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    2. Inautenticità dell’esistenza

    Carmine Di Sante

    (NPG 2007-09-18) 


    LA DE-FORMAZIONE DELL’UMANO

    Se la pienezza o perfezione è nel conformare il proprio agire all’agire gratuito di Dio, la vera minaccia dell’umano è nella difformità o allontanamento da questo metron. Questa mancata conformità è espressa, nella bibbia, con un termine austero divenuto incomprensibile non solo alla modernità secolarizzata che l’ha cancellato dal suo lessico, ma alla stessa comunità cristiana che troppe volte – per i molteplici rivestimenti semantici accumulatisi su di esso nel corso dei millenni – ne ha frainteso il significato originario neutralizzandolo o banalizzandolo.
    È il termine peccato, corrispondente al greco amartia dal quale, secondo la teologia neotestamentaria, Gesù è venuto a liberare la storia umana divenuta, per i suoi interpreti, storia di peccato. Peccato che non è, come vogliono l’illuminismo e il razionalismo, l’espressione di un umano non in grado di liberarsi dei suoi infantilismi e assumersi responsabilmente la sua autonomia, ma la denuncia-svelamento della sua irrealizzazione e alienazione.

    Autentico-inautentico

    In Essere e Tempo Heidegger ha affrontato il problema del senso dell’umano distinguendo tra esistenza autentica e inautentica. Per il filosofo tedesco l’inautenticità dell’esistenza umana è nella chiacchiera, nella curiosità e nell’equivoco, dove l’io si vive nell’impersonale del «si dice» «e del «fanno tutti così», mentre la sua autenticità sarebbe nella presa di coscienza del suo «essere per la morte»: «La morte – scrive Heidegger – è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’Esserci. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata ed insuperabile… Nessuno può assumersi il morire di un altro… Ogni Esserci deve sempre assumersi in proprio la sua morte. Nella misura in cui la morte ‘è’, essa è sempre radicalmente la mia morte» (in G. Reale-D. Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, III, Editrice La Scuola, Brescia 1983, p. 450). Per Heidegger, autentica è l’esistenza capace di guardare in faccia alla propria morte e che, guardandola in faccia e non negandola o rimuovendola, è consapevole dell’impossibile assolutezza di ogni propria possibilità, scelta o progetto.
    Pertanto autentica è l’esistenza come accettazione della propria finitezza risvegliata dalla voce della coscienza, che non si rivela attraverso l’atto di intelligenza (so di essere mortale), ma attraverso l’esperienza dell’angoscia che, per il filosofo tedesco, non è la paura della morte ma la situazione affettiva nella quale l’io «si trova innanzi al nulla della possibile impossibilità della propria esistenza» (ivi).
    Al contrario inautentica è l’esistenza che, sottratta alla presa di coscienza della propria finitezza, si affaccenda con le cose, si sprofonda nel regno del «si» anonimo e sostituisce la paura, paura sempre di qualcosa, all’angoscia, che invece è rivelazione del proprio niente: «Nell’angoscia in cospetto della morte l’Esserci viene portato dinanzi a se stesso come consegnato alla sua possibilità insuperabile. L’esistenza banale si prende cura di rovesciare questa angoscia nella paura di fronte ad un evento che sopravverrà. L’angoscia, banalizzata equivocamente in paura, viene presentata come una debolezza che un Esserci sicuro di sé non deve conoscere. Ciò che si addice, secondo il tacito decreto dell’esistenza banalizzata, è la tranquillità indifferente di fronte al ‘fatto’ che si muore» (ivi). Per Heidegger inautentica è l’esistenza segnata – invece che dall’angoscia come rivelazione della insuperabile e incancellabile finitezza di ogni propria possibilità o scelta – dalla paura che, sostituendo alla propria morte il fatto impersonale del si muore, non cosciente della propria verità che è la finitezza, per questo si banalizza, si aliena e si deforma.
    Se si è fatto riferimento alla duplice categoria heideggeriana dell’autentico e inautentico, non è per condividerne l’analisi e i contenuti – che sono quanto di più distante si possa immaginare dalla visione cristiana – ma per accendere nel lettore la coscienza che quando il Nuovo Testamento parla così insistentemente di peccato e della sua remissione per opera del messia crocifisso e risorto («Nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati»: Lc 24,47), ciò che in questo termine risuona con una potenza inaudita, non più percepita dai nostri orecchi divenuti insensibili al linguaggio biblico, non è il residuo di concezioni ingenue o infantili che promuovono al sorriso l’uomo moderno o postmoderno che noi siamo, bensì il disvelamento – per gli autori neotestamentari evangelo, l’unica «notizia bella e buona mai apparsa nella storia umana – che da inautentica l’esistenza umana può tornare a farsi autentica.

