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    L’impegno cristiano nel politico


    Dottrina sociale della chiesa /6

    Luis A. Gallo

    (NPG 2007-07-49)


    Insieme a quella economica, altra componente fondamentale della convivenza sociale collettiva è quella politica. Più di una volta la si è pensata – e la si continua a pensare – in maniera negativa. Quasi sempre come reazione davanti ad una forma inadeguata di attuarla. Di per sé invece è un elemento vitale della convivenza umana. Anche questo elemento deve essere confrontato con la proposta di una convivenza alternativa fatta da Gesù, e incontrare in essa i suoi criteri-guida.
    Giovanni Paolo II, nell’udienza ai partecipanti all’incontro promosso dalla fondazione «Robert Schumann» per la cooperazione dei democratici cristiani d’Europa, avvertiva:

    «Le osservazioni fatte spesso contro l’attività politica non giustificano un atteggiamento di scetticismo disimpegnato da parte del cattolico, che invece ha il dovere di assumersi la responsabilità per il benessere della società. Non è sufficiente chiedere la costruzione di una società giusta e fraterna. Occorre anche lavorare in maniera impegnata e competente per la promozione dei valori umani perenni nella vita pubblica, conformemente ai metodi corretti propri all’attività politica» (7 novembre 2003).

    L’AMBITO DEL POLITICO

    Alcuni decenni fa la Conferenza Episcopale di Puebla propose un pregevole chiarimento su questo tema, che può essere illuminante per il nostro obiettivo. È questo:

    «Si devono distinguere due concetti di politica e di impegno politico. La politica in un primo senso più ampio, è quella che mira al bene comune, tanto nazionale quanto internazionale. Le tocca precisare i valori fondamentali di ogni comunità – concordia interna e sicurezza esterna – conciliando l’uguaglianza con la libertà, l’autorità pubblica con la legittima autonomia e con la partecipazione delle persone e dei gruppi, la sovranità nazionale con la convivenza e solidarietà internazionale. Definisce anche i mezzi e l’etica della relazioni sociali […]. Ma la realizzazione concreta di questo compito politico fondamentale si ottiene attraverso raggruppamenti di cittadini che si propongono di conseguire e di esercitare il potere politico, per risolvere le questioni economiche, politiche e sociali, secondo i propri criteri e ideologie. In questo secondo senso si può parlare di ‘politica’ di partito» (nn. 521.523, corsivi nostri).

    In maniera più sintetica si può dire che il politico in generale è l’ambito dell’organizzazione e della conduzione della vita collettiva (nazionale o internazionale), e al suo interno dell’esercizio del potere in ordine ad essa.

    Brevi cenni storici

    La convivenza collettiva umana richiede indubbiamente a tutti i livelli una certa organizzazione, nella quale il potere svolge una funzione propria e indispensabile. Non è il caso di rivisitare l’intera storia di tale organizzazione. Ci soffermiamo soltanto sul passaggio dalla monarchia alla democrazia, che è il regime politico più comune ai giorni nostri.

    La monarchia come forma di organizzazione sociale

    La monarchia, come forma di convivenza collettiva organizzata, è stata in vigore per millenni nell’umanità in differenti modalità.
    Caratteristica principale di tale sistema è, come permette di coglierlo la stessa etimologia della parola (mónos = uno solo; arché, archía = principio, potere, governo), la concentrazione del potere in una sola persona, la cui volontà ha valore di legge assoluta che tutti i sudditi sono tenuti ad accogliere ed eseguire.
    Ordinariamente tale potere veniva sacralizzato: lo si riteneva proveniente direttamente dalla divinità, il che gli conferiva un carattere ancora maggiormente assoluto. Anche negli scritti neotestamentari si legge: «Ogni potere viene da Dio» (Rom 13,1), e come si è visto nel tema precedente, la Chiesa ha continuato a pensare così per molti secoli.

    L’impatto della modernità

    Il movimento culturale della modernità, che ebbe come obiettivo supremo l’emancipazione dell’uomo, mise in crisi tale modo di pensare. Come è risaputo, l’aspirazione fondamentale di tale movimento è come condensato nella celebre frase di E. Kant: «Abbi il coraggio di pensare con la tua testa» («Auge cogitare»). Si proponeva di strappare l’uomo dal suo stato di minorità e di farlo passare alla sua condizione di adulto, portarlo a reggersi sui propri piedi, ad essere capace di camminare da solo senza bisogno di appoggiarsi su altri (autorità politica, religiosa, scientifica…).
    Le ripercussioni di tale emancipazioni furono svariate.
    In ambito religioso aprì la strada al razionalismo, che eresse a criterio supremo di verità la ragione umana e negò di conseguenza il valore di ogni verità che pretendesse di superarla (i dogmi), ribellandosi così ad ogni «magistero» ecclesiale. La Chiesa, che predicava verità «misteriose», venne vista come oscurantista.
    In ambito politico mise naturalmente in crisi il sistema monarchico in quanto sistema che favoriva la minorità di quelli che non governavano, e propugnò la democrazia, ritenuta la forma più adeguata per una convivenza di esseri adulti. Alla luce delle sue idee tanto le monarchie quanto le colonie crollarono una dopo l’altra, cedendo il posto a forme più partecipate di esercizio del potere. Era il modo di ottenere l’affrancamento, e con essa la maggiore libertà, della persona e dei popoli.
    La Chiesa istituzionale non vide con buoni occhi tale cambio, perché ravvisava in esso un pericolo per la fede. Inoltre, dato che era abituata a considerare l’autorità come proveniente da Dio (cf «Diuturnum illud» di Leone XIII), conservò per parecchio tempo una certa nostalgia per la monarchia, e vide con notevole sfiducia il sorgere e l’avanzare della democrazia, che ritenne un’espressione del liberalismo moderno. Una volta superata tale sfiducia, inizialmente con lo stesso Leone XIII e poi con i papi che gli seguirono, si andò aprendo sempre di più alla sua accettazione. Bastino per confermarlo due testi recenti nei quali tale accettazione viene palesemente dichiarata:

