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    Paesaggi dell’aggressività e farmaci esistenziali


     

    Cantieri dell’anima /3

    Fabio Gabrielli

    (NPG 2008-03-46)


    L’ANIMA MEDITANTE

    Lo scenario dell’aggressività, come è noto, rinvia ad una polivocità concettuale, ad una polifonia di significati, di forme, di atmosfere e riverberi esistenziali difficilmente riconducibili ad unità e, nel contempo, strutturalmente impossibili da trattare in modo esaustivo in poche righe.
    Ci limitiamo, qui, a declinare l’aggressività – che nella sua purezza concettuale è pulsione fondamentale per la conservazione dell’individuo e della specie – come ira, a delinearne le differenze con l’odio e a mostrare come il limite, la «giusta misura», si imponga come autentico farmaco etico ed esistenziale, soprattutto se riferito ad un armonico rapporto tra umiltà e orgoglio; da ultimo, ci soffermeremo sul rapporto tra volontà e aggressività.
    Per comodità del lettore, vista l’eterogeneità delle tematiche, scandiremo le nostre riflessioni in brevi sottoparagrafi.

    L’ira e l’odio

    «Anzitutto, più che il fatto che qualcuno ci faccia del male, è la convinzione che ce ne faccia che è pertinente. Infatti potrebbe non esser vero che Tizio mi fa del male, ma io potrei crederlo e di conseguenza odiarlo.
    Ma in secondo luogo, questa convinzione non è affatto sufficiente: deve essere accompagnata dalla convinzione che Tizio voglia anche farmi del male altrimenti l’odio è una risposta affettiva inappropriata. Un bambino che mi tira a cimento, un conoscente che non si rende conto di essere importuno, perfino un automobilista che rischia per distrazione di farmi del male, non suscitano ordinariamente in me delle emozioni capaci addirittura di instaurare una disposizione come l’odio. Intendiamoci bene: si può anche uccidere un uomo per molto meno che per odio nei suoi confronti, a questo riguardo la sindrome dell’automobilista infuriato è un triste esempio: e non è strano che l’ira sia sempre stata considerata un peccato capitale e sia purgata secondo Dante proprio là dove comincia il basso Inferno, e finiscono i semplici peccati di incontinenza o intemperanza. Ma se l’odio può senza dubbio essere iroso, l’ira, che è oltretutto un’emozione e non un sentimento, non comporta né di per sé è sufficiente a instaurare l’odio.
    In terzo luogo, occorre che io sia convinto che questo voler nuocermi dell’altro, questa sua, diciamo, intenzione malefica nei miei confronti non sia semplicemente un episodio impulsivo, come la crisi di collera che lo prende e il comporta¬mento aggressivo che ne segue. L’automobilista infuriato può uccidermi, ma in questo caso non fa in tempo a suscitare in me l’odio, e se non mi uccide, solitamente all’incrocio successivo me ne sono già dimenticata».

