuggente, rattrappita, sradicata dall’essere, una temporalità che (parafrasando Baumann) potremmo forse definire «liquida», costituita da un «presente perpetuo», che si produce lo scacco dell’intenzionalità e della progettualità educativa. Fuori dalla possibilità di immaginare ciò che vorrei o potrei essere a partire dal mio corpo in quanto allo stesso tempo «luogo» della memoria esistenziale e nucleo utopico che apre al campo del possibile, c’è il rischio dello sradicamento e dell’abbandono all’idea compulsiva del consumo. Il corpo esistenziale è contemporaneamente memoria e progetto, pone sempre in essere la storia individuale e nello stesso tempo intenziona l’avvenire, attraverso i gesti, i comportamenti, i discorsi con cui vengono espresse le possibilità ulteriori. Nel qui e ora della materialità corporea includiamo quel continuo movimento dell’esistenza che trova nel corpo il perno su cui articolare le dimensioni temporali del passato e del futuro.[6] Memoria e progetto, come si è già sottolineato, costituiscono l’espressione pedagogica del corpo esistenziale, un corpo richiamato in vita dalla sua carnalità che ne esprime l’esistenza totale, un corpo che attraverso il movimento dell’esistenza dispiega l’esperienza concreta del mondo; la perdita della memoria è il distacco sostanziale dall’esperienza in quanto autentico crogiolo di vita, come significato di radicamento nell’esistenza di ognuno; è un corpo senza cicatrici, levigato e perfetto alla superficie; è il simbolo dell’evanescenza di un mondo che si consuma mentre va in scena, senza lasciare apparenti tracce.
Narrazione e sogno
Educare il corpo al progetto significa dunque riappropriarsi di due fondamentali istanze pedagogiche: in primo luogo recuperando la centralità della narrazione come strumento pedagogico. Sottolineare l’importanza di narrare con il corpo e attraverso il corpo come possibilità di dare e darsi identità implica un lavoro di elaborazione che riconnette concretamente la storicità individuale con il «sogno ad occhi aperti» del progetto; la narrazione del corpo è di per sé utopica in quanto ci pone costantemente in un altrove, sia esso rammemorato o sognato.
In secondo luogo e di conseguenza, recuperando l’importanza del «sogno» stesso come possibilità pedagogica che definisce l’apertura ai grandi temi adolescenziali dell’amore, della libertà, dell’indipendenza, e – perché no? – dell’utopia; perché attraverso il sogno si costruisce il senso e si orienta il progetto di vita; perché il sogno ad occhi aperti rappresenta la modalità peculiare attraverso cui gli adolescenti possono integrare a livello mentale il desiderio e la realtà. Se il corpo del bambino rappresenta in potenza l’adulto che verrà, è davvero rilevante dal punto di vista educativo dare spazio al corpo utopico come nucleo «a partire dal quale sogno, parlo, procedo, immagino». E se educare il corpo vuole dire anche dare (e fare) spazio al «sogno», non dimentichiamoci che oggi, da più parti, si insiste sull’incapacità dei nostri ragazzi di sognare e, dunque, di progettare il loro futuro.
Ammesso e non concesso che ciò corrisponda al vero, la domanda che ne consegue è: chi sono i «mangiatori dei sogni» dei bambini e dei ragazzi che vivono «nell’epoca delle passioni tristi»?[7] Sono i ragazzi stessi a nominarli se interpellati in merito: la paura, l’ipocrisia, il pregiudizio, l’indifferenza, la falsità, per citarne alcuni. Riconosciamo in questo una grande responsabilità pedagogica degli adulti, poiché è davvero difficile educare i ragazzi e le ragazze alla fiducia verso il futuro, alla progettualità, alla possibilità del cambiamento, in un contesto sociale e culturale pervaso dalla minaccia della catastrofe che incombe. Nel pro-gettarsi è implicata l’assunzione di un certo rischio esistenziale, un rischio sempre più difficile da assumere se i giovani sono chiamati a farsi carico interamente in solitudine dell’onere di verificare la propria abilità al «passaggio».[8] Ecco perché non si può prescindere nel lavoro educativo da un recupero della dimensione del sogno ad occhi aperti come riconoscimento di uno spazio di transizione e di incubazione del potenziale creativo del minore.
Approdo curioso il nostro! Abbiamo preso le mosse dalla necessità di restituire al corpo tutta la densità materiale e concreta in cui si riflette l’esistenza umana, evocando più volte il bisogno di affermare i suoi confini e i suoi limiti come istanze formative irrinunciabili per i nostri ragazzi e le nostre ragazze; concludiamo questo percorso, in apparente contraddizione, rilanciando l’importanza di pensare il corpo come nucleo dell’utopia soggettiva sulla quale si costruisce il proprio progetto esistenziale. Contraddizione solo apparente, dicevo, perché è esattamente in questa incrinatura del discorso razionale che riusciamo a scorgere la vera specificità del corpo, quella sua costitutiva ambivalenza che lo fa essere nel medesimo tempo soggetto e oggetto, «qui» e «altrove»: ciò che esattamente permette a Merleau-Ponty di definirne con una originale metafora il senso esistenziale più profondo: «lo spazio del corpo […] è l’oscurità della sala necessaria alla chiarezza dello spettacolo».[9]
NOTE
[1] Si intravede nell’intuizione foucaultiana l’incidenza del tema del rapporto tra visibile e invisibile resa nota da Maurice Merleau-Ponty nella sua trattazione filosofica sul corpo. In proposito: M.Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 2003.
[2] Cf M. Foucault, Utopie eterotopie, Cronopio, Napoli 2006; pp. 42-43.
[3] Idem.
[4] Nuovamente rintracciamo in questo specifico concetto l’influenza del pensiero di Merleau-Ponty.
[5] Cf U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 1983; p. 73.
[6] Su questi aspetti mi permetto di rimandare il lettore alle considerazioni che ho svolto in L’animale, l’automa, il cyborg. Figurazioni del corpo tra i saperi e le pratiche educative, Ghibli-Mimesis, Milano – Roma 2004.
[7] Adottiamo la definizione che dà il titolo al saggio del 2006 di M.Benasayag e G. Schmit, pubblicato in Italia da Feltrinelli.
[8] Ci stiamo riferendo alle considerazioni di Fabbrini e Melucci nel volume L’età dell’oro. Adolescenti tra sogno ed esperienza.
[9] Cf M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1968; p. 154.