    «La Chiesa apprezza il sistema della democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche e garantisce ai governati la possibilità sia di eleggere e controllare i propri governanti, sia di sostituirli in modo pacifico, ove ciò risulti opportuno. Essa, pertanto, non può favorire la formazione di gruppi dirigenti ristretti, i quali per interessi particolari o per fini ideologici usurpano il potere dello Stato» (Giovanni Paolo II, «Centesimus Annus» n. 46, che si rifà alla «Gaudium et Spes» n. 29).

    «Se oggi si registra un consenso pressoché universale sul valore della democrazia, ciò va considerato un positivo ‘segno dei tempi’, come anche il Magistero della Chiesa ha più volte rilevato» (Giovanni Paolo II, «Evangelium Vitae» n. 70).

    In quest’ultima citazione, come si vede, la democrazia viene valorizzata come un «segno dei tempi» e, per di più, «positivo», facendo notare – forse con un po’ di ottimismo – che tale è stato il giudizio del Magistero «più volte» (vengono citati solo il «Radiomessaggio di Pío XII del 24.12.44 e la «Centesimus Annus»).
    Non è quindi da stupirsi del fatto che il recente «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa», dopo aver affermato al n. 495 che «il soggetto dell’autorità politica è il popolo, considerato nella sua totalità come detentore della sovranità», dedichi la parte IV del capitolo VIII (nn. 406-416) al tema della democrazia e ai suoi diversi aspetti.

    L’ETICA POLITICA SECONDO IL MAGISTERO ECCLESIALE

    Anche per ciò che riguarda la dimensione etica della politica, come nei confronti di quella economica, il Magistero della Chiesa degli ultimi decenni è andato accompagnando con il suo discernimento evangelico il cammino fatto dall’umanità. Ne raccogliamo alcuni dei punti più importanti.

    Importanza della comunità politica

    * Negli ultimi secoli si è andata consolidando la distinzione tra comunità civile e comunità politica che precedentemente non era stata né chiaramente percepita né manifestamente attuata. Ciò ha portato a precisare i concetti e a chiarire i rapporti tra le due realtà.
    La comunità civile è

    «un insieme di relazioni e di risorse, culturali e associative, relativamente autonome dall’ambito sia politico sia economico […]. Essa è caratterizzata da una propria capacità di progetto, orientata a favorire una convivenza sociale più libera e più giusta, in cui vari gruppi di cittadini si associano, mobilitandosi per elaborare ed esprimere i propri orientamenti, per far fronte ai loro bisogni fondamentali, per difendere legittimi interessi» («Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» n. 417).

    Tra i gruppi accennati alcuni sono oggi particolarmente rilevanti per la loro incidenza nella convivenza civile.
    Anzitutto i sindacati, ossia le associazioni o unioni che hanno come finalità la difesa degli interessi vitali di uomini e donne impiegati nelle varie professioni. Essi hanno avuto un ruolo decisivo nel rinnovamento della vita collettiva a partire dal sec. XIX. Si può perciò dire che hanno già una lunga storia dietro di sé, e che in più di un caso sono andati modificandosi dietro sollecitazione delle nuove circostanze che si sono affacciate alla vita sociale. Sin dal primo intervento del Magistero nella nuova tappa della sua dottrina sociale, ossia la «Rerum Novarum», essi sono stati positivamente valorizzati in ordine alla difesa dell’inalienabile dignità dei lavoratori.
    Il «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa», fondandosi sui numerosi interventi magisteriali rivisitati (particolarmente la «Laborem exercens»), dichiara che sono «un elemento indispensabile della vita sociale» (n. 305). E aggiunge che, date le caratteristiche del contesto socio-economico odierno, caratterizzato da processi di globalizzazione economico-finanziaria sempre più rapidi, essi «sono chiamati ad agire in forme nuove» (n. 308).
    Il Terzo Settore è invece una realtà emergente tra i due pilastri dello Stato e del Mercato (rispettivamente Primo e Secondo Settore), un insieme di organizzazioni che non appartengono né alla sfera statale né al mondo delle imprese con scopo di lucro. In generale esso rimanda ad aspetti quali una grande ricchezza di soggettività e operatività, legati ad un complesso di risorse, materiali e immateriali, messe in campo in termini di solidarietà attiva, di relazionalità e autorganizzazione, di imprenditività cooperativa e sociale. In esso trovano posto una pluralità di soggetti che operano in organizzazioni la cui finalità è quella di risolvere problemi (piuttosto che di occupare nuovi segmenti di mercato): associazioni non riconosciute, cooperative sociali, organizzazioni non governative (ONG), ecc. Lo spazio occupato da esso è sempre più largo nella società attuale, particolarmente nel mondo cosiddetto sviluppato.
    Anche se ancora non molto presente nei documenti magisteriali, viene tuttavia riconosciuto nella sua importanza dal «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa», dove sostiene che le sue attività «costituiscono le modalità più adeguate per sviluppare la dimensione sociale della persona, che in tali attività può trovare spazio per esprimersi compiutamente» (n. 419).
    In tempi recenti all’interno di questo Terzo Settore è andato acquistando notevole rilevanza sociale e culturale il Volontariato. Lo costituiscono quei cittadini che liberamente, non in esecuzione di specifici obblighi morali o doveri giuridici, ispirano la loro vita – nel pubblico e nel privato – a fini di solidarietà. Pertanto, adempiuti i loro doveri civili e di stato, si pongono a disinteressata disposizione della comunità, promovendo una risposta creativa ai bisogni emergenti dal territorio con attenzione prioritaria per i poveri, gli emarginati, i senza potere. Essi impegnano energie, capacità, tempo ed eventuali mezzi di cui dispongono, in iniziative di condivisione realizzate preferibilmente attraverso l’azione di gruppo. Iniziative aperte a una leale collaborazione con le pubbliche istituzioni e le forze sociali; condotte con adeguata preparazione specifica; attuate con continuità di interventi, destinati sia a servizi immediati che alla indispensabile rimozione delle cause di ingiustizia e di ogni oppressione della persona (cf L. Tavazza).
    Come il Terzo Settore, esso non è stato ancora fatto oggetto di frequente considerazione nei grandi documenti del Magistero sociale; ma se ne occupa ugualmente il «Compendio della Dottrina sociale» al n. 420, parlando della cooperazione come una della risposte più forti alla logica del conflitto e della concorrenza senza limiti, oggi prevalente. In tale contesto afferma che