    L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire (ed. Garzanti), da cui sono tratte queste riflessioni, è un bellissimo libro di Roberta De Monticelli, una delle pensatrici più stimolanti e originali del panorama filosofico italiano contemporaneo.
    In questo saggio, uscito nel 2003, la De Monticelli esplora le molteplici forme della nostra affettività, riconducendole a quel centro informatore, a quella dimensione originaria di ogni integrazione affettiva che è l’ordine del cuore, inteso come feconda e partecipata espressione del nostro personale sentire (sentimento), ovvero di quella percezione di valori, positivi o negativi, delle cose profondamente radicata nella nostra sensibilità affettiva.
    Ebbene, nel corposo passo che abbiamo citato, la De Monticelli descrive con mirabile trasparenza la diversa geografia etica ed esistenziale dell’ira e dell’odio, rintracciandone la differenza originaria esattamente in questo: l’ira è un’emozione e per questo si alimenta dell’immediatezza, della provvisorietà, dell’intensità transitoria tipica delle emozioni, intese come risposte a situazioni interne o esterne, eccezionali o impreviste; l’odio, di contro, si configura come un sentimento, per cui rinvia allo strato propriamente personale della sensibilità. L’odio, insieme all’amore, costituisce, in negativo, il sentimento relazionale per eccellenza e, rispetto all’ira, si presenta come disposizione durevole, fondata sulla stabilità del sentire, mirata, in senso sostanziale e non accidentale, a distruggere il cuore, il centro vitale dell’odiato. In questo contesto, l’indifferenza nei confronti dell’altro si delinea come «l’ombra stessa dell’odio»: è la manifestazione più devastante, più lacerante della relazione con l’altro.
    L’indifferenza comporta il disseccamento delle radici del cuore, spogliato del sentire, un inaridirsi dei sentimenti, un buio dell’anima così profondo, che l’altro finisce per apparirci cosa tra le cose: incolore, scialbo, vuoto, privato di ogni tensione etica e affettiva.
    A questo proposito, Charles Péguy ha parole davvero superbe e decisive, che suggellano le nostre riflessioni: «C’è qualcosa di peggio di avere un’anima cattiva e anche del farsi un’anima cattiva: è avere un anima bell’e fatta. C’è qualcosa di peggio di avere un’anima perversa: è avere un’anima di tutti i giorni».

    L’ira e la «giusta misura»

    Aristotele, nell’Etica a Nicomaco, afferma che adirarsi in generale è facile, ma è cosa più difficile «adirarsi con la persona giusta, nella misura giusta, nel modo giusto, nel momento giusto e per la giusta causa».
    L’ira, depurata dai suoi eccessi virulenti, si configura come un tentativo di affermare se stessi, il proprio orizzonte di senso, la scala dei propri valori, delle proprie scelte esistenziali; dunque, come ogni altra passione, non va compressa od occultata con ipocrisia, bensì va arginata con vivo senso del «limite», va espressa con «misura».
    Incanalando l’ira nella «giusta misura», l’uomo non solo è in grado di ottenere ciò che si è prefissato, ma rafforza anche la propria autostima, poiché capace di gestire con coraggio, lucidità, opportunità la propria dimensione interiore più umbratile e minacciosa.
    Il problema è che a furia di comprimere le nostre passioni o, all’opposto, a furia di scatenarle indebitamente, finiamo per rendere queste stesse passioni immorali e a non vederle più come dinamiche naturali del corpo e dell’anima in perfetta corrispondenza tra loro.
    Insomma, l’ira esplode in tutta la sua virulenza, quando viene meno il concetto di «giusta misura» – di temperanza –, con i suoi connessi valori che, come ci ricorda la sapienza greca, consistono nel conveniente, nell’opportuno, nel doveroso.
    In questo senso, seguendo la filosofia degli Stoici, occorre calibrare la virtù come scienza pratica.
    Ecco, a questo proposito, un’eloquente testimonianza di Olimpiodoro: «Ogni virtù è saggezza, perché ogni virtù conosce quel che si deve fare; ogni virtù è coraggio perché sa come affrontare la lotta; ognuna è temperanza, perché incita al meglio; ognuna, infine, è giustizia perché alle azioni da compiere assegna il dovuto».
    Quanto stiamo dicendo, calibrato sulle dinamiche giovanili, assume particolare importanza nella misura in cui i giovani hanno il diritto-dovere di urlare la loro rabbia contro un mondo solo apparentemente adulto, contro l’esibizione di vissuti consumistici o produttivistici a discapito dell’essenziale, dei valori etici ed estetici che umanizzano il mondo.
    La nostra, in questo senso, si configura vieppiù come civiltà della vergogna, con particolare riferimento al mondo dei giovani. La vergogna nasce dal declino delle ingiunzioni e dei divieti, la cui trasgressione nella società tradizionale comportava l’insorgenza del conflitto interiore, della colpa, e dall’imporsi a tutto tondo di un nuovo sistema valoriale, dove conta solo che il figlio, spesso unico, incarni e realizzi pienamente gli ideali genitoriali o sociali. Tutto questo origina una dialettica perversa, all’interno della quale il figlio deve eccellere in tutto come prolungamento narcisistico dei genitori e offrire un’immagine efficiente, sempre all’altezza così come richiede l’efficientismo tecnologico. Se a questo aggiungiamo che i nostri giovani devono anche configurarsi come macchine consumatrici entro un Mercato che gratifica socialmente e accetta solo chi si omologa alle sue continue richieste, il quadro esistenziale complessivo non può che risultare disumanizzante, e l’anima, ormai corrosa e spogliata della sua natura, finisce per perdere ogni traccia di sé.
    La pluralità delle richieste, la disorientante quantità delle offerte, la complessità di informazioni le cui fonti sono talmente ramificate tra loro che non se ne riconosce più l’origine, le ininterrotte voci del mondo, che la già fragile identità dei giovani non può accogliere in toto e sedimentare nell’anima, costituiscono la causa fondante la delusione, la frustrazione, l’ira, che tracima in un’esasperata aggressività verso se stessi e il mondo, dei nostri ragazzi, i cui vissuti sono contrassegnati dal de-centramento di sé, dallo smarrimento di senso, dall’opacità esistenziale, dall’eclissi della fiducia, dalla vergogna di fronte a se stessi e agli altri.
    Per impedire che la vergogna, subdola, disperante, terribilmente dolorosa, debordi in manifestazioni violente o, più in generale, in forme depressive, occorre veramente recuperare il significato dell’ira come «giusta misura», come volontà, intelligenza e coraggio di pronunciare un no risoluto, giustamente rabbioso nei confronti di un mondo inospitale.
    Ci sembra chiaro che la giusta ira non nasce spontaneamente nei giovani, ma abbisogna di una scuola adulta, dalla quale siano bandite parole come tempo della produzione, gratificazione professionale ed economica ad oltranza, giovanilismo, cultura modaiola, mutismo dell’anima.

