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    Verità: veli da togliere



    Educare al pensiero /4

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2007-04-41)

    La fragilità della verità non va confusa con la sua irrilevanza o addirittura inesistenza; la verità è creatura delicata, ma non creatura umana, almeno non del tutto.
    Di fronte alla verità possiamo porci nella posizione greca di disvelamento, a-letheia, ma anche in quella ebraica di ricezione di una rivelazione, non necessariamente e non solo divina; queste due posizioni non sono per forza alternative, anche se oggi – di fronte all’arroganza del pensiero scientifico e tecnologico – è la seconda a dovere essere rafforzata. Una posizione che del resto non è aliena alla stessa scienza: esiste infatti, oltre a una verità rivelata, una verità dell’oggetto: sospendendo timidamente il discorso attorno alla possibile esistenza di una verità assoluta, dobbiamo ammettere l’esistenza di una verità oggettiva per ciascuno tra gli oggetti che ci circondano. È oggettivamente vero che il vetro può rompersi; è oggettivamente vero che sei milioni di esseri umani sono stati massacrati ad Auschwitz. Nessun relativismo gnoseologico, nessun estremismo ermeneutico, nessun pensiero debole può essere così idiota da contestare a queste due affermazioni il loro carattere di verità. E finché l’umanità popolerà la Terra, o almeno finché la Terra sarà popolata da qualcosa che ambisca alla dignità di umano, nell’oggetto Auschwitz sarà insito il contenuto di verità dei sei milioni di innocenti uccisi. Altrimenti, è il delirio del relativismo, il laido conato del revisionismo.
    La verità nell’oggetto non è detta una volta per tutte. Questa cristallizzazione, questo non potersi sottrarre dell’oggetto a una e una sola verità è valido solamente per alcuni oggetti, costruiti integralmente dall’uomo: Auschwitz, Hiroshima, la violenza sui bambini, lo stupro, la vivisezione: oggetti la cui verità oggettiva è il negativo e che mai potranno separarsene, oggetti letteralmente diabolici perché separano l’oggetto dalla ricchezza delle sue infinite verità e ne cristallizzano una e solo una: la peggiore, l’unica che può distruggere le altre.
    Solo gli uomini, e soprattutto nel XX secolo, sono riusciti a produrre oggetti il cui contenuto di verità è abbarbicato alla morte e alla distruzione e vi rimane tenacemente eliminando tutti gli altri. Ma in tutti gli altri casi la verità negli oggetti è multiforme, e il loro contenuto di verità dell’oggetto è la sua stessa polisemia, la possibilità di albergare in sé più verità, la compresenza contraddittoria e conflittuale di diversi livelli di verità. Il manico di scopa che per il bambino è cavallo e per la madre un po’ rozza strumento di minaccia e di punizione alberga in sé queste possibilità a prescindere dai soggetti umani che in questo momento lo stanno usando.
    Certo, la presenza umana non è esclusa: qualcuno ha insinuato nell’oggetto contenuti di verità diversi, usandolo, manipolandolo, producendolo o sognandolo: il fruitore attuale dell’oggetto ne sblocca alcuni, che non sarebbero nell’oggetto che come cieche potenzialità se qualcuno non le facesse emergere. In questo senso – e fatta salva una opzione anti-antropocentrica che renda conto ad esempio degli oggetti che la specie umana non contemplerà mai perché già estinti o totalmente di là da venire – è il rapporto con l’uomo e la donna che sblocca una verità già presente nell’oggetto come sedimentazione di alti rapporti e di tutti i rapporti possibili.
    Il vertiginoso gioco del rapporto tra soggetti e oggetti che questa gnoseologia pone in atto richiama gli infiniti di Giordano Bruno e di Jorge Luis Borges: solo in questa vertigine accettiamo l’accezione hegeliana della conoscenza come «posizione del soggetto di fronte all’oggetto». Questa esperienza delle vertigine dell’oggetto, della scomparsa del saldo sé dentro l’inquieta oggettività, questa esperienza del perdersi nell’oggetto per ritrovarvi fasci di relazioni passate e potenzialmente riattabili è una esperienza di verità.
    Ma verità è anche giudizio: ogni pensare è un giudicare. Altrimenti si rischia di restare immersi nell’oggetto e non riemergerne più, si rischia la perdita della soggettività che si troverebbe così ad essere oggetto tra gli oggetti, cosa tra le cose. Esperienza di verità è allora emergere dall’oggetto e sottoporlo al «mare di ghiaccio dell’astrazione» (Benjamin), al mare di ghiaccio dei giudizio. Rendendogli così giustizia, perché giudicare una cosa significa prenderla sul serio, operando quel confronto dell’oggetto con il suo concetto che è probabilmente il maggiore e più elevato contributo che l’uomo e la donna possono apportare al mondo dell’oggettualità.
