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    Dottrina Sociale della Chiesa /3 - Secondo tema

    Il Magistero della chiesa a partire dalla «questione operaia»

    Luis A. Gallo

    (NPG 2006-04-56)

    Fedeli al mandato che è stato loro dato di annunciare il Vangelo del regno di Dio proclamato da Gesù di Nazareth, quelli che nella sua Chiesa hanno l’ultima responsabilità hanno elaborato, soprattutto a partire dalla fine del sec. XIX, una larga serie di documenti che hanno affrontato con rinnovata coscienza la problematica sociale. In altri termini, hanno cercato di calare la proposta del regno nelle nuove circostanze storiche in cui la Chiesa è venuta a trovarsi. Si tratta di un intervento magisteriale certo non completamente nuovo, perché ha avuto degli antecedenti nella lunga storia ecclesiale, ma che si è arricchito con i nuovi apporti richiesti dai tempi.
    Seguiremo quindi brevemente gli interventi del Magistero lungo i secoli, per soffermarci poi maggiormente sui due ultimi in cui ha affrontato più direttamente la tematica.

    Antecedenti storici

    L’impegno sociale nei primi tre secoli del cristianesimo

    Nel primo periodo della sua storia – il periodo della cosiddetta «Chiesa primitiva» – la comunità ecclesiale visse una situazione molto particolare, segnata da una parte dalla vicinanza alle sue origini, e dall’altra dalle difficoltà della sua inserzione nella società imperiale romana.
    La vicinanza alle origini favorì la sua fedeltà all’ispirazione iniziale e la portò ad accentuare con più forza le sue dimensioni interiori e mistiche rispetto a quelle istituzionali e organizzative. Visse con una marcata coerenza evangelica nella fedeltà alla proposta del regno proclamato da Gesù. Lo si constata principalmente nel suo modo fraterno di attuare i rapporti fra i suoi membri all’interno delle comunità, e nella maniera di esercitare l’autorità più come un servizio che come un potere. Senza misconoscere certamente l’esistenza qua e là di alcune tendenze di segno opposto.
    L’inserzione nella società imperiale, iniziata molto presto, non le riuscì facile. Soprattutto perché spesso trovò in essa una convivenza sociale ispirata a criteri differenti, e in più di un caso opposti, a quelli del Vangelo.
    L’assolutizzazione del potere politico nella persona dell’imperatore, fatto perfino oggetto di culto e adorazione, l’uso della forza e della violenza come mezzo per sottomettere i popoli conquistati dalle legioni, la corruzione dei costumi sessuali, erano altrettanti motivi di reazione critica da parte dei cristiani. Si guadagnarono così, ingiustamente, l’appellativo di «odiatori del genere umano» o «misantropi». Conseguenza logica ne furono le persecuzioni che si andarono scatenando a intermittenza, in ragione del principio giuridico secondo il quale «non era lecito essere cristiano» nell’impero romano (cf «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» n. 382).
    In tale contesto, benché naturalmente i cristiani non abbiano elaborato una dottrina sociale sistematica, vissero tuttavia certi principi che ispirarono decisamente la loro azione e la loro condotta:
    - anzitutto, la convinzione dell’origine divina dell’autorità, fondata nelle Scritture (Rm 13,1-7; 1Pt 2,13-14), ma di un’autorità intesa, alla luce dei vangeli, come servizio e non come dominio (Mc 10,42-45 e par.) (cf «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» n. 380);
    - poi, l’accettazione – certamente non esente da critica – delle strutture sociali esistenti, quale la schiavitù e la condizione subordinata e inferiore della donna.
    Più che pensare alla trasformazione di tali strutture, essi si sforzarono di svuotarle dal di dentro, dando una testimonianza di rapporti fraterni vissuti all’interno della proprie comunità (Lettera a Diogneto; Giustino...). In questo modo essi presentavano un’alternativa al modo di concepire e attuare la convivenza nella società imperiale in cui vivevano.