    Un’esistenza che ama Dio

    Ma in cosa consiste, per il racconto neotestamentario l’esistenza inautentica e quando essa, da inautentica, torna a farsi autentica? Raccontano i vangeli che un giorno alcuni dottori della legge chiesero a Gesù quale, tra tutti i comandamenti, fosse «il più grande»: secondo l’originale matteano, «il comandamento grande» (mandatum magnum, come traduce fedelmente il latino, mentre secondo la versione marciana «il primo di tutti i comandamenti» (primum omnium mandatum). La risposta di Gesù è nota: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22, 37-40).
    Per Gesù, nella cui risposta si riassume e radicalizza tutta la bibbia, autentica è l’esistenza che ama Dio e, poiché amare Dio è volere il suo volere, e il suo volere è che l’uomo ami il prossimo, l’esistenza autentica è l’esistenza caratterizzata dall’amore al prossimo. Di qui, secondo la bibbia, i due tratti dell’esistenza autentica: l’amore per Dio e l’amore per il prossimo che, più che due comandamenti, in realtà sono i due momenti costitutivi e inscindibili di ogni comandamento: rispettivamente la forma (fare proprio il volere divino) e il contenuto (il volere divino è che l’io ami l’altro da sé che è il prossimo).
    Se autentico è ciò che è irriducibilmente proprio, nel senso che solo il proprio io o sé (autos) può compiere e nessun altro al suo posto, per la bibbia autentica è l’esistenza dove l’io ama l’altro da sé disinteressatamente come Dio. Se per Heidegger il proprio dell’io, ciò che solo l’io può fare e nessun altro – la sua autenticità – è di guardare in faccia alla sua morte perché nessun altro può morire al suo posto, per la bibbia l’autenticità dell’io è nell’amare l’altro da sé preoccupandosi della sua morte più che della propria.
    Sul piano dell’esperienza vissuta, infatti, chi ama – come osserva il filosofo francese E. Lévinas – più che la sua teme la morte della persona amata alla quale tiene più di se stesso: «Ma non è il mio non-essere ad essere angosciante, ma quello dell’amato o dell’altro, più amato del mio essere. Ciò che viene chiamato, con un termine un po’ affettato, ‘amore’, è per eccellenza il fatto che la morte dell’altro mi addolora più della mia. L’amore per l’altro è l’emozione per la morte dell’altro» (Dio, la morte e il tempo, Jaca Book, Milano 1996, p. 21).
    Più che assunzione della propria finitezza – suprema autocoscienza e rischio di narcisismo! – per la bibbia l’esistenza autentica è amore e responsabilità. Responsabilità di fronte a Dio e responsabilità di fronte all’uomo: di fronte a Dio, del quale riconoscere l’anteriorità e la bontà dal quale in ogni istante si è «creati», cioè originati e generati per amore (primo comandamento); di fronte all’uomo, del cui bisogno e della cui alterità prendersi cura assumendo il volere divino come principio del proprio agire (secondo comandamento).
    Due forme di responsabilità che non sono l’una successiva all’altra (prima responsabili di fronte a Dio e poi di fronte all’uomo), ma l’una dentro l’altra (si è responsabili di fronte a Dio dentro la responsabilità di fronte all’uomo e viceversa), come svela Gesù nella sua celebre parabola sul giudizio finale identificandosi con il figlio dell’uomo quando, nella pienezza della sua gloria, giudicherà tutte le genti separando, come il pastore, le «pecore» dai «capri», cioè i buoni dai cattivi, e assumendo, come unico criterio di valutazione, la responsabilità anonima e quotidiana nei confronti del prossimo in situazione di bisogno: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,35-36).
    Ciò che, per la bibbia, fa autentica l’esistenza è la bontà: non la grande bontà, ma la piccola bontà, come quella di Lorenzo che, come ricorda Primo Levi in Se questo è un uomo, si esprimeva nel condividere con lui, ad Auschwitz, «un pezzo di pane e gli avanzi del suo rancio ogni giorno per sei mesi». Nel lager dove non c’erano più uomini perché la loro umanità era stata sepolta, «Lorenzo – scrive Levi – era un uomo, la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo» (Einaudi, Torino 1973, p. 163). Autentica per la bibbia è l’esistenza la cui altezza e bellezza non si iscrivono nelle opere e monumenti epici, artitistici, razionali o letterari, ma nei frutti che sfamano e danno gioia all’altro e che per Paolo si chiamano «amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5, 22).