    «molte esperienze di volontariato costituiscono un ulteriore esempio di grande valore, che spinge a considerare la società civile come luogo ove sempre è possibile la ricomposizione di un’etica pubblica centrata sulla solidarietà, sulla collaborazione concreta, sul dialogo fraterno».

    Va rilevato che la comunità civile non è un semplice aggregato di gruppi che regolamentano i loro rapporti in termini di intercambio corporativo. Ciò che la distingue da tale aggregato è il fatto di possedere un ethos collettivo condiviso, un modo comune di concepire il dover essere.
    La comunità politica, in quanto tale, è posteriore ad essa, come afferma la «Gaudium et Spes»:

    «Gli uomini, le famiglie e i diversi gruppi che formano la comunità civile sono consapevoli di non essere in grado, da soli, di costruire una vita capace di rispondere pienamente alle esigenze della natura umana e avvertono la necessità di una comunità più ampia, nella quale tutti rechino quotidianamente il contributo delle proprie capacità, allo scopo di raggiungere sempre meglio il bene comune» (n. 74).

    La comunità civile e quella politica non sono uguali quindi nella gerarchia dei fini: la seconda è al servizio della prima, perché è in essa che trova giustificazione (cf «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa n. 418).
    Occorre notare che la comunità politica non sorge dalla semplice necessità di una auto-conservazione razionale e calcolata, né da uno scadimento dell’umanità primitiva, né è un male necessario che bisogna accettare con rassegnazione. Non sorge solo da un atto di volontà comune, o grazie ad un consenso sociale, o semplicemente da un dialogo pubblico che la fonda indipendentemente dalle persone e le loro idee. Sorge invece dalla natura stessa delle persone in quanto esseri liberi e responsabili che cercano dal più profondo del loro essere la propria realizzazione umana, attraverso la ricerca della verità e del bene comune.
    Por questo essa è una realtà positiva, connaturale agli uomini che le danno origine sulla base della fraternità e della reciproca amicizia, grazie anche ad un’organizzazione adeguata per ottenere, con la collaborazione di tutti e in forma stabile, un fine comune che altrimenti non potrebbe raggiungere: la piena realizzazione di ognuno.
    In poche parole, la comunità politica nasce dalla comunità civile ed è a suo servizio, cioè, perché essa si realizzi umanamente secondo le sue più profonde aspirazioni.

    * Oltre a distinguere tra comunità civile e comunità politica, è necessario distinguere anche quest’ultima dallo Stato. Frequentemente vengono identificati, ma in realtà non sono la stessa cosa.
    Lo Stato è quella parte della comunità politica a cui incombe far osservare le leggi, animare il benessere comune e l’ordine pubblico, così come amministrare la cosa pubblica. È un insieme di istituzioni che hanno il compito di regolare le differenti società civili in quegli aspetti che si riferiscono alla realizzazione del bene comune. È un organo abilitato e qualificato per usare il potere, costituito da esperti e specialisti nell’ordine e benessere pubblico.

    * Ad un certo momento storico, per diverse cause che vengono studiate dai competenti in materia, cominciarono a formarsi, all’interno degli Stati democratici, i partiti politici. La loro funzione è attualmente tanto quella di esprimere le differenti posizioni dei cittadini circa gli ideali che devono orientare l’andamento dello Stato e della società, come quella di comunicare all’opinione pubblica gli aspetti più rilevanti che devono affrontare l’amministrazione pubblica e i differenti sistemi sociali.
    Se i partiti politici non si sforzano di rappresentare gli interessi legittimi della società si corre il rischio che la dialettica si infranga, e con ciò si guasti la qualità della rappresentanza e persista la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche.

