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    L’inquietudine


     

    Spiritualità dello studio /4

    Armando Matteo

    (NPG 2006-04-70)


    Un grande (sicuramente il più influente) filosofo del Novecento, Martin Heidegger, ha sostenuto che i grandi pensatori sono stati pensatori di un unico essenziale problema. E questo, nonostante essi abbiano scritto molti testi e si siano occupati di molteplici ambiti di studio. È un’osservazione, questa di Heidegger, che può servire per introdurci ad un aspetto cardine della spiritualità dello studio, che indico con il termine «inquietudine».
    Tale espressione, come ordinariamente viene usata, fa certamente pensare a qualcosa di sinistro, di negativo: è detto ad esempio di chi non riesce a trovare pace (appunto «quiete») nelle cose che deve portare a termine. Ed in genere tale atteggiamento viene fortemente stigmatizzato, perché si ritiene che colui che si comporti in questa maniera lo faccia, per lo più, sprovvisto di un qualche ragionevole motivo.
    Sulla traccia dell’indicazione di Heidegger, vorrei però proporre di valutare un altro aspetto dell’inquietudine, quello legato alla scoperta, alla localizzazione ed individuazione di un problema, di una domanda che inizia a metterci «in movimento», che ci sradica appunto dalla nostra «quiete». In questo caso l’inquietudine non sarà innanzitutto l’atteggiamento di colui che si mette in ricerca, che si «agita» a partire dai dettati della propria fantasia, ma di colui che invece «viene messo» in ricerca, di colui che diventa «prigioniero» di un tema, di un problema, di una domanda, di una questione.
    Allora si diventa «oggettivamente» inquieti e ogni meta dello studio e della ricerca diventano punto di partenza per successive immersioni in quell’ambito del sapere, perché quel problema, quella domanda, che ci ha afferrati, che ci ha catturato, non si lascia risolvere senza un totale coinvolgimento della nostra intelligenza e del nostro tempo. L’inquietudine, di cui tento di parlarti, assomiglia all’esperienza dell’innamoramento. Quello dell’innamoramento è un tempo infatti che ci assorbe, che ci lascia attenzione ed energia solo per l’oggetto del nostro amore. È il tempo di una ferita e di una luce che ci mettono sotto sequestro. O si è innamorati totalmente o non si è innamorati affatto.
    Quella dell’inquietudine è similmente un’esperienza davvero unica, un’esperienza iniziatica ed illuminativa che permette finalmente di accedere alla vera essenza dello studio e, nello stesso tempo, alla forte intrinseca carica spirituale che esso contiene. Essere afferrati da un problema, da una questione che è più grande delle risposte conosciute e la cui soluzione non si lascia cogliere in modo semplice e scontato, è la vera esperienza dello studio. Si passa allora dallo studio (e dalla scuola) dell’obbligo all’obbligo (interiore) dello studio.
    Solo a questo punto del suo cammino, quando cioè compie l’esperienza dell’inquietudine, colui che studia afferra d’un colpo che non si studia solo per un piccolo preciso scopo (superare un’interrogazione o un esame o un concorso) né per pura gioia intellettuale, ma intuisce che lo studio è la strada maestra per carpire qualcosa di quel mistero che l’uomo è a se stesso e che semplicemente indichiamo come «avventura della vita». E cosa afferra colui che si è lasciato catturare dall’inquietudine dello studio? Conosce che solo mettendosi al servizio di qualcosa di più grande di lui può vivere una vita degna di essere definita umana.
    Per questo il periodo della fanciullezza, poi quello dell’adolescenza e, infine, quello della gioventù sono contrassegnati, nella nostra tradizione, da una quantità notevole di studio: le tappe della nostra crescita sono marcate proprio dalla scuola che di volta in volta frequentiamo, dalle primarie al liceo, dall’università alle scuole di specializzazione.
    E nel seguire questa disciplina, che non di rado potrebbe apparirci rigida e dura, troppo strutturata e troppo esigente, mentre cioè andiamo a scuola oppure frequentiamo le aule affollate di un’università, in verità siamo tutti come in attesa, come in procinto di ricevere una chiamata. La chiamata di quel problema, di quel tema, di quella domanda, di quella questione che si candidano a diventare il nostro problema, il nostro tema, la nostra domanda, la nostra questione: la chiamata di ciò che reca il sigillo dell’inquietudine.
    Per questo lo studio è un tempo non accessorio né estrinseco alla vita dello spirito, perché tramite suo possiamo divenire consapevoli che solo se posta al servizio di qualcosa di più grande la vita umana vale la pena di essere vissuta.