    L’uomo tra umiltà e orgoglio

    La capacità di contenere l’ira entro la «giusta misura» permette, inoltre, all’uomo di calibrare in modo armonico il rapporto tra umiltà e orgoglio.
    Cartesio, interrogandosi sulla natura dell’«umiltà virtuosa», faceva queste riflessioni:

    «Così i più generosi sono di solito i più umili; e l’umiltà virtuosa consiste solo in questo, che il nostro riflettere alla debolezza della nostra natura e alle colpe che possiamo aver commesso in passato, o che siamo capaci di commettere, non inferiori a quelle di cui altri si possono macchiare, ci porta a non preferirci a nessuno, e a pensare che gli altri, forniti come noi di libero arbitrio, possono del pari farne buon uso».

    L’«umiltà virtuosa» è strettamente legata alla generosità e al connesso dominio sulle passioni.
    Ecco ancora Cartesio:

    «Chi è generoso a questo modo è naturalmente portato a fare grandi cose, e tuttavia a non intraprendere nulla di cui non si senta capace; e stimando che niente sia più importante del bene fatto agli altri, e del disprezzo del proprio interesse, è sempre perfettamente cortese, affabile e servizievole con tutti. Inoltre è perfettamente padrone delle proprie passioni, e soprattutto dei desideri, della gelosia e dell’invidia, perché non attribuisce a nessuna cosa, il cui acquisto non dipenda da lui, abbastanza valore per desiderarla intensamente; ed è padrone dell’odio verso gli altri, perché li stima tutti; della paura, perché la fiducia nella virtù lo rassicura; della collera, infine, perché dando pochissimo peso a tutte le cose dipendenti da altri, non attribuisce mai tanta importanza ai propri nemici da riconoscersene offeso».