    Peccato come autoreferenzialità

    Se autentica è l’esistenza segnata dalla bontà, dalla responsabilità e dalla giustizia, inautentica è quella in cui l’io – recidendo il duplice legame con Dio e il prossimo, con l’amore di Dio istitutivo dell’amore per il prossimo – si fa io autoreferenziale, e la sua finitezza, da finitezza dall’amore e per l’amore, si degrada in solipsismo e nichilismo.
    Peccato è il termine biblico per questa autoreferenzialità con cui l’uomo si recide – si taglia e svincola – dalla sua origine e dal suo fine, dall’amore divino dal quale è originato e dall’amore per l’uomo al quale è destinato, e si condanna all’inautenticità. Che non è, come in Heidegger, una modalità dell’essere, indipendente dalla volontà dell’io, ma libera scelta che, reiterata, si occulta come tale e – secondo la felice formula ossimorica di Bultmann – si trasforma in «colpa fatale»: colpa della quale non si ha più coscienza e dalla quale, come da una seconda natura, si è condizionati e determinati.
    Per la bibbia, ciò che deforma l’umano e rende l’esistenza inautentica è il peccato, che è tradimento dell’alleanza. Se l’alleanza è la forma dell’umano, la sua rottura e tradimento ne sono la deformazione e negazione radicale.

    LE DEFORMAZIONI DELL’UMANO

    Deformazione dell’umano e sua negazione, il peccato è coniugato da Paolo sia al singolare (Rm 5,12.21; 6 16-17; 7,9ss) che al plurale (Rm 4,7; 7,5; 1Cor 15,3). Egli parla cioè sia di peccato che di peccati, anche se per esprimere questi ultimi ricorre preferibilmente ad altri termini – più di una ventina – tra i quali caduta (paraptoma), trasgressione (parabasis), ingiustizia (adikia), cattiveria (kakia), ecc. Il peccato per l’apostolo è come una potenza personificata che opera nell’uomo e per mezzo dell’uomo contro di lui e il suo volere stesso.
    Se il peccato è il tradimento dell’alleanza, e il tradimento dell’alleanza è la deformazione dell’umano, la deformazione dell’umano – il non essere all’altezza di se stesso – è, per Paolo, come una malattia o virus che nascostamente e subdolamente sforma e deforma tutto ciò che incontra. Questa potenza deformante avvolge tutti indistintamente, come afferma nella lettera ai Romani:

    Giudei e Greci, tutti, sono sotto
    il dominio del peccato, come sta scritto:
    Non c’è nessun giusto, nemmeno uno,
    non c’è sapiente, non c’è chi cerchi Dio!
    Tutti hanno traviato e si son pervertiti;
    non c’è chi compia il bene,
    non ce n’è neppure uno.
    La loro gola è un sepolcro spalancato,
    tramano inganni con la loro lingua,
    veleno di serpenti è sotto le loro labbra,
    la loro bocca è piena di maledizione
    e di amarezza.
    I loro piedi corrono a versare il sangue;
    strage e rovina è sul loro cammino
    e la via della pace non conoscono.
    Non c’è timore di Dio
    davanti ai loro occhi (Rm 3, 9-18).

