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    Teologia: parlare di Dio



    Educare al pensiero /9

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2008-02-53)


    Ascolta figlio mio il silenzio.
    È un silenzio ondulato.
    Un silenzio dove scivolano valli ed echi.
    E che inclina le fronti al suolo.
    (Federico Garcia Lorca)

    Per i giudei e per i cristiani da 2000 anni Dio tace; «duemila anni di silenzio di Dio sono l’orrore. Nessuno, nelle sinagoghe o nelle chiese, ha più udito una parola del Signore da aggiungere al Libro».[1] E questo silenzio rimane gravido di attesa: gli ebrei sono in attesa di una parola che sia testimonianza dell’arrivo del tanto atteso Masiah, il Messia, quello promesso, quello autentico dopo tanti «falsi» Messia che hanno caratterizzato la loro storia;[2] i cristiani attendono la parusia, il compimento della promessa con la quale si chiude il Secondo Patto: Maranatha, l’ultima parola pronunciata da Dio. Per il giudaismo e il cristianesimo il problema di questi duemila anni di storia è stato la gestione dell’attesa.[3] Lo si vede già nel racconto di Emmaus con tutta la sua tragicità, lo si vedrà nei secoli successivi al primo, dopo la morte dell’ultimo dei discepoli che riempirà di dubbio le parole del Maestro che promise di tornare in tempi brevi, quando ancora alcuni tra i discepoli sarebbero stati in vita. Come riempire questa attesa? Come fare in modo di renderla meno acuta e meno bruciante senza però ignorarla, senza esorcizzarla rendendola così vana e illusoria? Forse parlandone, parlando di Dio, della sua venuta e/o del suo ritorno. Ma a questo punto un’altra domanda sorge a turbare le coscienze: è possibile per l’uomo e la donna parlare di Dio? È possibile per il finito parlare dell’Infinito? Si potrà obiettare che i Testi Sacri lo fanno, ma i Testi Sacri sono appunto parola di Dio, non parola d’uomo (o se vogliamo: parola di Dio che si autorattrappisce in parola d’Uomo in una sorta di sublime kenosis). Ma l’uomo è in grado di utilizzare il suo linguaggio finito per dire Dio al di là di ciò che Dio ha detto di sé?
    La teologia ha forse troppo parlato, troppo scritto, è stata forse troppo presuntuosa nel suo desiderio (forse anche autentico) di parlare di Dio: forse necessitiamo di una teologia balbettante e di poche parole di fronte alle pretese della teologa sistematica che già nel nome pone problemi (perchè mai Dio dovrebbe accettare di farsi racchiudere nelle maglie strette di un Sistema? Solo la parola di Dio è dabar, parola efficace, parola creatrice che sblocca e fa esplodere la finitudine delle lettere e delle sillabe, cristallizzazione della sua ruah, di quello che si chiama impropriamente [4] il suo Spirito, riflessa nelle parole profetiche. Il rischio è quello di sovrapporre al Testo Sacro troppe parole altre, troppe parole che traggono spunto da altri saperi: non che questi non siano utili per la comprensione del testo; dopo il Vaticano II non è più possibile ignorare i saperi ermeneutici, psicoanalitici, letterari ecc. nell’analisi del testo biblico; ma spesso questi saperi hanno il difetto comune a certi commentari biblici che fanno letteralmente sparire la parola di Dio sotto una montagna di parole umane che sembra abbiano il desiderio più di dire qualcosa sulla infinita saggezza di chi scrive che sull’infinito amore di Chi è oggetto di scrittura. La teologia rischia di assomigliare anche oggi ai ragni di cui parlava Bacone: tesse meravigliosi arabeschi ma non si rende conto che la materia da cui li trae non è più la parola divina ma il proprio grembo narcisisticamente pieno del filo del ragno.
    Quello che conta allora è il punto di partenza del discorso su Dio, che non può essere altro che il punto di partenza della sua manifestazione, il suo luogo teologico: lo schiavo balbuziente e forse assassino dell’Antico Testamento, l’infante nudo e infreddolito della mangiatoia di Betlemme per i Vangeli. Oggi questo significa che la teologia non viene prima, non è il fondamento del discorso su Dio, ma la conseguenza della Sua rivelazione nei poveri e negli ultimi: una «teologia come atto secondo come la filosofia in Hegel: non genera la pastorale ma è una riflessione su di essa»[5] purché la pastorale sia veramente il pascere le pecorelle di Dio, ossia i poveri e gli esclusi. Allora è vero che la teologia fonda l’azione, ma è più vero che ne è fondata; la parola su Dio è fondata dalla parola di Dio, ma oggi, dopo duemila anni di silenzio, Dio parla nella storia degli umili e degli straccioni: «La Teologia (...) non si muove nell’ambito della ragion pura ma della ragion pratica».