    Facendo nostre le affermazioni cartesiane e rielaborandole sul piano esistenziale, possiamo dire che la dialettica umiltà-generosità consiste in questo: solo chi riconosce il proprio limite, la terra, segno della finitezza di cui è intessuto, può aprirsi alla dimensione dell’altro, dominando o, perlomeno, arginando, le proprie passioni, per poterlo riconoscere nella sua nudità, nella strutturale contingenza che abita la sua carne e contrassegna la sua anima.
    In altri termini, solo partendo da un consapevole stato di povertà esistenziale, dal riconoscimento dei limiti che il nostro stare al mondo ci impone, possiamo solidarizzare con gli altri, non disprezzarli, e riconoscere, quindi, nei loro volti questi stessi nostri limiti, accettandoli con umile generosità.
    Tuttavia, per quell’ambivalenza che sovente contrassegna le cose del mondo, c’è anche un aspetto negativo dell’umiltà: il mancato riconoscimento delle nostre qualità, della positività con cui caratterizziamo il nostro stare al mondo.
    Insomma, la falsa umiltà consiste esattamente in questo: scambiare il giusto orgoglio per superbia o arroganza e, quindi, celare le proprie oggettive qualità dietro una falsa, mistificante umiltà che, al pari della superbia o dell’arroganza, è un disconoscimento della nostra dignità intellettiva, etica ed esistenziale.
    È qui che entra in gioco l’orgoglio, inteso come autentica dimensione umana, come, per dirla con Hume che sull’orgoglio ha fatto affermazioni decisive, «piacevole impressione che nasce nella mente quando ci sentiamo soddisfatti di noi stessi, per la nostra virtù, bellezza, ricchezza…».
    Umiltà e orgoglio dipendono strutturalmente dall’idea che abbiamo di noi stessi: ecco perché occorre una ben fondata coscienza di sé per saper riconoscere quando e dove dobbiamo arrestare l’espansione del nostro io, quando la nostra autostima è giusta; quando l’umiltà, da espressione del riconoscimento dei nostri limiti, sconfina nel mancato riconoscimento delle nostre effettive qualità; quando l’orgoglio, da consapevole forma di giustizia verso le proprie qualità, tracima nella vanità, nella superbia o nell’arroganza.
    In definitiva, il nostro essere al mondo dipende strutturalmente dal nostro agire e operare, rispettando noi stessi per quanto di fecondo e degno di autostima e di stima altrui portiamo in questo agire, e, nel contempo, non scambiando mai la giusta umiltà o riconoscimento dei nostri ineludibili limiti con il mancato riconoscimento delle nostre qualità, con la connessa sottomissione agli altri e la perdita di ogni forma di dignità.

    Volontà e aggressività

    In primo luogo, è necessario distinguere quella che chiamiamo una volontà che afferra da una volontà che progetta, declinabile nelle forme dell’impegno, della faticosa conquista, del rischio, del riconoscimento della nostra finitudine e di quella degli altri, dell’apertura dialogica e affettiva alla comunità.
    La volontà che afferra si attiva come im-posizione sull’uomo e sul mondo, ubbidisce unicamente al principio del proprio soddisfacimento e della propria forza; alle grammatiche esistenziali dell’ascolto, dell’apertura di senso, del riconoscimento, del lambire e dello sfiorare con pudore il mondo sostituisce quelle dell’afferrare per possedere, del signoreggiare sugli altri Volti, dell’invasività predatoria, dei moti interiori egoistici e utilitaristici; la volontà che afferra rinvia ad un io inteso come amor proprio, volere proprio, utile proprio.
    La volontà che progetta, invece, si configura come volontà autentica nella misura in cui riconosce nell’uomo un essere progettante, capace di declinare il mondo secondo le sue aperture di senso, secondo le sue scelte, caratterizzate da fedeltà, impegno, relazione affettiva con l’altro, con la consapevolezza del rischio, dell’implosione di senso da cui queste scelte sono da sempre abitate.
    Accettare la nostra finitezza, essere consapevoli che i nostri progetti possono riuscire e rendere appagante la nostra vita e quella di coloro che ne beneficiano in un autentica relazione tra anime, ma, nel contempo, riconoscere che possono anche essere attraversati dalla lacerazione, dal naufragio, dallo scacco o dalla parziale riuscita... significa stabilire con le altre finitezze un rapporto di empatia, di condivisione etica, esistenziale, affettiva della nostra fragilità.
    Il riconoscimento della nostra finitezza costituisce davvero la chiave per entrare nel mondo, quello in carne e ossa, quello dei volti che costituiscono la cifra suprema di ogni autentica comunità: senza questo riconoscimento non c’è impegno esistenziale, non c’è testimonianza, né fede, né un serio mondo di valori, né responsabilità.
    Detto altrimenti, senza cultura della fragilità umana, l’esistenza si banalizza, si spegne, diventa scenario della parola vuota, inopportuna, del rumore, della chiacchiera per celare il mutismo interiore.
    La volontà che progetta, da ultimo, deve essere sempre accompagnata dalla solitudine, che non è quella del misantropo, di chi si chiude all’esistenza, alla relazione con il tu dialogante, bensì di colui che cerca una provvisoria sospensione dell’agire, del fare, in nome di un’autentica esigenza di raccoglimento che gli permetta di cogliere in ampiezza e profondità il senso del vivere. La solitudine, come introspezione, scavo interiore, duro lavoro di dissodamento dell’anima, viene a delinearsi, in ultima analisi, come continua riapertura degli occhi, come «dilatazione delle pupille» su ciò che si deve fare e si deve essere, in modo da riaprirsi al mondo carichi di energie positive.