    Il peccato, negazione dell’alterità

    Per Paolo la potenza deformante del peccato avvolge e sconvolge tutti gli uomini (pantes), indipendentemente dalle loro collocazioni religiose e culturali, che, nel mondo allora conosciuto, si riducevano ai noti paradigmi contrapposti dell’ebraismo (Ioudaioi, i giudei) e dell’ellenismo (Ellenes, i greci). Invisibile o comunque non riconoscibile facilmente, la potenza deformante del peccato si oggettiva nei peccati che, messa in opera del peccato, hanno tutti il seguente tratto: la relazione negativa e distruttiva nei confronti dell’alterità dell’altro, a partire da quel primo altro che è l’io di fronte al suo stesso io.
    Negazione dell’alleanza, il peccato è sconnessione, frattura e rottura con cui l’io da io per l’altro, si converte e perverte in io contro l’altro; da io elevato e costituito donatore di vita e di amore all’altro, in io indifferente promotore di sofferenza e di morte. La pagina esemplare del fondo oscuro del peccato è il gesto omicida di Caino, la cui mano, da protettiva e carezzevole, si trasforma in arma con la quale uccide e nientifica il fratello: «Caino disse al fratello Abele: ‘Andiamo in campagna!’. Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise» (Gn 4, 8).
    In ogni peccato si annuncia l’inaudito dell’omicidio, estrema violenza che nega l’altro non rispondendo al suo appello e donandogli – parodia abissale del donare – la morte. Negare è «non-dire di sì» (ne-aiere) all’altro; ma non dire di sì all’altro, per la bibbia, è non rispondere all’appello del suo volto che, come vuole Lévinas, è la parola originaria instauratrice dell’umano: «Vedere un volto è già intendere: ‘tu non ucciderai’. Intendere: ‘tu non ucciderai’ è intendere: ‘giustizia sociale’. Quanto posso intendere di Dio e da Dio, che è invisibile, deve essere giunto fino a me attraverso la stessa – unica – voce» (Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, Jaca Book, Milano 2004, pp. 23-24).
    Prima che con la mano, prolungamento della freccia o della spada, che si innalza contro («Caino alzò la mano verso il fratello Abele e lo uccise»: Gn 4, 5), l’io sottrae la vita all’altro con l’indifferenza, cancellazione dell’appello che, iscritto nel suo volto, lo costituisce da sempre suo custode: «Allora il Signore disse a Caino: ‘Dov’è Abele tuo fratello?’. Egli rispose: ‘Non lo so’. Sono forse il guardiano di mio fratello?’» (Gn 4,9). Caino ha perso la coscienza di essere il custode del fratello e, in questo «non sapere», suprema indifferenza, la sua mano si è costituita violenta. In ogni gesto di non risposta – definizione dell’indifferenza – si anticipa e annuncia la figura dell’omicidio, e se negare è «non dire sì all’altro», ogni negazione, per la bibbia, per questo è anche uccisione, ogni negare anche un necare, un «togliere la vita», come risuona ancora nel termine «annegare».
    È questa la ragione per la quale il comandamento biblico: «tu non ucciderai», più che vietare il gesto estremo dell’omicidio, prescrive in realtà, come vuole Lévinas, la giustizia sociale: «‘Non ucciderai’ è intendere: ‘giustizia sociale’». Non è infatti vero che l’ingiustizia, in tutte le sue forme, da quelle più visibili e stridenti a quelle mascherate, rimosse, contraffatte o cancellate, causa violenza e morti più della mano del reo confesso?