    Senso genuino del potere politico

    Lo Stato, come organizzazione politica al servizio della società civile, per raggiungere la sua finalità è quindi dotato di potere.
    Per «potere» s’intende, secondo la classica definizione degli antichi, la facoltà di decidere, con il conseguente obbligo degli altri di assoggettarsi a tale decisione. È una facoltà che si può esercitare – e di fatto viene esercitata – in svariati ambiti: familiare, scolastico, sportivo, religioso, ecc. Quello che si esercita nei riguardi della convivenza collettiva o società civile organizzata politicamente è, appunto, potere politico.
    È importante distinguere tra «potere» e «autorità». Quest’ultima ha un significato più ampio che il primo, poiché include anche quella che viene chiamata «autorità morale», la quale esclude ogni forma di coazione, mentre invece il potere la comporta. Di Gesù i vangeli dicono che «insegnava con autorità» (Mt 7,29 e par.), ma niente è più lontano da quella sua autorità che la coazione. Gesù «proponeva, non imponeva». Il potere politico invece è un tipo di autorità che si esercita anche con una componente di coazione: i sudditi devono accogliere le sue decisioni, pena l’incorrere in alcuni casi in castighi di diverso genere.
    Tale potere non è di per sé qualcosa di negativo, come a volte lo si è considerato. Ovviamente, sotto certe condizioni. Dice al riguardo la «Gaudium et Spes»:

    «Nella comunità politica si riuniscono insieme uomini numerosi e differenti, che legittimamente possono indirizzarsi verso decisioni diverse. Affinché la comunità politica non venga rovinata dal divergere di ciascuno verso la propria opinione, è necessaria un’autorità capace di dirigere le energie di tutti i cittadini verso il bene comune, non in forma meccanica o dispotica, ma prima di tutto come forza morale che si appoggia sulla libertà e sul senso di responsabilità.» (n.74b; cf «Pacem in terris» n.26).

    La Costituzione pastorale, come si vede, oltre a riconoscere quanto sia indispensabile questo tipo di autorità che presiede la comunità politica, indica anche alcune condizioni del suo esercizio: che non sia esercitato in maniera meccanica o dispotica, ma «prima di tutto» come forza morale.
    In concreto, essa suppone la coscienza della sua natura di servizio. Il fine del potere non è il dominio – tentazione frequente di chi governa –, ma il servizio. Ciò che Gesù affermò sul modo di esercitare l’autorità nella comunità ecclesiale (Mc 10,42-45 e par.), vale analogamente per la comunità politica.
    Perciò, alla luce della proposta evangelica del regno di Dio, il potere politico non è illimitato nel suo esercizio. I limiti gli provengono precisamente dal fatto di essere a servizio del bene comune.

    La finalità del potere politico: il bene comune

    Il fine ultimo e il criterio supremo dello Stato è, quindi, il servizio al bene comune. È perciò importante capire il significato e le principali caratteristiche di tale bene.

    Il concetto di bene comune

    In successivi documenti il Magistero della Chiesa è andato fornendo diverse definizioni di bene comune, e precisando sempre maggiormente il suo concetto. Le raccogliamo sinteticamente.
    Pio XI affermava nella «Divini Illius Magistri» che il bene comune «consiste nella pace e sicurezza, onde le famiglie e i singoli cittadini godono nell’esercizio dei loro diritti, e insieme nel maggior benessere spirituale e materiale che sia possibile nella vita presente, mediante l’unione e il coordinamento dell’opera di tutti».
    Nel suo «Radiomessaggio del Natale 1942», Pio XII lo identificava con quelle condizioni esterne che sono necessarie all’insieme dei cittadini per lo sviluppo delle loro qualità e dei loro mestieri, della loro vita materiale, intellettuale e religiosa.
    Più tardi Giovanni XXIII, nella «Mater et Magistra», in cui faceva frequenti riferimenti ad esso, lasciava intravedere che il bene comune, come diceva esplicitamente al n. 51, era «l’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona».
    Lo stesso papa, nell’Enciclica «Pacem in terris», affermava che nell’epoca attuale si considerava che il bene comune consisteva principalmente nella difesa dei doveri e dei diritti della persona umana (n. 36).
    Infine il Vaticano II sostenne nella «Gaudium et spes» che il bene comune abbraccia l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente (n. 26a).
    Questo modo di intenderlo da parte del Magistero della Chiesa differisce manifestamente da altri che circolano nella società attuale. Anzitutto da quello che propugnano i sistemi politici collettivisti, i quali considerano il bene comune come la somma di valori sociali per il servizio della comunità, e subordinano la persona al fine della società, identificando così il bene comune con il bene sociale. Ma poi anche da quello che propugnano i sistemi politici liberali, i quali professano la priorità dell’individuo sulla società e lo Stato, ma trascurano l’attenzione alle condizioni sociali.

    Le caratteristiche del bene comune

    In primo luogo, il bene comune è un bene, non un male.
    Non si possono considerare come elementi principali del bene comune alcune determinazioni negative della vita sociale. Per esempio, quella di porre freno ai malcostumi della vita sociale mediante un intervento legislativo, senza procurare i mezzi necessari per evitare che si ingenerino. Il bene non è la mera interdizione del male.
    Il bene comune non è, in secondo luogo, qualcosa di automatico, ma qualcosa che deve essere costruito con l’impegno di tutti i singoli cittadini e dei gruppi che costituiscono la società civile, mediante il rispetto delle leggi, la promozione della giustizia, il pagamento delle tasse, l’assunzione delle responsabilità civiche che vengono loro affidate…
    Non è nemmeno la semplice somma dei beni particolari. Come sostiene Giovanni Paolo II nella «Centesimus Annus» rifacendosi alla «Gaudium et Spes» al n. 26, il bene comune

    «non è la semplice somma degli interessi particolari, ma implica la loro valutazione e composizione fatta in base ad un’equilibrata gerarchia di valori e, in ultima analisi, ad un’esatta comprensione della dignità e dei diritti della persona» (n. 47b).

    Il bene comune, in terzo luogo, è superiore a quello dei cittadini e a quello dei differenti gruppi che compongono la società politica. Lo ribadisce Giovanni XXIII nella «Pacem in terris» in questi termini:

    «Quello comune è un bene a cui hanno diritto di partecipare tutti i membri di una comunità politica, anche se in grado diverso a seconda dei loro compiti, meriti e condizioni. I poteri pubblici quindi sono tenuti a promuoverlo a vantaggio di tutti senza preferenza per alcuni cittadini o per alcuni gruppi di essi» (n. 34).