[6] La teologia si caratterizza allora come un sapere storicamente situato; non dimentica la sua creaturalità, il fatto di essere cosa e parola umana, ne fa il grimaldello per far saltare la falsa sicurezza di certo pensiero sistematico alla luce della storia dei vinti: in questo senso la teologia è «(...) recupero della memoria pericolosa e sovvertitrice della tradizione giudeo-cristiana, che mette in atto un processo di trasformazione sociale».[7] Una teologia di questo tipo può provenire solamente dalle periferie; la teologia del Centro è troppo legata a logiche differenti, eteronome rispetto alla parola di Dio «(...) la teologia europea si accosta alla realtà ‘come pensata’ (...) a partire dalle mediazioni del pensiero (...), tende a riconciliare la miseria all’interno del pensiero teologico (...); la Teologia della Liberazione, invece, cerca di rispondere alla sfida del cosiddetto ‘secondo illuminismo’. Per essa la funzione liberatrice della conoscenza si concreta nella trasformazione della realtà: (...) la conoscenza ha sempre un carattere pratico-etico». È curioso che anche certa teologia islamica oggi stia riflettendo su se stessa e stia cercando di liberarsi dalle pastoie di un centro che nell’Islam non è rappresentato da una Chiesa ma piuttosto da una contaminazione tra parola divina e gestione del potere, contaminazione di cui il wahabismo è un esempio eclatante
    Commentando Gustavo Gutierrez possiamo allora cercare di stabilire alcuni punti di partenza per questa teologia della/nella storia:[8] anzitutto la shekinah (tradotto da Gutierrez con abitazione piuttosto che con presenza) ci indica che Dio è presente nella storia e in mezzo al suo popolo, e proprio per questa sua presenza è possibile parlarne; ma non si tratta di una presenza accessibile alle arti magiche o alle divinazioni da maghi televisivi: il Dio di cui parliamo non è riducibile a una divinità delle religioni misteriche, un orizzonte con il quale la rivelazione sinaitica e l’Incarnazione hanno rotto definitivamente. Il Dio di cui parlare è qui: ma non solamente nel profondo dei cuori, ma propriamente nella storia del popolo sofferente e crocifisso. È il questo nomadismo dei popoli che tragicamente tende a perpetuarsi anche nel XXI secolo: in questo deserto da attraversare Dio è presente ancora nella tenda e nell’arca, luoghi della presenza divina che ne sottolineano la mobilità; Dio è con il suo popolo se questo continua a pensarsi nomade e disperso in una valle di lacrime che però non può essere lasciata tale. Dio vuole camminare con il suo popolo in una valle di gioia e di luce, e per questo deve attraversare il deserto e uscirne, passare il Mare di Canne o i tre giorni del sepolcro per poter abitare con un popolo non più sofferente. La teologia dovrebbe essere la guida per questo pericoloso e mai garantito tragitto. Che alla fine porta e non porta al tempio; una manifestazione umana che serve per pregare e pronunciare la parola di Dio ma che non lo contiene: Dio abita dappertutto e la sua presenza non è legata a una struttura materiale. Dimora nel povero che attende e rispetta la sua parola: riempire questa attesa di parole non vane e non vanamente consolatorie è compito della teologia, oggi come ieri. Una teologia balbettante ma resistente, una teologia che non si illuda di essere parola di Dio (altrimenti si trasforma nella peggiore delle idolatrie), ma nel suo essere parola su Dio cerca timidamente di affrettare i tempi del suo definitivo avvento o del suo definitivo ritorno.

    NOTE

    [1] Sergio Quinzio, Un commento alla Bibbia Milano, Adelphi, 1991, pag. 35.

    [2] Una interessante riflessione su quello che forse è stato il più noto di «falsi» Messia (mettiamo l’aggettivo tra virgolette perchè si tratta pur sempre di un giudizio umano da prendere con cautela) si può trovare in Gerschom Scholem, Sabbatai Sevi. Il falso Messia, Tonino, Einaudi, 2005.

    [3] Cf Salvatore Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Milano, Feltrinelli, 1985.

    [4] Impropriamente se riferito all’Antico Testamento.

    [5] Gustavo Gutierrez, Teologia della liberazione Brescia, Queriniana, 1972 pag. 13.

    [6] Ignatio Ellacurìa e Ion Sobrino, Jon (ed.) Mysterium Liberationis. I concetti fondamentali della Teologia della Liberazione, Assisi, Borla/Cittadella, 1992 pag. 70.

    [7] Ivi, pag. 71.

    [8] Cf Gutierrez, op. cit, pgg. 185-195.


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