    Impatto della pace costantiniana

    Il 313, anno dell’Editto di Milano, segnò un momento cruciale nella storia del cristianesimo. Infatti con esso Costantino abrogò il principio giuridico seguito da diversi suoi predecessori, e dichiarò la liceità della religione cristiana nell’impero. Il che provocò un cambiamento profondo per la Chiesa: da quel momento essa cessò di essere «una Chiesa delle catacombe» per cominciare ad essere un’istituzione di ordine pubblico. Con tutte le conseguenze sociali, politiche e perfino economiche che ciò comportava. A poco a poco si andò identificando con la società imperiale fino ad arrivare a costituire la «cristianità».
    Ciò la portò ad addolcire progressivamente il suo atteggiamento critico verso la società, fino a perderlo in alcuni momenti completamente. Una Chiesa che era sostenuta, anche economicamente, dal potere politico imperiale, poteva difficilmente conservare uno spazio di libertà per esercitare tale critica. Ancora di più, in alcuni momenti i due poteri – quello spirituale e quello temporale, come si usava dire – arrivarono a identificarsi perché erano nelle mani delle stesse persone. Sono celebri e rappresentativi in questo contesto il «Dictatus papae» di Gregorio VII e la Bolla «Unam Sanctam» di Bonifacio VIII, nelle quali si riflette un’innegabile situazione, più o meno dichiarata, di tale identificazione.
    Non tutto però andò in tale direzione. Vi furono sempre dei cristiani vigilanti e critici. Basta ricordare, tra tanti, la reazione del monachesimo, particolarmente quello cenobitico, sorto precisamente come reazione nei confronti di un mondo considerato antievangelico e come tentativo di costruirne uno più consono con la proposta di Gesù; o le accese denuncie di certi Padri della Chiesa come S. Giovanni Crisostomo, S. Ambrogio e altri.
    Non si può comunque negare che con il passare del tempo si andò producendo una progressiva assimilazione dell’ordine sociale stabilito, anche nei suoi aspetti più chiaramente inficiati di peccato e di ingiustizia, e perciò più lontani dalla proposta del regno di Dio. L’impegno cristiano si concentrò piuttosto sull’ordine individuale, che contemplava da una parte un rispetto per tale ordine, e dall’altra un certo suo superamento tramite principalmente l’esercizio di una carità che andasse più in là della semplice giustizia legale.
    Quando dopo il Medioevo, in cui era prevalsa un’economia chiusa e statica, senza forti tensioni sociali e senza concrete immagini di un’alternativa sociale, cominciò a diffondersi un’economia mercantile, si posero alla coscienza cristiana i primi gravi problemi di morale sociale. Uno di essi fu quello del prestito a interesse, che più tardi arrivò a costituire il fondamento indispensabile di tale economia e dell’economia capitalista in generale, e che la Chiesa istituzionale, poco aperta alle nuove esigenze storiche, considerò per secoli come contrario al Vangelo.

    I primi passi verso una nuova presa di coscienza

    Le sfide della «questione operaia» nel sec. XIX

    Nel sec. XIX si produssero profondi cambiamenti nella società europea, con riflessi più o meno intensi nel mondo intero. Sono le ricadute sociali del nuovo tipo di rapporto dell’uomo con la natura instaurato dalla scienza moderna (sec. XVI-XVII). Se fino ad allora l’uomo era vissuto fondamentalmente sottomesso alla natura e alle sue leggi, ora – grazie alla conoscenza scientifica e alla sua applicazione tecnica – inizia a imporsi ad esse e a dominarle.
    Il processo scientifico-tecnico andò acquistando una sempre maggiore forza e ampiezza. A monte aveva il fenomeno culturale della modernità, con la sua marcata concentrazione sul soggetto e la sua libertà, e a valle quello della rivoluzione industriale e del capitalismo.
    L’incidenza di tutto ciò sul lavoro e sull’economia in genere fu notevole. Tra altre cose diede origine alla «questione operaia». La situazione dei lavoratori dell’industria meccanizzata (non più «artigiani», ma «operai») si caratterizzò per la nascita del «proletariato», quella massa ingente di uomini, donne e anche bambini che lavoravano nelle fabbriche in situazioni spesso disumane, con orari impossibili, in condizioni igieniche pessime e senza alcuna sicurezza sociale. Si potrebbe dire che erano ridotti a cose, quasi come nuove macchine che la tecnica, sempre più perfezionata, andava creando.
    È ampiamente conosciuta la reazione di K. Marx di fronte a tale situazione. Egli, imbevuto dei grandi principi filosofici della modernità illuminista, si propose di restituire al proletariato la sua «essenza umana» sottrattagli dal capitale, mediante una rivoluzione sociale, e cioè mediante la sostituzione del sistema capitalista con quello socialista: una convivenza sociale in cui le ricchezze, e particolarmente i mezzi di produzione, erano completamente in mano ai proprietari del capitale, doveva venir sostituita da un’altra in cui la proprietà privata di tali mezzi fosse eliminata, per assicurare che fossero effettivamente al servizio di tutti. Nel 1848 lanciò al mondo il celebre «manifesto» del partito comunista: «Proletari del mondo, unitevi».