    In quarto luogo, tale bene interessa l’uomo tutto intero, in tutte le sue dimensioni e in tutti i suoi bisogni corporali e spirituali. È, perciò, un bene umano integrale. Contiene tuttavia degli elementi essenziali che si riferiscono all’uomo in quanto tale, alla sua dignità specifica di essere intelligente e libero, ed elementi contingenti che cambiano con il mutare dei tempi.
    Infine, proprio perché è l’insieme di quelle condizioni della vita sociale grazie alle quali gli uomini, le famiglie e le associazione possono raggiungere con più pienezza e facilità la loro propria perfezione, il bene comune è una realtà dinamica, che si va modificando nella storia, e non una realtà statica, che può essere determinata e descritta una volta per sempre, un modello ideale di convivenza e di collaborazione che non cambia nel tempo. Lo mette apertamente in evidenza la «Gaudium et Spes»:

    «Ai nostri giorni si notano profonde trasformazioni anche nelle strutture e nelle istituzioni dei popoli; tali trasformazioni sono conseguenza della evoluzione culturale, economica e sociale dei popoli. Esse esercitano una grande influenza, soprattutto nel campo che riguarda i diritti e i doveri di tutti nell’esercizio della libertà civile e nel conseguimento del bene comune» (n. 73).

    Le implicanze del bene comune

    Le fondamentali implicanze che suppone questo bene comune, in quanto insieme di condizioni che rendono possibile la piena realizzazione dei membri della comunità politica, sono le seguenti:

    * Il benessere materiale.
    La prima conquista di una società è il benessere materiale. Esso è indispensabile in ragione delle esigenze biologiche e psicologiche dell’essere umano. È importante tuttavia tener presente che ciò di cui esso ha bisogno non è solo un insieme sufficiente di risorse, ma anche la giusta partecipazione di tutti in esse.

    * La pace.
    Il secondo elemento del bene comune è la pace. Non quella solo individuale, bensì anche quella sociale; una concordia volontaria più che imposta; non costretta dal timore della repressione; frutto della volontà spontanea degli uomini che perseguono un interesse comune. Perché senza pace, la prima cosa che si perde è l’equilibrio personale e sociale, e l’uomo resta a mercè del vortice della violenza o delle tensioni sociali.
    La paura è la prima forma di violenza e, pertanto, il primo attentato contro la pace. Dove regna la paura, la vita si contrae e si paralizza. È stato acutamente segnalato che l’indice più preciso del grado di abuso del potere politico non è la domanda «cosa posso fare?», bensì proprio la domanda contraria «cosa mi possono fare?».

    * I valori.
    Eppure, la pace e il benessere non bastano: il bene comune è fatto anche di valori.
    La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, approvata e proclamata dall’ONU nel 1948, dice all’articolo 18: «Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione». Proclamare il diritto di ogni persona alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione equivale a riconoscere nella persona la capacità di interrogarsi sul senso della vita. E cercare il senso della vita è cercare la pienezza. Cercare, in definitiva, «ciò che vale».

    VERSO UNA CONVIVENZA POLITICA MONDIALE

    La vita politica si svolse per secoli di preferenza nei limiti degli Stati nazionali o nell’ambito di rapporti bilaterali tra essi; attualmente l’insieme dei fenomeni di interdipendenza economica e le vicende storiche hanno fatto affiorare sempre più l’esigenza di una «società internazionale».

    Una prospettiva di futuro

    Risulta illuminante raccogliere alcune linee tracciate dal Magistero sociale della Chiesa in quest’ambito.
    Nella sua Enciclica «Pacem in terris» Giovanni XXIII consacrò ampio spazio alla tematica. Prima, nella parte dedicata all’ordinamento dei rapporti internazionali (nn. 80-129), e poi soprattutto in quella dedicata all’ordinamento dei rapporti mondiali (nn.130-145). In quest’ultima cominciava constatando, con il realismo proprio di chi cerca di leggere la realtà concreta per illuminarla con la luce della fede, quanto segue:

    «In seguito alle profonde trasformazioni intervenute nei rapporti della convivenza umana, da una parte il bene comune universale solleva problemi complessi, gravissimi, estremamente urgenti, specialmente per ciò che riguarda la sicurezza e la pace mondiale; dall’altra parte i poteri pubblici delle singole comunità politiche, posti come sono su un piede di uguaglianza giuridica tra essi, per quanto moltiplichino i loro incontri e acuiscano la loro ingegnosità nell’elaborare nuovi strumenti giuridici, non sono più in grado di affrontare e risolvere gli accennati problemi adeguatamente: e ciò non tanto per mancanza di buona volontà o di iniziativa, ma a motivo di una loro deficienza strutturale» (n. 70).

    Dalla constatazione enunciata il papa ricavava la seguente conclusione:

    «Il bene comune universale pone ora problemi a dimensioni mondiali che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di poteri pubblici aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni; di poteri pubblici, cioè che siano in grado di operare in modo efficiente su piano mondiale. Lo stesso ordine morale quindi domanda che tali poteri vengano istituiti» (n. 71b).

    E dedicava alcuni paragrafi (n. 75) all’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), creata il 26 giugno 1945. Riferendosi alla sua «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», pubblicata il 10 dicembre 1948, osservava che essa costituiva «un passo importante nel cammino verso l’organizzazione giuridico-politica della comunità mondiale». Si desumeva da ciò che si dovevano muovere dei passi ulteriori verso tale organizzazione.
    Il Concilio Vaticano II si fece eco di quest’intuizione nella «Gaudium et Spes», nella quale affermava:

    «Dati i crescenti e stretti legami di mutua dipendenza esistenti oggi tra tutti gli abitanti e i popoli della terra, la ricerca adeguata e il raggiungimento efficace del bene comune richiedono che la comunità delle nazioni si dia un ordine che risponda ai suoi compiti attuali» (n. 84a).