    IL PENSATOIO

    – Tra le cause della crescente aggressività dei giovani verso se stessi e il mondo (devianza, bullismo, tifo-ultrà, uso spericolato di motorini e macchine, scritte sui muri, disturbi del comportamento alimentare, tentativi di suicidio, dispersione scolastica) spiccano, in particolare, l’atmosfera emotiva fredda che circonda i nostri ragazzi (l’età della tecnica con le sue grammatiche esistenziali improntate all’efficienza, alla produttività, al mero possesso, all’esibizione di pseudoabilità o al ripiegamento inautentico su se stessi), lo smarrimento della figura paterna come generatore simbolico ineludibile (dal coraggio con cui affrontare il mondo alla trasmissione dei fondamentali codici etici), il complesso problema dell’identità materna ferita (la continua oscillazione tra famiglia e carriera professionale, soprattutto in un’epoca dove si conta soprattutto per il ruolo sociale, o meglio tecnologico), il passaggio da una civiltà della colpa ad una della vergogna (dal «tu devi»al «tu mi deludi», ovvero il progressivo venire meno del Sé dei giovani, da cui germina il sentimento della vergogna a causa delle proiezioni narcisistiche di genitori sempre più confusi sui loro figli, dai quali si attendono la capacità di primeggiare in tutto: dalla scuola, allo sport, alle dinamiche relazionali, all’esibizione di una corpo da modelli/e).
    Riteniamo utile, in questo senso, la lettura dello splendido saggio curato da Elena Rosci, Fare male. Farsi male. Adolescenti che aggrediscono il mondo e se stessi, Franco Angeli, Milano 2003.
    Per le modalità operative, potreste invitare i ragazzi del vostro gruppo a manifestare i sintomi del loro disagio, della loro aggressività, nei casi più delicati in forma anonima, per poi raccogliere le loro riposte e metterle a confronto con quelle di altri giovani, le ragioni della cui aggressività potrebbero essere raccolte a mo’ di intervista/inchiesta dai vostri ragazzi – la conoscenza diretta, sul campo, è sempre la migliore! –, andando per le strade o frequentando i tradizionali luoghi di ritrovo giovanile.

    – Il silenzio costituisce il luogo privilegiato dell’amore autentico, la custodia della sua fragilità e delicatezza, ma anche il cantuccio in cui far decantare l’ira, la rabbia, l’aggressività verso sé stessi e il mondo.
    Partendo dalle seguenti splendide parole di Louis Lavelle, confrontatevi con i vostri ragazzi sul senso del silenzio, su quali luoghi privilegiano per stare soli a smaltire rabbia, delusione o ricaricarsi di energie per rimettersi in cammino: «È soltanto nel silenzio che l’amore prende coscienza della sua essenza miracolosa, della sua libertà e della sua potenza di intimità. Le parole distruggono la sua fragile delicatezza e la sua grazia sempre nascente[…]. Se la parola è come un fiume che porta la verità da un’anima verso l’altra, il silenzio è come un lago che la riflette e nel quale tutti gli sguardi vanno a incontrarsi»
    (Cit. in S. Deison, Il canto del silenzio, Paoline, Milano 1995. Un libro da leggere, guardare per le splendide fotografie, ma soprattutto ascoltare per le voci poetiche e filosofiche riportate con scelte davvero felici).