    Prese di posizione del Magistero pontificio

    In realtà la Chiesa come istituzione, anche e particolarmente ai suoi più alti livelli di responsabilità, assunse un atteggiamento iniziale di sfiducia e di conseguente difesa nei confronti dell’ondata di liberalismo che provocava la modernità, e della conseguente brama di rivoluzione sociale che si diffondeva principalmente nella classe operaia. È sufficiente leggere i documenti pontifici anteriori a Leone XIII, particolarmente quelli dei suoi immediati predecessori Gregorio XVI e Pio IX, per averne una chiara conferma.
    Poco sensibili alle nuove situazioni socio-storiche che si erano andate creando, mossi da una forte sfiducia verso la modernità e i suoi effetti per il fatto di considerarli un pericolo e una minaccia per la fede, vedendoli perfino in qualche momento come «invenzioni diaboliche», continuarono a proporre un modello caduco di società basato su di una visione essenzialistica dell’uomo e della sua convivenza sociale. Probabilmente una formazione classica, ispirata ad una cultura speculativa e sostanzialista, e di conseguenza poco sensibile alla storia, condizionava fortemente tale visione delle cose.
    D’altra parte, nella sua istanza sociale Marx coinvolse anche la religione. Considerandola una sovrastruttura del sistema socio-economico capitalista, e concretamente un’ideologia forgiata in difesa dei privilegi padronali, ancor di più, un’ideologia reazionaria perché impossibile da essere piegata alla rivoluzione socialista, si pronunciò in favore della sua eliminazione. Il suo ateismo fu, in questo senso, un’esigenza dell’umanesimo che egli perseguiva come ideale. Si capisce così perché la Chiesa abbia visto nella sua dottrina un acerrimo nemico da combattere con tutte le forze possibili.
    Con Leone XIII le cose incominciarono a cambiare. Ebbe inizio una timida apertura progressiva verso la nuova problematica sociale che ebbe nell’enciclica «Rerum novarum» (1891), preceduta da altri documenti minori, il suo punto di partenza (cf «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» nn. 89-90).
    Detta enciclica, che ebbe un’enorme ripercussione in tutta la Chiesa ma anche al di fuori di essa, si caratterizzò infatti per il fatto di esprimere una nuova sensibilità verso i problemi nuovi posti dalla società, e particolarmente verso i più deboli e trascurati in essa, i proletari.
    I temi principali affrontati dall’enciclica furono quelli del capitalismo e del socialismo, la proprietà privata, la lotta di classe, la questione operaia, il comunismo, la dignità umana e il lavoro.

    Passi decisivi: le grandi encicliche sociali del sec. XX

    Al passo iniziale dato da Leone XIII ne seguirono molti altri. Attraverso di essi i Papi andarono manifestando una sensibilità sempre più acuta e concreta verso la convivenza sociale.
    Vanno elencati, come principali benché non unici, i seguenti: l’Enciclica «Quadragesimo Anno» di Pio XI (1931); i Radiomessaggi di Pio XII (Natale 1941- Pentecoste 1942), le Encicliche «Mater et Magistra» (1961) e «Pacem in terris» (1963) di Giovanni XXIII; l’Enciclica «Populorum Progressio» (1967) e la Lettera Apostolica «Octogesima Adveniens» (1971) di Paolo VI; le Encicliche «Laborem exercens» (1981), «Sollicitudo rei socialis» (1987) e «Centesimus annus» (1991) di Giovanni Paolo II (cf «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» nn. 91-95.98-103). A tali documenti pontifici occorre aggiungere la Costituzione pastorale «Gaudium et Spes» (1965), che affrontò importanti tematiche sociali dedicando ad esse una grande attenzione: tra cui la dignità della persona umana, la comunità umana, la comunità internazionale, la comunità politica, la guerra e la pace; e la dichiarazione «Dignitatis humanae», in cui venne affrontato il tema del diritto alla libertà religiosa (cf «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» nn. 96-97).

    UNA SINTESI DEGLI ORIENTAM,ENTI

    Il nuovo atteggiamento della Chiesa verso la società

    Più che entrare nei dettagli dei diversi documenti del Magistero, è opportuno raccogliere i principali tratti sul modo di situarsi e di agire nella società del Magistero papale e di quello dei vescovi delle differenti zone della Chiesa.