    Giudicare l’oggetto significa farlo penetrare nel mondo umano, per sceverare nell’oggetto il non-umano che esso contiene sua sponte dal disumano che l’uomo stesso vi ha posto; il mantenimento della prima dimensione è un riparo dall’antropocentismo, la seconda cautela ci pone di fronte alla capacità di cosalizzazione propria dell’uomo: un albero è non-umano, ma certamente un bombardiere ha in sé tracce di inumano che poco hanno a che fare con il suo non-essere-uomo.
    Il duplice contenuto di verità dell’oggetto va allora sempre tenuto presente: anche quando entra nel mondo umano, un oggetto ha uno zoccolo duro di verità che previene al mondo del non-umano: il resto è ciò che uomini e donne hanno aggiunto all’oggetto portandolo nelle proprie case, addomesticandolo.
    In questo senso, per noi esseri umani la verità è integralmente figlia della storia; e la storia è solamente storia umana, storia dell’uomo e della donna nel loro tentativo riuscito di apportare senso al reale che li accolse. Possiamo dire a rigore che il mondo prima dell’uomo e della donna era caratterizzato da una sua storia; dopo l’avvento dell’uomo e della donna entra in una dimensione di storicità, che è storia indagata e studiata, sottratta alla cecità dell’evento e in qualche modo portata alla coscienza di sé. Dunque la verità dell’oggetto, quella che questo ci schiude nella conoscenza, è sblocco della storia (e della storicità) sedimentata nell’oggetto: dire la verità su un oggetto significa ricostruire la dimensione di storia che lo abita, a partire dalla sua identità qui e ora e dalle possibili e impossibili relazioni che intratteniamo con esso.
    Ma un oggetto che sia solamente storia passata, sedimentazione muta di antiche relazioni e di antichi rapporti, non può permettere questo sblocco; anzitutto la verità dell’oggetto non si dà nella quieta fruizione dello stesso, ma è frutto di un conflitto e di una conquista.
    C’è lotta attorno alla verità, lotta perché si affermi proprio quella specifica verità che è albergata nell’oggetto e non un’altra, apportata strumentalmente e artificialmente dall’esterno; l’ignobile discussione sul numero dei morti nella Shoà ne è l’esempio più patente. Ma anche la più accesa disputa sull’oggetto, anche la più aspra contesa sulla verità non avrebbero senso se qualcosa nell’oggetto non richiedesse silenziosamente lo sblocco: c’è nell’oggetto una debole forza antropo-tropica, un debole rivolgersi all’uomo perché la verità sia tratta fuori, perché determinate declinazioni del rapporto con l’oggetto siano rigiocate o perlomeno ricordate.
    Solo attraverso una risposta all’appello dell’oggetto, che altro non è che l’appello degli uomini e delle donne che con l’oggetto sono entrati in relazione e che oggi sono dimenticati, annichiliti o sterminati, e con esse le modalità di esperienza che sono state loro proprie, solo raccogliendo dal gemito dell’oggetto il gemito delle donne e degli uomini è possibile restituire l’oggetto a se stesso, alla sua datità, e uomini e donne alla loro umanità.
    Se gli oggetti ci dominano è perché non abbiamo ancora compiuto questo passo, non ci siamo messi in condizione di essere coproduttori di verità con coloro che hanno esperito l’oggetto e ora non sono più. È sempre la voce dei senza voce, la voce dei dimenticati a dire la più profonda verità sulle cose: «la dimensione storica nelle cose è l’espressione della sofferenza passata» (Adorno). Dire la sofferenza dell’oggetto e nell’oggetto significa allora dire la verità: ma solo in parte; occorre anche dire la pacificazione, la conciliazione, la dimensione indicata da quel vento di futuro che soffia non visto nell’oggetto; possiamo e dobbiamo dire la verità perché il mondo cambi, perché le cose possono e dunque devono essere differenti; altrimenti, la verità diventa un gioco tautologico, altrimenti tanto vale starsene zitti.
    La verità dell’oggetto è anche apertura alle sue dimensioni future, anzi è solamente l’apertura al futuro che sblocca la verità dell’oggetto, che permette di parlare di verità oggettiva. Gli oggetti attendono che noi li accompagniamo verso un futuro diverso, guidati da quella brezza di futuro, da quell’indice utopico che essi stessi hanno.
    Che poi in un mondo ingiusto la verità sia anche verità di morte e di sopraffazione è certo verità, ma non può essere l’ultima verità; vero è quel pensiero che si vieta di essere troppo vero, di prendere per vero il trionfo finale del nulla; vero è quel pensiero che rifiuta il pur appassionato finale leopardiano: «All’apparir del vero / tu misera cadesti e con la mano / la fredda morte e una tomba ignuda / mostravi di lontano».


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