    – «L’errore di fondo è sempre lo stesso: si crede o si immagina che l’uomo sia come l’ape che non può allontanarsi dal compito che essa ha nello sciame. Ma nella realtà della vita, l’uomo dipende continuamente dalle scelte che compie, e deve imparare a renderle compatibili con quelle degli altri e benefiche per se stesso. E può impararlo soltanto dalle esperienze che fa nel rapporto con gli altri, nel confronto con se stesso, nell’urto con le difficoltà e i problemi che la vita ad ogni istante gli presenta. Abbandonandosi, senza limiti e senza scelta, agli impulsi del momento, si isola dagli altri e impone al suo volto una maschera nella quale egli stesso non può riconoscersi» (N. Abbagnano, La saggezza della vita, Rusconi, Milano 1994).
    Chiedete ai vostri giovani cosa pensano di queste riflessioni di Nicola Abbagnano, se hanno attinenza con la loro vita quotidiana, se c’è qualche film o canzone o siti Internet in cui hanno trovato concetti simili, o anche antitetici.

    – L’aggressività che oggi ci contraddistingue è legata a quello che Carlo Maria Martini chiama «tempo dell’ansia».
    Siamo sempre in affanno, il tempo sembra non bastare mai, tant’è che il filosofo Michel Serres c’invita a lasciare l’orologio per riprenderci il tempo.
    Accanto al «tempo dell’ansia», Martini individua anche «il tempo della frustrazione», perché ci sfugge continuamente di mano, «si sbriciola».
    Ebbene, per incanalare in un tempo così sfuggente affermazioni lavorative o gratificazioni sociali, l’uomo del nostro tempo ha sviluppato un’aggressività esasperata nei confronti dell’ambiente e soprattutto degli altri, visti come potenziali nemici, agguerriti concorrenti nella scala del successo.
    Insomma, è opinione diffusa che solo uno «spirito guerriero» possa imporsi in un mondo sempre più competitivo, dove chi resta indietro è destinato all’estinzione.
    In questo modo, però, l’anima si ammala e reagisce a questa concezione del tempo con una iperattività che rischia di tracimare in un’inautentica, cronicizzata ansia esistenziale o declinare in forme depressive, di fuga dal mondo, di lacerante chiusura nel proprio sé. Discutetene, a partire da questi spunti, con i vostri giovani.

    – Commentate con i vostri ragazzi queste parole di Chiara Lubich (il patto di misericordia), cercando di far emergere dai loro vissuti le umane difficoltà, che solo la dottrina dell’amore sa arginare, nel sopportare con pazienza, mitezza, senza farsi prendere dall’ira, gli errori degli altri:
    «Specie agli inizi non era sempre facile vivere la radicalità dell’amore. Anche fra noi, sui nostri rapporti, poteva posarsi della polvere, e l’unità poteva illanguidire. Ciò accadeva, ad esempio, quando ci si accorgeva dei difetti, delle imperfezioni degli altri e li si giudicava, per cui la corrente d’amore scambievole si raffreddava. Per reagire a questa situazione abbiamo pensato un giorno di stringere un patto fra noi e lo abbiamo chiamato «patto di misericordia». Si decise di vedere ogni mattina il prossimo che incontravamo – in focolare, a scuola, al lavoro, ecc. – nuovo, nuovissimo, non ricordandoci affatto dei suoi difetti, ma tutto coprendo con l’amore. Era avvicinare tutti con questa amnistia completa nel nostro cuore, con questo perdono universale» (Parole di vita, settembre 2007).