    - Un primo tratto è la nuova coscienza di solidarietà della Chiesa con il mondo.
    Se nel secolo XIX prevalse una situazione in cui, come si è detto, la Chiesa come istituzione visse ripiegata su se stessa, vedendo nella società che la circondava piuttosto un nemico da cui difendersi, e nel suo progresso sociale, economico e politico una minaccia alla sua propria sopravvivenza, dalla «Rerum Novarum» in poi le cose cominciarono a cambiare. Molti pregiudizi teorici e pratici andarono dissipandosi e l’avvicinamento della Chiesa alla società si andò intensificando.
    Una delle sue espressioni più eloquenti e più alte la si può trovare, già nel XX secolo, nella dichiarazione del proemio della «Gaudium et Spes» in cui si dice:

    «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore [...]. Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» (n. 1).

    «Il Concilio, testimoniando e proponendo la fede di tutto intero il popolo di Dio riunito dal Cristo, non potrebbe dare una dimostrazione più eloquente di solidarietà, di rispetto e d’amore verso l’intera famiglia umana, dentro la quale è inserito, che instaurando con questa un dialogo sui vari problemi sopra accennati, arrecando la luce che viene dal Vangelo, e mettendo a disposizione degli uomini le energie di salvezza che la Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, riceve dal suo Fondatore» (n. 3, corsivi nostri).

    E Paolo VI, nella conclusione del Concilio il 7.12.1965 affermava solennemente:

    «Non mai forse come in questa occasione la Chiesa ha sentito il bisogno di conoscere, di avvicinare, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società circostante, e di coglierla, quasi di rincorrerla nel suo rapido e continuo mutamento. Questo atteggiamento, determinato dalle distanze e dalle fratture verificatesi negli ultimi secoli, nel secolo scorso ed in questo specialmente fra la Chiesa e la civiltà profana, e sempre suggerito dalla missione salvatrice essenziale della Chiesa, è stato fortemente e continuamente operante nel Concilio, fino al punto da suggerire ad alcuni il sospetto che un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui, abbia dominato persone ed atti del Sinodo ecumenico, a scapito della fedeltà dovuta alla tradizione e a danno dell’orientamento religioso del Concilio medesimo» (n. 6).

    «La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso» (n. 8, corsivi nostri).

    Tale atteggiamento ubbidisce alla nuova opzione globale assunta dal Vaticano II nel momento più maturo della sua evoluzione ecclesiologica. Se il primo passo fu l’abbandono del modello di Chiesa-società che era stato in vigore dai tempi costantiniani, e il secondo fu la proposta di un nuovo modello all’insegna della comunione nella Costituzione «Lumen Gentium», l’ultimo, nella Costituzione «Gaudium et Spes», fu la proposta di un modello di Chiesa-serva-dell’umanità.
    Tale modello implicava che la Chiesa non pensasse già se stessa come una realtà esistente fuori dal mondo – sopra, o accanto o, peggio ancora, contro di esso –, ma nel mondo e per il mondo, perché «la famiglia umana», «il genere umano», «la società umana» potesse maturare sempre più nel suo cammino storico verso la realizzazione di se stessa secondo il progetto del regno di Dio. Per contribuire, in una parola, alla sua sempre maggiore umanizzazione.
    In sintesi lo stesso Paolo VI, introducendo la sua lettera «Octogesima adveniens» (1971), affermava enfaticamente: «La Chiesa cammina unita all’umanità e ne condivide la sorte nel corso della storia» (n.1; cf «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» nn.18.60).

    - In questo contesto si colloca il secondo tratto, già apparso in una citazione precedente: per poter collaborare con la famiglia umana nella sua crescita, la Chiesa fa l’opzione di assumere un atteggiamento di dialogo con essa.
    In passato il modo di porsi nei suoi confronti era diverso: si presentava e agiva come «madre e maestra». Ritenendosi il regno di Dio sulla terra, si sentiva in pieno possesso della verità e con il diritto e il dovere di insegnarla al mondo, considerato come regno dell’ignoranza e dell’errore. La società umana, vista come «minorenne», doveva solo ricevere da essa luce e orientamento; non doveva apportare niente di suo, ma solo imparare. Nei primi documenti del Magistero sociale anteriori al Vaticano II si coglie ancora un certa presenza di tale atteggiamento. I papi che li scrivevano si sentivano «maestri del mondo», con diritto a insegnargli ciò che doveva fare anche nel campo sociale.
    Gradualmente tale atteggiamento lasciò passo a quello del dialogo. Paolo VI dedicò la terza parte della sua prima enciclica – «Ecclesiam suam» (1964) – a chiarirne la natura e le condizioni. Dialogare significa cercare insieme la verità. Una ricerca in cui ognuno degli interlocutori, senza perdere la propria identità, offre la sua esperienza e le sue conoscenze all’altro, ma è anche aperto e disponibile ad accogliere quanto esso apporta, e ad arricchirsi con il suo contributo.
    Dialogare non è quindi solo dare, ma anche ricevere. E la Chiesa cominciò a prendere coscienza che la società umana, nel suo cammino storico, aveva parecchio da offrirle. Affermava a questo riguardo la «Gaudium et Spes»:

    «La Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dall’evoluzione del genere umano. L’esperienza dei secoli passati, il progresso della scienza, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa [...].
    La Chiesa, avendo una struttura sociale visibile, che è appunto segno della sua unità in Cristo, può essere arricchita, e lo è effettivamente, dallo sviluppo della vita sociale umana non perché manchi qualcosa nella costituzione datale da Cristo, ma per conoscere questa più profondamente, per meglio esprimerla e per adattarla con più successo ai nostri tempi.
    Essa sente con gratitudine di ricevere, nella sua comunità non meno che nei suoi figli singoli, vari aiuti dagli uomini di qualsiasi grado e condizione.
    Chiunque promuove la comunità umana nell’ordine della famiglia, della cultura, della vita economica e sociale, come pure della politica, sia nazionale che internazionale, porta anche non poco aiuto, secondo il disegno di Dio, alla comunità della Chiesa, nella misura in cui questa dipende da fattori esterni» (n. 44).
    Non si tratta, quindi, solo di insegnare, ma piuttosto di interscambiare ciò che di positivo si possiede, per aiutarsi nella crescita del proprio essere (cf «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» nn.10.17.18.96).

    - Tutto che ha a che vedere con il terzo tratto: la coscienza dei propri limiti.
    Un certo trionfalismo ecclesiale che dominò per secoli, dovuto all’identificazione della Chiesa con il regno di Dio in terra, e pertanto alla convinzione di possedere tutta la verità e tutta la santità, entrò in crisi quando nel Vaticano II si cambiò la visione delle cose e si cominciò a pensare la Chiesa solo come un germe di tale regno (LG 5) e, per giunta, un germe marcato dall’imperfezione e persino dal peccato (LG 8.48). La drastica separazione tra regno della luce e della verità, presente nella Chiesa, e il regno delle tenebre e dell’errore, presente nel mondo, restò in quel modo superata. Si acquistò la convinzione che c’è regno di Dio lì dove si danno i valori del regno: l’amore, la giustizia, la verità, l’accoglienza reciproca, la libertà... e che tali valori si ritrovano nella Chiesa, ma anche nella società umana in quanto tale (cf «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» n. 50).
    È, in fondo, il tema dei «semi del Verbo» già presente nei più antichi Padri della Chiesa (cf Ad Gentes 11b). O anche ciò che diceva S. Paolo in una delle sue lettere: «In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4,8).
    In quel modo il Magistero andò acquistando coscienza dei suoi propri limiti, anche per quel che riguarda la sua capacità di identificare ciò che bisogna fare concretamente per organizzare e gestire adeguatamente la convivenza sociale. È sempre più frequente, nei documenti che la riguardano, la dichiarazione di una mancanza di competenza della Chiesa come tale in materie specificamente sociali, politiche e economiche, pur sostenendo, già a partire dalla «Rerum Novarum» (1891), la pertinenza evangelica del suo intervento in essi. Affermava Leone XIII:

    «Non si creda che le premure della Chiesa siano così interamente e unicamente rivolte alla salvezza delle anime, da trascurare ciò che appartiene alla vita morale e terrena» (n.22).

    E quaranta anni più tardi Pio IX sosteneva:

    «In Noi risiede il diritto e il dovere di giudicare con suprema autorità intorno a siffatte questioni sociali ed economiche (enc. Rerum novarum, n. 13). Certo alla Chiesa non fu affidato l’ufficio di guidare gli uomini a una felicità solamente temporale e caduca, ma all’eterna. Anzi non vuole né deve la Chiesa senza giusta causa ingerirsi nella direzione delle cose puramente umane (enc. Ubi arcano del 23 dicembre l922). In nessun modo però può rinunziare all’ufficio da Dio assegnatole, d’intervenire con la sua autorità, non nelle cose tecniche, per le quali non ha né i mezzi adatti né la missione di trattare, ma in tutto ciò che ha attinenza con la morale» («Quadragesimo Anno» n. 41, corsivi nostri).