    I peccati

    Oggettivazione del peccato, la violenza cresce e attecchisce nelle profondità della soggettività umana che la bibbia chiama «cuore», ma si esterna in una pluralità di atti e di azioni – i peccati – la cui numerazione varia di epoca in epoca a seconda delle condizioni culturali e delle aree sociali. Di questi peccati anche la bibbia tramanda alcuni elenchi o liste.
    Per Marco il primo elenco risale a Gesù stesso, in occasione del suo insegnamento sul puro e l’impuro, su cosa danneggia veramente l’uomo contaminandolo: «Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo» (Mc 7, 14-16). Alla sorpresa dei discepoli che trovano incomprensibile la sua affermazione, Gesù chiarisce: «’Siete anche voi così privi di intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?’. Dichiarava così mondi tutti gli alimenti. Quindi soggiunse: ‘Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo’» (Mc 7, 18-23).
    Per Gesù ciò che mette in pericolo il corpo umano, la sua soggettività, e lo deforma è il peccato; e il peccato – la relazione di amore negata all’altro – non attinge all’esterno ma all’interno, al proprio «cuore», alla parte segreta e più nascosta del proprio io, dove l’io è solo e nella sua solitudine risuona il comandamento divino di non uccidere iscritto nel volto dell’altro. Ma oltre che rimandare alla radice del proprio cuore dove accade l’evento del peccato come scelta di non rispondere all’altro, Gesù offre anche un elenco di dodici peccati nei quali prende corpo il peccato: «fornicazioni (porneiai), furti (klopai), omicidi (phonoi), adultèri (moikeiai), cupidigie (pleonexiai), malvagità (poneriai), inganno (dolos), impudicizia (aselgeia), invidia (ophtalmos poneros: letteralmente: occhio cattivo), calunnia (blasphemia), superbia (yperephania), stoltezza (aphrosyne)».

    Ma è soprattutto nei testi paolini che si ritrovano vari elenchi o liste.
    * Il più celebre è nella lettera ai Romani, dove l’apostolo parla dei pagani oggetto della collera o ira divina (orge), il termine per eccellenza che, nella bibbia, custodisce l’irriducibile differenza tra l’esistenza autentica e inautentica, l’esistenza come esistenza per l’altro, che Dio «giustifica» perché la ritiene «giusta», e l’esistenza dominata dal peccato che ritiene «ingiusta»: «Dio li ha abbandonati in balìa d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d’invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa» (Rm 1, 28-32).
    Questo giudizio severo di Paolo sul paganesimo però è subito dopo contraddetto quando afferma che anche i pagani, non diversamente dagli ebrei, sono sotto la legge divina «scritta nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti» (Rm 2,15). La sua condanna sul paganesimo pertanto non va presa alla lettera e universalizzata, ma interpretata criticamente comprendendo che il suo intento non è di valutare oggettivamente i comportamenti del mondo pagano, ma denunciare le deformazioni che, dentro e fuori del mondo pagano, deformano l’umano. Di qui il lungo elenco delle «cose indegne» (ta me katekonta: ciò che è sconveniente nel senso che su di esso non si con-viene): ingiustizia (adikia), malvagità (poneria), cupidigia (pleonexia), malizia (kakia), invidia (phtonos), omicidio (phonos), rivalità (eris), frode (dolos), malignità (kakoetheia); a cui segue quello di coloro che si macchiano di cose indegne: diffamatore (psithiristes), maldicente (katalalos), nemico di Dio (theostiges), oltraggioso (ybristes), superbo (yperephanos), fanfarone (alazon), ingegnoso nel male (euretes kakon), ribelle ai genitori (goneusin apeithes), insensato (asynetos), sleale (asyntethos), senza cuore (astorgos), senza misericordia (aneleemon).