    – Di fronte ad un’aggressività sempre più marcata nei confronti della terra vale la pena di meditare su questi superbi versi di Ernesto Cardenal, il poetamistico nicaraguense della liberazione.
    Si tratta di un invito ad ascoltare i suoni e le voci della natura per decifrare il linguaggio del Creatore (il testo è riportato nel bellissimo libro di Carlo Fiore, Il Credo per i giovani. Commenti al «Simbolo apostolico», Elledici, Torino 2005):
    «Tutti gli animali che alle prime luci dell’alba elevano la loro voce cantano Dio. I vulcani e le nubi e gli alberi ci gridano Dio. L’intero creato ci grida insistentemente, potentemente l’esistenza, la bellezza, l’amore di Dio. E la musica ce lo fa risuonare nelle orecchie, e la campagna ce lo fa scorrere davanti agli occhi.
    [...] In tutta la natura noi cogliamo le iniziali di Dio. Tutti gli esseri creati sono lettere d’amore che Dio ci scrive. La natura è avvolta dalle fiamme dell’amare, è stata creata dall’amore per accendere in noi l’amore.
    [...] La natura è come un’ombra di Dio, un riflesso della sua bellezza. Le tranquille acque azzurre del mare riflettono Dio. Ogni atomo accoglie in se stesso una figura della Trinità, del Dio uno e trino. Lo stesso mio corpo è stato creato per amore a Dio. Ogni mia cellula è un inno che s’innalza al Creatore, una continua dichiarazione d’amore».
    L’educatore potrebbe partire dalla seguente pista di riflessione: quali analogie trovate, se le trovate, tra una dichiarazione d’amore alla propria ragazza/o, alla natura e a Dio?

    L’ANIMA IN AZIONE

    – In questa sezione del nostro percorso vorremmo sottolineare un aspetto davvero inquietante dell’aggressività: l’attentato della tecnica, nel suo uso più esasperato, all’ecosistema.
    Si tratta di una forma di aggressività non emotiva, immediata come l’ira, bensì calcolata, progettata, resa operativa dalla tecnica e finalizzata al cinico dominio della natura.
    Lo smarrimento della dimensione estetica, capace di rimettere l’io intellettivo, affettivo e volitivo sulle tracce dell’unità, della verità e della bontà del creato, sta portando, così, ad una progressiva usura della terra, intesa, obliata la contemplazione disinteressata del bello, solo come luogo di manipolazione e appropriazione.
    Occorre, dunque, rieducare tutto l’uomo, e soprattutto le giovani generazioni, ad uno sguardo attento, pudico, comprensivo della fragile bellezza della terra.
    Come?
    Per esempio dando vita a laboratori creativi per insegnare l’ecologia ai nostri giovani: riciclare rifiuti, analizzare la composizioni delle acque, misurare il consumo energetico, proteggere gli animali del bosco, verificare i livelli di inquinamento delle automobili…
    In questo senso occorre articolare un progetto ecologico con i nostri ragazzi, facendosi eventualmente aiutare dalla Lega Ambiente o da qualche Associazione impegnata nella difesa dei beni naturali, e sottoporlo all’attenzione degli Assessorati all’Ecologia e alla Sicurezza dei singoli territori di appartenenza, al fine di renderlo effettivo.
    Non è un percorso facile, ma, come insegnava Platone, le cose difficili sono belle!

    – «Si aggredisce per affermarsi, per imporsi, ma anche semplicemente per esistere, per non essere travolti, per dar voce al proprio fiato. Così infinite volte sono aggressivo per puro riflesso, condizionato dalle affermazioni, sospinto dall’antagonismo di chi mi sta attorno, e preme per emergere, agitandosi frenetico in questo mare tempestoso che è la società, dove chi non sa nuotare finisce per andare a fondo».
    (C. Castellaneta, Dizionario dei sentimenti, Rizzoli, Milano 1980).
    A partire da queste considerazioni dello scrittore Carlo Castellaneta, scegliete le riflessioni più interessanti dei vostri ragazzi e invitateli a scriverle sul giornalino parrocchiale come tema di discussione nell’ambito della vostra comunità.


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