    Nella «Populorum Progressio» (1967) di Paolo VI si coglie come pienamente acquisita la coscienza di tali limiti:

    «Esperta in umanità, la Chiesa, lungi dal pretendere minimamente d’intromettersi nella politica degli stati, ‘non ha di mira che un unico scopo: continuare, sotto l’impulso dello Spirito consolatore, la stessa opera del Cristo, venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità (cf Gv 18,37), per salvare, non per condannare, per servire, non per essere servito (cf Gv 3,17; Mt 20,28; Mc 10,45)’. Fondata per porre fin da quaggiù le basi del regno dei cieli e non per conquistare un potere terreno, essa afferma chiaramente che i due domini sono distinti, così come sono sovrani i due poteri, ecclesiastico e civile, ciascuno nel suo ordine [...]. In comunione con le migliori aspirazioni degli uomini e soffrendo di vederle insoddisfatte, essa desidera aiutarli a raggiungere la loro piena fioritura, e a questo fine offre loro ciò che possiede in proprio: una visione globale dell’uomo e dell’umanità» (n.13).

    Nitidezza nella distinzione delle competenze e allo stesso tempo offerta di aiuto, e in nessun modo imposizione di soluzioni: sono questi i tratti chiaramente marcati da tale dichiarazione.
    Qualche anno dopo, nella «Octogesima Adveniens» (1971), lo stesso papa dirà apertamente:

    «Di fronte a situazioni tanto diverse, ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore universale. Del resto non è questa la nostra ambizione e neppure la nostra missione» (n. 4, corsivi nostri).

    L’idea è anche presente con piena lucidità nei documenti sociali di Giovanni Paolo II (per esempio: «Laborem exercens» n.1d; «Centesimus Annus» n.43), e nel recente «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» (nn. 51.424).

    - Nella cornice di tale disposizione d’animo si inquadrano i nuovi compiti del Magistero sociale della Chiesa. Il principale e più caratteristico è quello di fare in prima persona la lettura dei segni dei tempi e aiutare tutti i membri della Chiesa a fare altrettanto.
    È un’attuazione dell’importante orientamento dato dalla «Gaudium et Spes» nei n. 4 e 11a, nei quali si afferma che «per svolgere questo compito [di servire il mondo], è dovere permanente della Chiesa scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo», e si assegna a tutto il Popolo di Dio il compito di «discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio».
    Si tratta quindi non di dedurre dai principi generali delle applicazioni alla realtà concreta, ma di mettere in opera il metodo del vedere-giudicare-agire introdotto, come è risaputo, dalla GiOC nella riflessione sulla fede, assunto poi ufficialmente ed espressamente dal Magistero della Chiesa universale (per esempio nella «Mater et Magistra» n. 236 e nella «Sollicitudo rei socialis» n. 8c), e adoperato dallo stesso Magistero pontificio soprattutto nei suoi documenti del sec. XX. Paolo VI, invitando nella «Octogesima Adveniens» (1971) le Chiese particolari o locali a utilizzarlo, affermava:

    «Spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese, chiarirla alla luce delle parole immutabili dell’evangelo, attingere principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione [...]. Spetta alle comunità cristiane individuare, con l’assistenza dello Spirito Santo – in comunione coi vescovi responsabili, e in dialogo con gli altri fratelli cristiani e con tutti gli uomini di buona volontà –, le scelte e gli impegni che conviene prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche ed economiche che si palesano urgenti e necessarie in molti casi» (n. 4).

    - Un ultimo tratto è quello sempre più fortemente accentuato del riconoscimento del ruolo di avanguardia del laicato nei compiti ecclesiali riguardanti la convivenza sociale.
    Già a modo suo, in una Chiesa ancora strutturata in maniera fortemente piramidale e clericale, la «Rerum Novarum» riconosceva la funzione importante svolta dai cattolici laici, singoli o riuniti in associazioni (n. 41).
    Sempre ancora nella cornice di quella Chiesa clericale, anteriore alle innovazioni ecclesiologiche del Vaticano II, e nella «Quadragesimo anno» si legge la seguente affermazione:

    «A Voi soprattutto, venerabili Fratelli, e al vostro Clero spetta cercare con diligenza, scegliere con prudenza, formare ed istruire con opportunità questa schiera di laici apostoli, sia di operai come di padroni. Un’opera certamente ardua s’impone ai sacerdoti, e per sostenerla, tutti quelli che crescono nelle speranze della Chiesa, debbono venirsi preparando con lo studio assiduo delle cose sociali. Ma soprattutto è necessario che quelli da Voi applicati in modo particolare a questo ministero, si mostrino tali, cioè forniti di tanto squisito senso di giustizia, da opporsi con una costanza del tutto virile, alle rivendicazioni esorbitanti ed alle ingiustizie, da qualunque parte vengano; è necessario che siano segnalati per prudenza e discrezione lontana da qualsiasi esagerazione; ma specialmente che siano intimamente compenetrati della carità di Cristo, che sola vale a sottomettere con forza e soavità i cuori e le volontà degli uomini alle leggi della giustizia e dell’equità» (n.144).

    Diverso sarà l’orientamento del Vaticano II che, nel suo profondo rinnovamento ecclesiologico, restituirà ai cristiani laici il posto e il ruolo che compete loro nella comunità ecclesiale (cf il c. IV della «Lumen Gentium» e il decreto «Apostolicam Actuositatem»). Afferma nella «Gaudium et Spes»:

    «Ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali [...]. Nel rispetto delle esigenze della fede e ripieni della sua forza, escogitino senza tregua nuove iniziative, ove occorra, e ne assicurino la realizzazione [...]. Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione; assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del magistero» (n. 43b).

    Si potrebbe dire che il Vaticano II, proclamando che la Chiesa è «serva dell’umanità», nel sottolineare in tale modo la sua tendenza transecclesiale riconobbe nei laici l’avanguardia della Chiesa: sono essi, i quali d’altronde costituiscono la maggior parte della comunità ecclesiale, quelli e quelle che, essendo più direttamente a contatto con le realtà sociali, economiche, politiche e culturali del mondo, sono anche più direttamente chiamati a farsi evangelicamente carico di esse.
    I documenti magisteriali postconciliari offrono numerose indicazioni in questa direzione (per es. «Populorum Progressio» n. 81; «Octogesima Adveniens» n. 48b; «Sollicitudo rei socialis» n. 47f; «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» nn. 83b. 541-574).

    I grandi principi della giustizia sociale

    Dai documenti analizzati emergono anche i grande principi della giustizia sociale che devono guidare l’impegno cristiano.

    - Il primo di essi, assolutamente fondamentale, è quello dell’uguaglianza oggettiva in dignità di ogni essere umano.
    È un principio che nella fede cristiana ha un radicamento molto profondo. Sin dalle prime pagine delle Bibbia, infatti, si afferma che Dio «creò l’uomo a immagine e somiglianza sua» (Gen 1,16-18, dove «uomo» equivale a «maschio e femmina»). E questa somiglianza con Dio è la radice ultima della sua dignità. Che questa poi sia una convinzione presente in tutte le pagine dei vangeli è facilmente documentabile: per Gesù, ogni persona umana è unica e irripetibile, oggetto indiscusso dell’amore del Padre e suo. Lo fa toccare con mano occupandosi in maniera privilegiata di coloro che, umanamente parlando, appaiono nella società del suo tempo come i meno degni di attenzione e stima: «Di essi è il regno dei cieli», sostiene egli tassativamente (Mt 19,14).
    L’insistenza dei documenti del Magistero sociale della Chiesa su questo punto è già notevole sin dai suoi primi momenti («Rerum Novarum» nn. 15b.19a.26b.30), ma a poco a poco si è andata facendo sempre più marcata. Basta una loro pur veloce lettura per rendersene conto. Lo constatava Giovanni XXIII nella «Mater et Magistra» (1963):

    «Da quel principio fondamentale, che tutela la dignità sacra della persona, il magistero della Chiesa ha enucleato, con la collaborazione di sacerdoti e laici illuminati, specialmente in questo ultimo secolo, una dottrina sociale che indica con chiarezza le vie sicure per ricomporre i rapporti della convivenza secondo criteri universali rispondenti alla natura e agli ambiti diversi dell’ordine temporale e ai caratteri della società contemporanea, e perciò accettabili da tutti» (n. 204).

    E nella «Centesimus Annus» (1991) Giovanni Paolo II dichiara:

    «Dopo la seconda guerra mondiale, [il Magistero pontificio] ha posto la dignità della persona al centro dei suoi messaggi sociali» (n. 61a).