    E poco più avanti aggiungeva:

    «Le istituzioni internazionali, tanto universali che regionali già esistenti, si sono rese certamente benemerite del genere umano. Esse rappresentano i primi sforzi per gettare le fondamenta internazionali di tutta la comunità umana al fine di risolvere le più gravi questioni del nostro tempo: promuovere il progresso in ogni luogo della terra e prevenire la guerra sotto qualsiasi forma» (n. 84c).

    In questo modo la Costituzione faceva voti che si arrivasse a costituire una comunità internazionale che riuscisse a far fronte alle urgenti esigenze del «bene comune universale», e di conseguenza ai gravi problemi dell’umanità intera, in particolare quelli economici (nn. 85-96), demografici (n. 87), e a quelli creati dalla guerra (n. 79d).
    Nel contesto di quest’ultimo tema, parlando della legittima difesa dei popoli in caso di un’ingiusta aggressione, propiziava inoltre la creazione di una autorità internazionale che esercitasse il suo potere in ordine a quel bene comune universale:

    «E fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa» (n. 79d).

    Il che equivaleva a dire che si rendeva evidente la necessità:
    - di camminare decisamente verso la creazione di un’autorità internazionale;
    - che tale autorità internazionale fosse munita di vero potere per far fronte alle esigenze del bene comune di tutti popoli che gli Stati nazionali non erano in condizione di soddisfare precisamente per il fatto di non averla. In altre parole, il Vaticano II patrocinava la creazione di una società politica internazionale, senza tuttavia precisare la sua identità.
    Il tema venne ripreso due anni dopo da Paolo VI nella «Populorum Progressio». Ad un certo punto dell’Enciclica, facendo riferimento a ciò che aveva insinuato nella sua visita ufficiale all’ONU, scriveva:

    «Artefici del loro proprio sviluppo, i popoli ne sono i primi responsabili. Ma non potranno realizzarlo nell’isolamento. Accordi regionali tra popoli deboli per sostenersi vicendevolmente, intese più ampie per venir loro in aiuto, convenzioni più impegnative tra gli uni e gli altri, volte a stabilire programmi concertati: sono le tappe di questo cammino dello sviluppo che conduce alla pace [...]. «La vostra vocazione – dicevamo ai rappresentanti delle Nazioni Unite a New York – è di far fraternizzare, non già alcuni popoli, ma tutti i popoli... Chi non vede la necessità di arrivare in tal modo progressivamente a instaurare un’autorità mondiale in grado d’agire efficacemente sul piano giuridico e politico?». Certuni giudicheranno utopistiche siffatte speranze» (nn.77-79).

    Seguendo quindi la linea del Vaticano II, il papa non considerava queste speranze come «utopiche», ma come reali, e perciò proponeva: 1) la creazione di un ordine giuridico universale, per far fronte alle esigenze del bene comune di tutti i popoli, dato che gli Stati nazionali non erano ormai in grado di attuarlo; 2) la configurazione di una autorità mondiale dotata di vero potere politico e giuridico per poter rendere effettivo tale ordine.
    Giovanni Paolo II fece sua tale linea in più di uno dei suoi pronunciamenti. Uno dei più incisivi è quello del «Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace» del 1º gennaio 2003, nel quale commemorando la «Pacem in terris» nel suo quarantesimo anno, riconobbe apertamente che in tale Enciclica il suo Predecessore aveva suggerito che il concetto di bene comune doveva venir formulato con un orizzonte mondiale, e «una delle conseguenze di tale formulazione era l’esigenza che ci fosse un’autorità pubblica a livello internazionale, che potesse disporre di capacità effettiva per promuovere tale bene comune universale» (n. 5a). E lanciava di seguito una domanda simile a quella posta da Paolo VI davanti all’ONU:

    «Non è forse questo il tempo nel quale tutti devono collaborare alla costituzione di una nuova organizzazione dell’intera famiglia umana, per assicurare la pace e l’armonia tra i popoli, ed insieme promuovere il loro progresso integrale?» (n. 6d).

    Si capisce dal contesto che si tratta di una domanda retorica. La convinzione del papa è, indubbiamente, che sia precisamente quello attuale il tempo in cui bisogna farlo. Per inciso aggiunge subito un’indicazione illuminante: «È importante evitare fraintendimenti: non si vuol qui alludere alla costituzione di un super-stato globale». Il che permette di intravedere che l’identità di tale «nuova organizzazione» non potrà essere esattamente come quella degli Stati esistenti, bensì «qualcosa di nuovo», che occorre inventare.
    Sintetizzando ciò che abbiamo raccolto possiamo dire quanto segue: il Magistero della Chiesa sostiene che la presente ora storica dell’umanità richiede un nuovo tipo di convivenza collettiva che risponda alle nuove e universali esigenze createsi negli ultimi tempi. E indica, inoltre, la direzione verso la quale dovrebbe orientarsi: la costituzione di una società politica mondiale, che sia provvista di strumenti adeguati per raggiungere tale fine, tra i quali ovviamente anche il potere (cf «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» nn. 440-443).

    Responsabilità di una società politica mondiale

    In analogia con le società politiche nazionali, questa società politica internazionale dovrebbe assumersi, tramite la sua autorità, la responsabilità della convivenza collettiva mondiale, con ciò che essa implica.