    Oltre che nella lettera ai Romani, elenchi di peccati si trovano anche in altri testi paolini. Il primo è nella prima lettera ai Corinti, dove alla litigiosa comunità cristiana Paolo ricorda: «Non illudetevi: né immorali (pornoi), né idolatri (eidololatrai), né adulteri (moikoi), né effeminati (malakoi), né sodomiti (arsenokoitai), né ladri (kleptai), né avari (pleonektai), né ubriaconi (methysoi), né maldicenti (loidoroi), né rapaci (arpages) erediteranno il regno di Dio» (1Cor 6, 9-10).

    Il secondo è nella seconda lettera ai Corinti, dove Paolo invita la comunità ad evitare, al suo arrivo, «contesa (eris), invidia (zelos), animosità (thymoi), dissensi (eritheiai), maldicenze (katalaliai), insinuazioni (psythyrismoi), superbie (physioseis), disordini (akathastasiai)» e a convertirsi «dalle impurità (akatharsia), dalla fornicazione (porneia) e dalle dissolutezze (aselgeia)» (2Cor 12,20).

    Il terzo elenco di peccati si legge nella lettera ai Galati, dove Paolo parla delle «opere della carne», le opere prodotte dall’io la cui esistenza è inautentica perché separata da Dio e dai fratelli: «le opere della carne sono ben note: fornicazione (porneia), impurità (akatharsia), libertinaggio (aselgeia), idolatria (eidololatria), stregonerie (pharmakeia), inimicizie (ekthrai), rissa (eris), gelosia (zelos), ire (thymoi), rivalità (eritheiai), divisioni (dikostasiai), fazioni (aireseis), invidie (phonoi), ubriachezze (methai), orge (komoi) e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio» (Gal 5, 19-21).

    Il quarto elenco è nella lettera ai Colossesi, dove l’apostolo esorta la comunità a passare alla vita autentica – la vita conforme alla vita del risorto – «mortificando», cioè dichiarando morte alla vita inautentica qualificata da Paolo come vita «terrestre», abbarbicata alla terra: «Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione (porneia), impurità (akatharsia), passione (pathos), desiderio cattivo (epithymia kake) e quella avarizia insaziabile (pleonexia) che è idolatria (eidolatria), cose tutte che attirano l’ira di Dio su coloro che disobbediscono. Anche voi un tempo eravate così, quando la vostra vita era immersa in questi vizi. Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira (orge), passione (tymos), malizia (kakia), maldicenze (blasphemia) e parole oscene (aiskrologia) dalla vostra bocca» (Col 3, 3-8).

    Il quinto elenco è nella seconda lettera a Timoteo, dove l’apostolo invita «il suo amato figlio» a rimanere saldo negli «ultimi tempi», quando il male sembra trionfare in tutta la sua potenza: «Gli uomini saranno egoisti (philautoi), amanti del denaro (philargyroi), vanitosi (alazontes), orgogliosi (yperephanoi), bestemmiatori (blasphemoi), ribelli ai genitori (goneusin apeitheis), ingrati (akaristoi), senza religione (anosioi), senza amore (astorgoi), sleali (aspondoi), maldicenti (diaboloi), intemperanti (akrateis), intrattabili (anemoroi), nemici del bene (aphilagathoi), traditori (prodotai), sfrontati (propeteis), accecati dall’orgoglio (tetyphomenoi), attaccati ai piaceri (philedonoi) più che a Dio (philotehoi), con la parvenza della pietà, mentre ne hanno rinnegata la forza interiore (ekontes morphosin eusebeias, ten de dynamin autes ernemenoi). Guardati bene da costoro!» (2Tim 3,5; cf anche 1Tim 6, 9-10).
    Per una corretta interpretazione di questi elenchi di peccati riportati nel Nuovo Testamento, si tengano presenti due criteri ermeneutici fondamentali: che essi rispondono ad una esigenza retorico-stilistica, per colpire il lettore e permetterne più facilmente la memorizzazione, e che molti di essi si ritrovano, oltre che negli autori neotestamentari e negli scritti ellenistico-giudaici, quali Filone e Giuseppe Flavio, anche in scrittori extrabiblici contemporanei, quali Epicuro e Arriano, quest’ultimo uno storico greco del primo secolo dell’era cristiana.


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