    Tale dignità converte ogni essere umano in un «assoluto» che non può venir strumentalizzato e al quale tutto deve venir subordinato.
    E questa assolutezza della persona umana e della sua dignità incomparabile mette in crisi tutte le forme di società che non la rispettano o perfino la sacrificano, quelle cioè che si fondando su una visione che non la tiene presente.
    In che cosa consista poi concretamente tale dignità lo ha messo in evidenza il decreto «Dignitatis humanae» del Vaticano II:

    «Nell’età contemporanea gli esseri umani divengono sempre più consapevoli della propria dignità di persone e cresce il numero di coloro che esigono di agire di loro iniziativa, esercitando la propria responsabile libertà, mossi dalla coscienza del dovere e non pressati da misure coercitive» (n. 1).

    Se la dignità umana si radica, quindi, in ultima istanza, nel fatto che l’uomo è immagine di Dio (cf «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» nn. 35.105.108), prossimamente essa si fonda sul fatto che ogni uomo è dotato della capacità di «agire di propria iniziativa», di essere, in una parola, libero, padrone delle proprie decisioni, e quindi non determinato dal di fuori di se stesso. Ogni coercizione, sia fisica che morale o culturale o politica o economica o religiosa, costituisce pertanto una violazione della sua dignità e va accuratamente evitata se non si vuole calpestare o offuscare tale dignità (cf «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» n. 113).
    Naturalmente, come fa notare il testo conciliare, tale libertà va accompagnata da un’esigenza di responsabilità: proprio perché si è liberi nei confronti delle proprie decisioni se ne è anche responsabili. Una responsabilità che libera la stessa libertà da ogni forma di libertinaggio o di selvaggia soggettivizzazione, dal momento che è vissuta all’interno di una convivenza collettiva (cf «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» nn. 135-137).

    - Senza negare né sminuire il principio appena enunciato, il corretto impegno sociale fa riferimento a un secondo principio: la reciprocità o reversibilità, o ancora, in altra forma, la solidarietà (cf «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» nn. 192-195).
    L’uguale dignità di tutti gli esseri umani non è da intendere come un egualitarismo livellatore e amorfo di tutti e di tutto. Ogni persona umana è se stessa ed è differente dalle altre. Gli «altri» esistono, e non sono una semplice «clonazione» del proprio io. Perciò la convivenza sociale è una realtà viva e varia. La distribuzione dei benefici e dei pesi al suo interno deve indubbiamente tener conto dell’uguaglianza fondamentale di tutti, ma anche delle insopprimibili disuguaglianze delle capacità, dei meriti, dei compiti e delle responsabilità.
    In questo senso «l’uguaglianza non resta un principio sterile o un’utopia irreale; essa si traduce nella figura etica della reciprocità o reversibilità» (G. Gatti, Manuale di teologia morale, p. 310).
    In forza di tale principio si può considerare giusta quella determinazione di diritti e di doveri che continuerebbe a essere considerata tale se uno si trovasse nella posizione più svantaggiata tra quelle che contempla tale determinazione. Ciò implica la capacità di mettersi al posto degli altri e di giudicare ciò che è giusto o ingiusto tenendo conto del loro punto di vista.
    Si tratta, in definitiva, di modi differenti di esprimere il principio della universabilità contenuto nella «regola d’oro» del Vangelo: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12), e che Kant espresse nel suo famoso imperativo categorico: «Comportati in modo che la tua massima (la soluzione del problema di giustizia) possa valere come principio di legislazione universale».
    Alla luce del Vangelo questo criterio o principio della reciprocità che fonda la solidarietà, va completato con quello dell’opzione preferenziale per i poveri (cf «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» n. 182). Appunto perché il povero è colui la cui dignità è meno rispettata e spesso più calpestata, un agire ispirato agli orientamenti dati da Gesù non può non farlo oggetto di privilegiata attenzione.

    - Il principio di sussidiarietà completa e rende più concreto il precedente: la reciprocità o solidarietà non deve sopprimere o annullare l’autonomia e la libera iniziativa delle persone o dei gruppi sociali, né deve sostituirsi ad essi, ma deve piuttosto favorirle, incrementando la loro capacità di auto-organizzazione e di auto-promozione (cf «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» nn. 185-188).
    Nella «Centesimus Annus» (1991) viene raccolto il risultato di un notevole cammino di chiarimento e maturazione sul senso di questo principio, iniziato da Pio XI nella sua «Quadragesimo Anno» nei nn. 79-80. Afferma Giovanni Paolo II:

    «Una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune» (n. 48d).


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