    * Anzitutto, essa dovrebbe assicurare il bene comune universale, ossia quelle condizioni che assicurino ad ognuno dei popoli e degli Stati la possibilità di realizzare la propria finalità.
    In tale bene comune dell’umanità intera occupa un posto indiscutibilmente importante la promozione per la pace. Fu precisamente in detto contesto, come si è visto, che Giovanni XXIII lanciò l’idea di una organizzazione giuridico-politica della comunità mondiale. E in risposta a tale idea il Vaticano II nella «Gaudium et Spes» affrontò con notevole chiaroveggenza la tematica.
    Essa inizia, seguendo la metodologia che la contraddistingue, descrivendo la situazione mondiale da questo punto di vista. Dice, infatti:

    «Sebbene le recenti guerre abbiano portato al nostro mondo gravissimi danni sia materiali che morali, ancora ogni giorno in qualche punto della terra la guerra continua a produrre le sue devastazioni. Anzi, dal momento che in essa si fa uso di armi scientifiche di ogni genere, la sua atrocità minaccia di condurre i combattenti ad una barbarie di gran lunga superiore a quella dei tempi passati. La complessità inoltre delle odierne situazioni e la intricata rete delle relazioni internazionali fanno sì che vengano portate in lungo, con nuovi metodi insidiosi e sovversivi, guerre più o meno larvate. In molti casi il ricorso ai sistemi del terrorismo è considerato anch’esso una nuova forma di guerra» (n.79).

    Il riferimento alla corsa agli armamenti sempre più sofisticati viene ripreso più avanti, evidenziandone con decisione la negatività sia in se stessa sia negli effetti deleteri che produce. Non è una via sicura per conservare saldamente la pace, si afferma, né il cosiddetto equilibrio che ne risulta può essere considerato pace vera e stabile. E si aggiunge ancora che le cause di guerra, anziché venire eliminate da tale corsa, minacciano piuttosto di aggravarsi gradatamente. Non solo, ma

    «mentre enormi ricchezze si spendono per la preparazione di armi sempre nuove, diventa poi impossibile arrecare sufficiente rimedio alle miserie così grandi del mondo presente» (n. 81).

    L’allusione al terrorismo è di un’attualità ancora più sorprendente se si pensa a ciò che è successo a livello mondiale l’11 settembre 2001 e dopo.
    La presa di posizione della Costituzione davanti alla panoramica menzionata è tassativa:

    «Tutte queste cose ci obbligano a considerare l’argomento della guerra con mentalità completamente nuova» (n.80, corsivi nostri).

    L’avverbio «completamente» che affianca l’aggettivo «nuova» rivela una volontà di accentuazione molto forte: non basta la novità, ci vuole una «completa» novità nella mentalità. Il tema della pace non può, quindi, essere affrontato come veniva affrontato finora.
    Quali sono le novità?
    Prima di tutto, quella specie di definizione che la Costituzione dà della stessa pace. Si tratta di una sua «vera e nobilissima concezione», come viene detto al n. 77. Superando, infatti, una visione meramente negativa di essa che prevalse per secoli tanto nella società quanto nella Chiesa, afferma:

    «La pace non è la semplice assenza della guerra, né può ridursi unicamente a rendere stabile l’equilibrio delle forze avverse; essa non è effetto di una dispotica dominazione, ma viene con tutta esattezza definita ‘opera della giustizia’ (Is 32,7)».

    L’associazione della pace alla giustizia, già presente nei testi profetici veterotestamentari, come si desume per esempio dalla citazione del profeta Isaia fatta nel testo, ritorna incalzante nel pensiero conciliare. Come a dire che non ci si può illudere di avere pace se non si coltivano i giusti rapporti tra gli individui, i gruppi e le nazioni. O, ancora, che ogni ingiustizia è un semenzaio di guerra. Anche l’apparente «tranquillità dell’ordine» – definizione agostiniana della pace – può covare la guerra, proprio perché essa può essere solo una copertura dell’ingiustizia. Presto o tardi tale pseudo-pace è destinata a scoppiare.
    L’aver vincolato in questo modo la pace e la giustizia, in tutta l’estensione della parola, richiama ad una responsabilità quasi sconfinata. La giustizia, infatti, ha a che fare con gli atteggiamenti, con le programmazioni e con le azioni della vita di ogni giorno e dei momenti nodali della vita collettiva. Perché è proprio in tutto questo vasto ambito che essa è messa alla prova e sfidata. Solo se si coltiverà in esso la giustizia si potrà avere la tanto desiderata pace.
    Una seconda novità è data dalla netta condanna che la Costituzione fa della guerra totale. Per secoli si era parlato, anche nella Chiesa, di una guerra «giusta»; ora il Vaticano II, facendo proprie le condanne già pronunciate dai recenti papi, dichiara:

    «Ogni atto di guerra, che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e va condannato con fermezza e senza esitazione» (n. 80).

    Un doppio fondamento sorregge, come si vede, tale condanna. Religioso l’uno, umano l’altro. L’atto di guerra ha una dimensione religiosa perché è «delitto contro Dio», e una dimensione umana perché è «delitto contro la stessa umanità». È proprio questa visione religiosa e umana di ogni intervento bellico mirato indiscriminatamente alla distruzione che lo rende illegittimo.
    Ovviamente, sostiene ancora la Costituzione, questa radicale condanna non elimina il diritto alla legittima difesa dei popoli nel caso di aggressione:

    «La guerra non è purtroppo estirpata dalla umana condizione. E fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa. I capi di Stato e coloro che condividono la responsabilità della cosa pubblica hanno dunque il dovere di tutelare la salvezza dei popoli che sono stati loro affidati, trattando con grave senso di responsabilità cose di così grande importanza. Ma una cosa è servirsi delle armi per difendere i giusti diritti dei popoli, ed altra cosa voler imporre il proprio dominio su altre nazioni» (n.79).