    Per continuare a riflettere

    Continuiamo la nostra riflessione con l’incipit delle Confessioni di Sant’Agostino d’Ippona, nel quale è presente la celebre espressione (latina) «inquietum est cor nostrum», che la traduzione italiana qui proposta traduce «il nostro cuore non ha posa», anche se andrebbe bene una traduzione più semplice del tipo «il nostro cuore è inquieto».
    Questa espressione non è il frutto di un’elaborazione a tavolino intorno all’essenza dell’uomo, ma è il punto di massima concentrazione dell’esistenza di questo grande uomo e santo, dottore della Chiesa ed eminente pensatore, vissuto tra il IV ed il V secolo d. C.
    Per questo la citazione delle prime righe delle Confessioni di Sant’Agostino vorrebbe, infine, esser un invito a confrontarsi con la sua straordinaria avventura intellettuale e spirituale, partendo proprio dalla lettura di questo singolare libro.

    Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virtù, e la tua sapienza incalcolabile. E l’uomo vuole lodarti, una particella del tuo creato, che si porta attorno il suo destino mortale, che si porta attorno la prova del suo peccato e la prova che tu resisti ai superbi. Eppure l’uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te. Concedimi, Signore, di conoscere e capire se si deve prima invocarti o lodarti, prima conoscere oppure invocare. Ma come potrebbe invocarti chi non ti conosce? Per ignoranza potrebbe invocare questo per quello. Dunque ti si deve piuttosto invocare per conoscere? Ma come invocheranno colui, in cui non credettero? E come credere, se prima nessuno dà l’annunzio?. Loderanno il Signore coloro che lo cercano?, perché cercandolo lo trovano, e trovandolo lo loderanno. Che io ti cerchi, Signore, invocandoti, e t’invochi credendoti, perché il tuo annunzio ci è giunto. T’invoca, Signore, la mia fede, che mi hai dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante l’opera del tuo Annunziatore.

    (Sant’Agostino, Le Confessioni, 1.1. Il testo è reperibile all’indirizzo internet: https://www.sant-agostino.it/italiano/ confessioni/index2.htm)

    Per la preghiera

    Ti propongo ora la recita di una parte del Salmo 118, in particolare i primi venti versetti. Il Salmo 118 è un lungo inno alla legge che il Signore ha donato al suo popolo: quella legge che segna il sentiero sui cui camminare per giungere ad una vita felice. Da questa prospettiva comprendiamo l’esultanza del salmista: la legge del Signore non è vista come un lungo elenco di divieti, ma come la segnaletica, quella giusta, per non smarrirsi nelle maglie, a volte troppo strette altre troppo larghe, di quel grande evento che è la nostra vita.

    Beato l’uomo di integra condotta,
    che cammina nella legge del Signore.
    Beato chi è fedele ai suoi insegnamenti
    e lo cerca con tutto il cuore.
    Non commette ingiustizie,
    cammina per le sue vie.
    Tu hai dato i tuoi precetti
    perché siano osservati fedelmente.
    Siano diritte le mie vie,
    nel custodire i tuoi decreti.
    Allora non dovrò arrossire
    se avrò obbedito ai tuoi comandi.
    Ti loderò con cuore sincero
    quando avrò appreso
    le tue giuste sentenze.
    Voglio osservare i tuoi decreti:
    non abbandonarmi mai.
    Come potrà un giovane tenere
    pura la sua via?
    Custodendo le tue parole.
    Con tutto il cuore ti cerco:
    non farmi deviare dai tuoi precetti.
    Conservo nel cuore le tue parole
    per non offenderti con il peccato.
    Benedetto sei tu, Signore;
    mostrami il tuo volere.
    Con le mie labbra ho enumerato
    tutti i giudizi della tua bocca.
    Nel seguire i tuoi ordini è la mia gioia
    più che in ogni altro bene.
    Voglio meditare i tuoi comandamenti,
    considerare le tue vie.
    Nella tua volontà è la mia gioia;
    mai dimenticherò la tua parola.
    Sii buono con il tuo servo e avrò vita,
    custodirò la tua parola.
    Aprimi gli occhi perché io veda
    le meraviglie della tua legge.
    Io sono straniero sulla terra,
    non nascondermi i tuoi comandi.
    Io mi consumo nel desiderio
    dei tuoi precetti in ogni tempo.

    Un libro da non perdere
    G. B. Montini/Paolo VI, Coscienza universitaria. Note per gli studenti, Studium, Brescia 1982.


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