    Come si vede, il documento conciliare sembra sopportare a mala pena l’appello alla legittima difesa. Ne accetta l’uso, ma solo perché e fintantoché non ci sarà «un’autorità internazionale competente». L’esistenza di una tale autorità lo renderebbe, quindi, obsoleto.
    Diversi sono i mezzi suggeriti espressamente o per inciso dalla «Gaudium et Spes» per una solida costruzione della pace universale. Ne evidenziamo alcuni dei più rilevanti.
    Per primo, come è ovvio, il ricorso alla preghiera al Dio della pace (82b). È Lui la fonte ultima di tale pace, Lui, che ha creato l’umanità perché viva nella serenità e nell’armonia, come attestano le prime bellissime pagine della Bibbia (Gen 1-2).
    Ma, oltre al ricorso a Dio, è indispensabile la collaborazione umana. Da questo punto di vista la Costituzione sottolinea, tra l’altro, l’importanza di favorire negli uomini e nei popoli sentimenti di apertura, che portino a estendere la mente e il cuore «al di là dei confini della propria nazione, e a deporre ogni forma di egoismo nazionale ed ogni ambizione di supremazia su altre nazioni» (82b); come anche di promuovere il rispetto dei diritti degli altri uomini e degli altri popoli e la loro dignità (78b).
    Di particolare importanza in questo contesto è l’approvazione data all’opzione per la non-violenza attiva, che era andata crescendo nel mondo negli anni precedenti il Concilio, e che è andata affermandosi ulteriormente e con forza dopo di esso. Dichiara al riguardo:

    «Non possiamo non lodare coloro che, rinunciando alla violenza nella rivendicazione dei loro diritti, ricorrono a quei mezzi di difesa che sono, del resto, alla portata anche dei più deboli, purché ciò si possa fare senza pregiudizio dei diritti e dei doveri degli altri o della comunità» (78e).

    In un altro ordine di cose viene sollecitato l’alacre impegno per far cessare quella che è «una delle piaghe più gravi dell’umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri», la corsa agli armamenti, dato che «la pace deve sgorgare spontanea dalla mutua fiducia delle nazioni, piuttosto che essere imposta ai popoli dal terrore delle armi», e l’insistente ed energica promozione degli «studi approfonditi, già coraggiosamente e instancabilmente condotti, e dei consessi internazionali che trattarono questi argomenti e considerarli come i primi passi verso la soluzione di problemi così gravi» quali sono quelli che pone la pace universale (n. 82c).
    Infine, la Costituzione fa un accenno, sia pure breve, ma molto carico di conseguenze, al bisogno di mettere in atto un’opera di educazione alla pace, soprattutto in ambito giovanile:

    «Coloro che si dedicano a un’opera di educazione, specie della gioventù, e coloro che contribuiscono alla formazione della pubblica opinione, considerino loro dovere gravissimo inculcare negli animi di tutti sentimenti nuovi, ispiratori di pace» (n. 82c).

    Nel recente «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» questi orientamenti sono stati ripresi e rilanciati con determinazione e lucidità (nn. 494-515). Tra gli altri, la «condanna dell’enormità della guerra» (cf n. 497), che fa eco alle numerose dichiarazioni degli ultimi papi, e particolarmente di Giovanni Paolo II, il quale nella «Centesimus annus» affermava:

    «La guerra può terminare senza vincitori né vinti in un suicidio dell’umanità, ed allora bisogna ripudiare la logica che conduce ad essa, l’idea che si lotta per la distruzione dell’avversario, che la contraddizione e la guerra stessa siano fattori di progresso e di avanzamento della storia» (n. 18c).

    * La società politica mondiale, nell’esercizio del suo potere dovrebbe necessariamente rispettare, in modo analogo ai poteri politici nazionali, il principio di sussidiarietà. Come ogni altra autorità politica, avrebbe una doppia finalità: aiutare, non soppiantare, le persone e le istituzioni nel raggiungimento dei suoi fini, e prendere il posto delle persone e delle istituzioni quando, per la naturale tendenza umana o per altre circostanze, si producessero determinati squilibri che impediscono a qualcuno di adempiere i suoi doveri e di veder rispettati i suoi diritti. Nel caso, le persone e le istituzioni sono ognuna delle nazioni e degli Stati. È ciò enunciava Giovanni XXIII nella «Pacem in terris»:

    «Come i rapporti tra individui, famiglie, corpi intermedi, e i poteri pubblici delle rispettive comunità politiche, nell’interno delle medesime, vanno regolati secondo il principio di sussidiarietà, così nella luce dello stesso principio vanno regolati pure i rapporti fra i poteri pubblici delle singole comunità politiche e i poteri pubblici della comunità mondiale. Ciò significa che i poteri pubblici della comunità mondiale devono affrontare e risolvere i problemi a contenuto economico, sociale, politico, culturale che pone il bene comune universale; problemi però che per la loro ampiezza, complessità e urgenza i poteri pubblici delle singole comunità politiche non sono in grado di affrontare con prospettiva di soluzioni positive» (n. 74a).

    * Infine, tale autorità mondiale dovrebbe essere eletta dal consenso e dalla partecipazione di tutti i popoli e sostenuta da essi, e non dovrebbe escludere ma piuttosto favorire i raggruppamenti di popoli, nazioni e continenti, rispettando le loro caratteristiche economiche e culturali.


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